Quando, nel 1999, la compagnia petrolifera British Petroleum ottenne dal governo israeliano il permesso di perlustrare i fondali a largo di Haifa, in pochi credevano che si sarebbe riusciti a “trarre un ragno dal buco”. Invece, da quel “buco” sono stati tirati fuori ben altro che ragni: si e’ scoperto infatti che quei fondali, a differenza di un entroterra poco prodigo di risorse minerarie, nascondevano due dei bacini più ricchi di gas naturale del Mediterraneo, a cui è stato dato il nome di Tamar e di Leviatan.
Da allora, Israele ha concesso licenze di sfruttamento a un consorzio di imprese, il cui azionista di maggioranza è l’australiana Woodside (in consorzio con l’americana Noble Gas) e per il restante da imprese israeliane. Secondo le prime stime, i bacini di Leviatan e Tamar dovrebbero contenere circa 425 miliardi di metri cubi di gas, in grado di garantire il fabbisogno energetico di Israele nel medio periodo e di esportarne una parte consistente attraverso una rete di gasdotti (in costruzione) o in forma liquida. Le prime estrazioni sono previste per aprile 2013 e il principale acquirente e’ la compagnia elettrica di Stato, la Israeli Electric Corporation.
La scoperta di questi giacimenti comporta un cambiamento quanto mai opportuno per la politica energetica dello Stato ebraico: fino a due anni fa, il suo principale fornitore di gas naturale era l’Egitto di Mubarak, che attraverso un gasdotto lungo il Sinai riversava a Israele 1,7 miliardi di metri cubi di gas all’anno per $2.75/mmbtu, prezzo al di sotto del valore di mercato. Ma con la crisi politica in Egitto il gasdotto e’ stato continuamente sabotato e infine, con il cambio di regime, il “rubinetto” e’ stato definitivamente chiuso. Né la Russia, da cui peraltro Israele importa petrolio, appare come un fornitore non privo di incognite, tenuto conto delle esperienze,davvero poco incoraggianti, di «guerra energetica» con l’Europa dell’Est.
Adesso, con un volume d’affari da 14 miliardi di dollari e una produzione di 42 miliardi di metri cubi in 15 anni, Israele si emancipa da vicini e fornitori poco affidabili. Non solo, ma questa « manna » energetica conferisce allo Stato ebraico un potere diplomatico fin qui inedito: quello di esportatore di energia. Tale situazione potrebbe avere delle implicazioni significative per gli equilibri regionali in Medio Oriente.
E’ di qualche giorno fa, infatti, la notizia che una delle maggiori holding turche, la Zorlu, ha chiesto il permesso di sfruttare il gas di Tamar attraverso appositi gasdotti che giungerebbero fino alle coste meridionali della Turchia. Il progetto consentirebbe di « pompare » verso tali zone da 8 a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno, rafforzando la posizione della Turchia come principale hub di transito per il gas naturale da e verso l’Europa.
Certo, al di là delle recenti tensioni politiche tra la Turchia e Israele, altri ostacoli – sia tecnici (il gasdotto dovrebbe passare attraverso le acque del Libano e della Siria) che commerciali (esportare da Israele antagonizzerebbe l’altro principale esportatore di gas, la Russia) – si interporrebbero alla sua attuazione. Ma dal punto di vista israeliano, un accordo col gruppo Zorlu si rivelerebbe un ottimo affare. La Grecia, verso cui le esportazioni israeline di gas sono indirizzate, attanagliata dalla crisi, non fornisce gli stessi margini di profitto della Turchia, mentre la prospettiva di vendere sotto forma liquida (LNG) il gas alla Cina -programma per altro già in cantiere- si rivelerebbe più dispendiosa che il trasporto via gasdotti verso un grande paese vicino.
Peraltro, la Turchia non è il solo paese della regione a guardare con interesse al gas israeliano. La Giordania ha intrapreso negoziati segreti per poter usufruire del prezioso combustibile, al fine di alleggerire il proprio carico di spese legate all’approvvigionamento. Amman infatti importa il 97% del proprio fabbisogno energetico, spendendo circa un quarto del PIL nazionale. Approvvigionamento reso più difficoltoso dal fatto che lo stesso gasdotto egiziano – sabotato-che riforniva Israele,serviva anche la Giordania. E l’88% dell’energia consiste proprio in gas naturale.
Avere un fornitore al proprio confine, disposto a vendere questa energia, con un costo infrastrutturale minimo data la vicinanza rappresenterebbe una boccata d’ossigeno per la malconce casse del regno hashemita.
Israele quindi, non solo si scopre indipendente dal punto di vista energetico, ma può anche giocare su un tavolo nuovo, quello dell’energia, che in Medio Oriente significa molto per gli assetti politico-strategici, non solo della regione. La grande domanda ora è: Gerusalemme potrà sopperire al proprio isolamento diplomatico con i contratti energetici? Probabilmente no, anche se l’impatto psicologico di un piccolo paese che esporta GNL al gigante cinese potrebbe spingere i leader israeliani a peccare di hubris.
Tuttavia non sarebbe irrealistico pensare che questa « miniera di gas » possa riuscire laddove, come nel caso della Turchia, le diplomazie hanno finora fallito. Un riavvicinamento tra le due potenze medio-orientali, da molti osservatori ritenuto inevitabile, potrebbe rivelarsi più vicino di quanto si possa immaginare.
Mentre e’ verosimile che manifestazioni d’interesse come quello della Giordania possano giungere da altri paesi vicini, in maniera più o meno segreta, come la Tunisia o il Marocco o altri Stati africani. Israele ha quindi una carta formidabile da poter utilizzare per migliorare i propri rapporti con alcuni dei suoi vicini più importanti: occorre che sappia giocarla bene e sostituire, al momento giusto, questa « diplomazia del gas » con una vera diplomazia politica, capace di capitalizzare, nel lungo periodo, i vantaggi strategico-commerciali derivanti da questa insperata, preziosa risorsa.