Anche in tempi pandemici la competizione tra potenze non trova pausa. Cambiano i metodi, non i fini. L’America, alle prese con il malessere interno, sacrifica il soft power in nome dell’interesse nazionale.
Il vincolo interno americano
Gli Stati Uniti alla guida della risposta globale contro il Covid-19 e degli sforzi per la ricerca, la produzione e la distribuzione di un vaccino. È quanto Joe Biden aveva promesso in campagna elettorale, rilanciando un idealismo multilaterale volto a recuperare agli occhi degli alleati e dei partner la reputazione internazionale di una superpotenza irrequieta. Percepita come attore “egoista” che sovrasta le istituzioni multilaterali, ritraendosi all’interno del proprio guscio nazionale.
Ma l’immediato ripristino di un ruolo altruistico della superpotenza si scontra con un’America profonda che, a far data dalla fine della Guerra Fredda, chiede al Commander-in-Chief di turno una maggiore attenzione agli affari e ai problemi interni. Afflitta dalle esternalità negative (economiche, psicologiche, sociali, culturali) della dimensione imperiale globale, in termini di posti di lavoro persi, deindustrializzazione, costante crescita dell’immigrazione, conflitti etno-identitari e razziali, essa reclama l’attenuazione del fardello egemonico. Il Covid-19 ha acuito queste sofferenze. Miscelato alle proteste di Black Lives Matter e alle tensioni sociali esplose nel drammatico assalto a Capitol Hill, ha costituito un terreno fertile per gruppi e milizie antigovernative armate materialmente ed idealmente da teorie del complotto escatologiche.
Il coronavirus ha falcidiato più di 527.000 americani (record assoluto, 1/5 delle vittime mondiali) e ampliato le diseguaglianze socio-economiche interne. La ricchezza dei miliardari americani è cresciuta di 1 trilione di dollari, toccando l’astronomica cifra di 4 trilioni, il doppio di quanto detenuto dai 165 milioni di americani più poveri, aumentati di oltre 8 milioni negli ultimi sei mesi del 2020 (+2,4%), specie tra le minoranze e negli Stati del Sud. La pandemia ha prodotto il più ampio calo nell’aspettativa di vita degli americani dalla Seconda guerra mondiale, colpendo in particolar modo neri (-2,7 anni) ed ispanici (-1,9), rispetto ai bianchi (-0,8).
La competizione esterna
È questo profondo malessere domestico che spiega l’approccio virale all’insegna dell’“America First” adottato da Trump. Il repubblicano ha finanziato con 12 mld$ (Operazione Warp Speed) la ricerca sui vaccini, dietro la condizione che le aziende farmaceutiche impegnate nella loro produzione e distribuzione (Pfizer-BioNTech; Moderna) consegnassero le dosi disponibili al paese di bandiera. Lo stesso ha fatto il Regno Unito (Uk) con Oxford-AstraZeneca, offrendo prezzi più alti per coprire la natura geopolitica del rapporto. Generando i colli di bottiglia per cui in Europa non vediamo arrivare vaccini a sufficienza. Conseguenza di una carenza d’offerta, non di mancanze pecuniarie per gli acquisti. In questa fase iniziale, il numero di dosi disponibili è minore di quelle già prenotate e opzionate dai vari paesi.
Situazione aggravatasi per l’Europa con il cambiamento d’approccio dell’amministrazione Biden che ha acquistato altre 200 milioni di dosi con l’obiettivo di vaccinare tutti gli adulti americani entro la fine di maggio. Accelerando la distribuzione dei vaccini Pfizer e Moderna (presto anche Johnson & Johnson approvato d’emergenza dalla Food and Drug Administration) con una tattica più aggressiva. Distribuendo tutte le prime dosi disponibili, comprese quelle (il 50%) che l’amministrazione Trump aveva destinato a riserva per il “richiamo”, al 28% della popolazione, un dato 3 volte superiore alla media europea (meglio hanno fatto solo Israele, 103%, Eau, 63%, e Uk 35%).
Per mascherare l’approccio “America First”, la Casa Bianca ha quindi versato 2 mld$ (più altri 2 nei prossimi 2 anni) nell’iniziativa multilaterale COVAX. Guidata dall’Oms, essa mira a sopperire alla carenza di dosi per il Sud del pianeta, prevedendo la distribuzione di vaccini al 20% della popolazione di 92 paesi in via di sviluppo (circa 3,6 miliardi di persone). Programma le cui ambizioni si sono scontrate con il nazionalismo delle principali potenze che, pur partecipando all’iniziativa, hanno concluso accordi bilaterali con Big Pharma. Così, secondo un rapporto del gruppo di ricerca dell’Economist Intelligence Unit, i paesi poveri o in via di sviluppo di Africa, Sud America ed Asia raggiungeranno l’immunizzazione non prima del 2023, se le tendenze rimangono quelle attuali.
Conclusioni
La distribuzione dei vaccini segue criteri politici, che si scontrano con l’obiettivo sanitario ed economico di contenere le mutazioni genetiche del virus e i rischi di insolvenza nei paesi più poveri, che potrebbero contagiare quelli più ricchi. Così, dopo aver condotto attacchi “spear phishing” contro le aziende farmaceutiche occidentali per sottrarne il know-how, russi e cinesi stanno sacrificando i programmi di immunizzazione domestica per condurre scenografiche operazioni di influenza all’estero, testando i vaccini autoctoni presso popolazioni allogene. Per punzecchiare la superpotenza, per acquisire crediti politici nei confronti dei suoi soci, insinuandosi nelle sue sfere d’influenza. Con Pechino interessata anche ad allontanare da sé le responsabilità per l’originaria diffusione e mala gestio della pandemia, per attenuare danni all’immagine esplosi a livelli record nel corso del 2020.
Pechino ha distribuito i propri vaccini (CanSino Biologics, Sinopharm, Sinovac) in più di 45 paesi, con focus primario in quelli interessati dalle vie della Seta (Pakistan, Asean), come quelli dell’Europa centro-orientale, membri del Forum 17+1. Con Mosca che ha magnificato la natura geopolitica della sua campagna vaccinale, estesa a 45 paesi, battezzando Sputnik V il suo prodotto di punta. Russia e Cina stanno agendo da fornitori del Sud povero o in via di sviluppo, penetrando anche nel “giardino di casa” (America Latina) della superpotenza.
Esportano le fiale nazionali nel proprio “estero vicino”, per puntellare la loro influenza. Le consegnano a paesi strategici per Washington (Brasile, Messico, Egitto, Iraq, Eau, Bahrein, Filippine) e ai suoi massimi rivali in Medio Oriente (Iran, Turchia) e Sud America (Venezuela). Quindi, si incuneano nel ventre molle d’Europa (Ungheria, Slovacchia, Serbia, con Croazia e Polonia che potrebbero seguire), lungo la dorsale balcanica-danubiana. In attesa di essere invitate da quella occidentale, sfruttandone le carenze di dosi, assistendo allo sfaldamento della compattezza europea.
L’aggressività narrativa, transazionale e unilateralista di matrice trumpiana e la sua (non) gestione virale hanno provocato un vulnus all’immagine americana, precipitata a livelli minimi dai tempi della guerra in Iraq del 2003. Anche tra il nucleo duro dell’Occidente strategico – Regno Unito, Francia, Canada, Giappone, Australia e Germania. Percepita come assente nell’ora del bisogno. Eppure, fronteggiando di petto il virus, senza chiudersi in casa, gli americani hanno confermato la loro capacità di stare al mondo, di sopportare le sofferenze e le violenze.
Washington ha scientemente rinunciato, nel breve termine, a competere nella diplomazia degli aiuti con i rivali russi e cinesi, cui ha concesso vantaggi tattici. Convinta che la partita vaccinale in corso non sarà un game changer strategico. Che la corsa al vaccino sarà vinta da chi riesce a metter per primo le mani sul nuovo “Sacro Graal” otterrà un vantaggio competitivo, sia in termini di ripresa produttiva ed economica, sia in termini strategici, sottraendosi più velocemente ai rischi di tumulti civili e di disgregazione del tessuto connettivo sociale connessi a lockdown eccessivamente prolungati o a singhiozzo.