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La ferrovia Addis Abeba-Massaua: un’opportunità per l’Italia nella corsa all’Africa

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Costruire una ferrovia per collegate la capitale etiopica Addis Abeba al porto eritreo di Massaua è sempre stato uno degli obiettivi strategici dell’Italia. Nella fase dell’imperialismo liberale (1882-1896) quella strada ferrata era vista da Roma come uno dei mezzi di penetrazione pacifica nell’Impero salomonide da attuare in concorso – in alcune fasi – o in alternativa alle armi. Nel breve, ma significativo, periodo d’esistenza dell’Africa Orientale Italiana (1936-1941) la costruzione della ferrovia, che avrebbe collegato la capitale dell’Impero al suo principale porto in espansione, fu avviata e mai terminata a causa della sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale.

Costruita tra il 1887 ed il 1932, la ferrovia Massaua-Asmara è stata pensata dagli italiani come la prima frazione della più grande opera che si sarebbe spinta poi nel cuore dell’Impero d’Etiopia; interrotta a causa del conflitto eritreo-etiopico, è stata poi riattivata dal 1994 al 2003 ed oggi viene percorsa essenzialmente a scopo turistico poiché le autorità eritree non hanno a disposizione i mezzi adatti ad affrontare i dislivelli esistenti tra i capolinea.

La più importante opera ingegneristica della storia coloniale d’Italia è tornata improvvisamente agli onori della cronaca nel gennaio scorso quando il premier etiopico Abiy Ahmed ha incontrato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiarando in conferenza stampa che l’Italia avrebbe finanziato lo studio di fattibilità per la ferrovia Addis Abeba-Massaua il cui percorso passerebbe inevitabilmente per la linea Asmara-Massaua. In quella sede, non furono però comunicati né i tempi previsti, né la somma necessaria a condurre lo studio di quella che sarebbe, senza ombra di dubbio, non solo una grande opera atta a garantire maggiori profitti all’import/export etiopico e l’aumento dell’indotto commerciale per l’Eritrea, ma anche a consegnare a Roma le “chiavi” di un utile strumento di collaborazione e penetrazione nelle sue due ex colonie.

Sarebbe un peccato perdere questa occasione, a maggior ragione perché il Governo italiano ha mostrato, nel corso degli ultimi tempi, vivo interesse ad estendere la propria influenza in una regione d’interesse vitale come il Corno d’Africa ed il Mar Rosso. Per fare alcuni esempi basti ricordare la visita del Ministro della Difesa Elisabetta Trenta a Gibuti durante il quale si è parlato delle operazioni militari di contrasto alla pirateria a Bab el Mandeb, il colloquio fruttuoso alla Farnesina tra i Ministri degli Esteri italiano ed eritreo e la Nave “Marceglia” della Marina Militare divenuta flagship della Missione Atalanta. Senza dimenticare poi l’apporto di aziende italiane di respiro internazionale come Calzedonia che ha scelto di aprire uno stabilimento produttivo a Macallè, città che rimanda alle glorie delle armi italiane durante l’assedio etiopico della città nel 1895-1896 ma che oggi è soprattutto uno dei principali centri economico-industriali dell’Etiopia con siti produttivi legati all’industria siderurgica e cementizia.

Proprio Macallè sarebbe una delle stazioni principali della ferrovia Addis Abeba-Massaua assieme alla capitale eritrea Asmara ed alla città etiopica di Auasc, nella regione dell’Afar. Quest’ultima è anche una delle stazioni della nuova ferrovia internazionale Addis Abeba-Gibuti, inaugurata nel 2016 dopo cinque anni di lavori e costruita interamente con capitali e materiali cinesi. Questa ferrovia è parte integrante della “corsa all’Africa” della Cina, con il governo di Pechino che punta alla colonizzazione finanziaria del Continente nero attraverso aiuti economici diretti – come i 60 miliardi di dollari del fondo comune per lo sviluppo dell’Africa voluto da Xi Jinping nel 2018 ed annunciato al Forum per la cooperazione tra Africa e Cina (FOCAC) – e la collaborazione cinese alla costruzione di infrastrutture, specie portuali e ferroviarie, nei Paesi che più sono indebitati con le banche d’investimento di Pechino come l’Angola, il Kenya, lo Zambia e, per l’appunto, Gibuti.  Gibuti è destinato ad assumere debiti pubblici pari a circa l’88% del Pil totale del paese, di 1,72 miliardi di dollari, con la Cina che ne detiene la maggior parte e che quindi ha preteso una fetta importante dei lavori sugli ammodernamenti infrastrutturali del piccolo ma strategico Stato del Corno d’Africa. La Dept Trap Diplomacy cinese ha nella stessa area d’interesse italiana un ruolo strategico fondamentale ed è proprio in Pechino che Roma dovrà cercare un partner fondamentale per portare a compimento i progetti, attualmente su carta, nella regione che dall’entroterra etiopico arriva fino alle sponde del Mar Rosso.

Per questioni geografiche, politiche ed economiche, dunque strategiche, l’Italia ha la necessità di rimettere piede nel suo ex impero coloniale da partner dei governi di Asmara ed Addis Abeba; uno dei primi passi da compiere per spezzare la “corda” che tiene l’Italia segregata nel Mediterraneo e migliorare i rapporti bilaterali con l’Egitto che è padrone delle rotte commerciali che attraversano il Canale di Suez. Roma non potrà attuare una accorta politica di stabilizzazione mediterranea se, di pari passo, non sceglierà di inserirsi attivamente nella nuova corsa all’Africa delle grandi e medie Potenze.

 

 

 

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