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NotizieLa dottrina dell’Escalate-To-Deescalate

La dottrina dell’Escalate-To-Deescalate

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La fine della Guerra Fredda comportò il capovolgimento dell’equilibrio strategico in Europa. Mosca si trovò davanti a una situazione nuova: la superiorità convenzionale sulla Nato di cui aveva goduto per oltre quarant’anni veniva meno a causa dell’implosione delle strutture politiche e militari dell’Unione Sovietica. Per compensare questa condizione di inferiorità militare Mosca fu costretta ad adottare una dottrina che, sebbene mai ufficialmente codificata, fu definita in ambito occidentale come “Escalate-to-Deescalate”. Questa dottrina prevede l’uso di armi nucleari tattiche per terminare un conflitto convenzionale.

Il contesto politico e la formulazione della dottrina

Nel 1991 l’operazione “Desert Storm” mise in evidenza l’impressionante superiorità tecnologica delle forze armate statunitensi. Ma ancora più destabilizzante per il Cremlino fu il bombardamento della Serbia da parte delle forze NATO nel 1999 durante la guerra del Kosovo. In questa occasione la NATO impiegò la propria superiorità tecnologica per intervenire contro un alleato russo colpendo gli interessi di Mosca senza che questa avesse la capacità politica e militare di impedirlo. L’equilibrio militare che per tutta la Guerra Fredda aveva giocato a favore di Mosca permettendole di tenere sotto scatto la NATO non era più valido. Il timore atavico di vulnerabilità dei confini russi fu così riattivato spingendo Mosca a cercare un approccio che le permettesse di controbilanciare questa inferiorità.  

Pur senza usare il termine “Escalate-to-Deescalate” (ETD) – di matrice statunitense –, la soluzione al problema venne identificata in un articolo del 1999 pubblicato su una rivista militare specializzata dal generale V. I. Levšin e dai colonnelli A. V. Nedelin e M. E. Sosnovskij. Assunte come un dato di fatto la crisi economica, l’indebolimento delle forze del Paese, e l’inferiorità in armi convenzionali ad alta precisione, gli autori presagivano, almeno fino al 2010 la necessità per Mosca di “considerare l’arma nucleare come il principale strumento per garantire la sicurezza militare della Russia e dei suoi alleati”. Mosca si trovava così a dovere far ricorso alla stessa logica di fondo che aveva portato le amministrazioni americane all’inizio della Guerra Fredda ad estendere l’ombrello nucleare agli alleati europei e ad attivarlo in caso di aggressione convenzionale dell’Armata Rossa.

Pur rifiutando l’idea di un attacco preventivo – di qualsiasi tipo, convenzionale e nucleare –, nel caso in cui la deterrenza non avesse funzionato e l’aggressione avesse quindi avuto luogo, gli autori prescrivevano l’uso di armi nucleari per terminare l’attacco in corso. Dunque, pur di evitare una sconfitta, se posta di fronte a un’aggressione convenzionale la Russia avrebbe potuto avviare un’escalation nucleare.

Ripristinando la credibilità della capacità di rappresaglia russa, si segnalava la volontà di essere disposti ad intraprendere una escalation militare che includesse l’uso tattico di armi nucleari a bassa portata (“low-yield”) capace di infliggere al potenziale aggressore NATO dei costi sproporzionati, costringendolo così a ritirarsi onde evitare ulteriori perdite. Tale visione poggia sul concetto di “tailored damage”, vale a dire un costo talmente inaccettabile per l’avversario da eccedere i benefici che l’aggressore si aspetta di ottenere tramite l’uso della forza armata.

Il grande arsenale nucleare di Mosca diventava così l’opzione principale del Cremlino per fronteggiare nel campo di battaglia la superiorità convenzionale NATO evitando una sconfitta plateale alle forze armate russe. Inoltre, data la carica psicologica intrinseca nell’arsenale nucleare, l’ETD manteneva la sua funzionalità anche sotto l’aspetto della deterrenza. La prospettiva di costi così elevati avrebbe dovuto dissuadere la NATO dall’intraprendere qualsiasi azione militare contro la Russia e i suoi alleati. In questo modo Mosca perseguiva una deterrenza regionale che mirava a dissuadere la NATO dall’intraprendere azioni militari sia contro la Federazione Russa che contro i suoi alleati situati in quella che Mosca considerava la sua sfera di influenza esclusiva.

Conseguenza diretta di questa visione fu l’abbassamento della soglia di utilizzo dell’arma nucleare (“lowered nuclear threshold”). La volontà della Russia di abbassare la soglia di utilizzo delle armi nucleari sembrò essere confermata dall’esercitazione miliare Zapad 1999 in cui le autorità russe confermarono di avere simulato l’uso di attacchi nucleari tattici in uno scenario di guerra sul fronte occidentale. Un anno dopo la Dottrina Militare russa del 2000 riconosceva l’abbassamento della soglia di utilizzo nucleare enunciando al punto 8 che:

“La Federazione Russa si riserva il diritto all’utilizzo di armi nucleari in risposta all’uso di armi nucleari e di altro tipo di distruzione di massa impiegate contro di essa e/o i suoi alleati, nonché in risposta a un’aggressione di larga scala che impiegasse armi convenzionali in situazioni critiche per la sicurezza nazionale della Federazione Russa”. 

È tuttavia necessario precisare che, benché la Dottrina del 2000 si avvicini molto alle posizioni di Levšin e colleghi, essa non codificò ufficialmente i corsi d’azione da loro indicati. Questo per lo meno nei documenti non secretati. Pertanto, di fronte alla voluta ambiguità delle posizioni russe, gli studiosi e i circoli militari occidentali si sono fin da allora confrontati riguardo l’effettiva continua adesione di Mosca a tale dottrina. Nel 2010 il dibattito divenne ancora più divisivo.

La dottrina post-2010

L’orizzonte temporale dato dal Levšin si rivelò giusto perché, effettivamente, dal 2010 la postura strategica russa iniziò a cambiare. Sebbene Mosca stesse adottando una posizione sempre più belligerante (Georgia 2008, Crimea 2014, Siria 2015) l’enfasi sull’arsenale nucleare del Paese permase sì, ma non quella sul suo impiego tattico sul campo di battaglia, che iniziò invece gradualmente a diminuire. Rispetto alla dicitura vaga della Dottrina del 2000 sopra riportata, l’articolo 22 della Dottrina Militare del 2010 restringeva il ricorso ad armi nucleari, anche in caso di attacco convenzionale, a situazioni in cui “la stessa esistenza dello Stato fosse minacciata” e non più semplicemente giudicate “critiche”.

La medesima dicitura venne mantenuta nella Dottrina Militare del 2014. In aggiunta, quest’ultimo documento introduceva all’articolo 8 il concetto di “deterrenza non-nucleare”, definito come “un insieme di misure di politica estera, militari e tecnico-militari volte ad impedire un’aggressione contro la Federazione Russa attraverso mezzi non-nucleari.” (corsivo aggiunto) Questo annuncio veniva fatto al culmine della crisi ucraina che sanciva l’immagine di una Russia aggressiva pronta ad intervenire per difendere i propri interessi nazionali.

In questa nuova cornice il ruolo dell’arsenale nucleare rimane garanzia ultima della difesa del Paese e indicatore perentorio dello status di grande potenza della Russia, ma non è più visto come l’unico mezzo a disposizione per garantirne la sicurezza. Uno degli obiettivi principali del programma di modernizzazione militare lanciato nel 2010 a seguito della guerra con la Georgia consisteva proprio nel ridurre la dipendenza del Paese dal suo arsenale nucleare. I primi risultati operativi di tali riforme si sono visti in Siria dove rispetto all’arretratezza mostrata in Georgia le forze russe hanno fornito prova di migliore capacità di coordinamento e innovazione. Ad oggi, le forze convenzionali russe sembrano perciò avere recuperato, almeno in parte, lo squilibrio che avevano con quelle NATO.

Dal 2010 la nuclear policy dichiaratoria russa sembra quindi essere divenuta più restrittiva, tutto questo mentre Mosca è diventata molto più assertiva sulla scena internazionale. Gli esperti vedono in questo scarto la conferma della natura transitoria e palliativa dell’ETD. In un momento di crisi generalizzata del Paese essa consentiva alla Russia di sopperire all’inferiorità e arretratezza dei suoi mezzi convenzionali. Ma nel momento in cui Mosca ritrovava la sua assertività politica e lo scarto convenzionale veniva recuperato, o per lo meno ridotto, la dottrina perdeva la sua spinta propulsiva. In sostanza, fornendo una soluzione temporanea, l’ETD serviva a guadagnare tempo in vista del ripristino delle credibilità politica e militare russe. La motivazione secondo cui la Russia avrebbe reso più restrittiva la sua nuclear policy dichiaratoria – proprio nel momento in cui diventava più assertiva in politica estera e la modernizzazione militare dava i suoi frutti – è l’argomentazione più solida apportata dagli esperti che ritengono che la Russia non aderisca più alla dottrina dell’ETD.

Eppure, proprio negli anni in cui la dottrina trovava minor riscontro nei documenti russi – quantomeno in quelli non secretati –, un secondo gruppo di esperti, affiliati essenzialmente ai circoli strategici e militari americani, ne enfatizzavano l’uso, preoccupati dalla rinnovata aggressività russa. In questo ambito Mosca aderirebbe ancora all’ETD perché la dottrina le permetterebbe di rinforzare l’elemento coercitivo della sua recente politica estera. Secondo questa interpretazione la Russia, se volesse, sarebbe in grado di ricattare la NATO in caso di invasione dei Paesi Baltici. Questa visione più allarmista teme che la Russia possa tentare un blitz improvviso nelle Repubbliche Baltiche e decidere di consolidare le vittorie ottenute con le armi convenzionali minacciando successivamente l’uso tattico di armi nucleari qualora la NATO si mobilitasse per riconquistare i territori perduti. La Nuclear Posture Review statunitense del 2018 sembra abbracciare questa seconda interpretazione. Attribuendo ufficialmente alla Russia l’intenzione di avvalersi dell’ETD per porre fine a un conflitto in “termini favorevoli alla Russia”, il documento interpreta la dottrina come prova ulteriore degli intenti coercitivi russi nel difendere la propria zona di influenza.

La pubblicazione nel giugno 2020 di un documento che per la prima volta riassume in un unico insieme i principi base che sottendono la deterrenza nucleare russa non è servito a dissipare tali dubbi, riconfermando anzi la deliberata ambiguità delle autorità russe, da sempre finalizzata a disorientare, dividere ed intimidire ogni possibile avversario.

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