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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLa dimensione demografica dell’esistenza di Israele: Stato-nazione o Impero?

La dimensione demografica dell’esistenza di Israele: Stato-nazione o Impero?

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In Israele, più che altrove, demografia è sinonimo di strategia. La demografia rappresenta la dimensione quotidiana e non spettacolarizzata dell’esistenza dello Stato israeliano; il vincolo reale che asfissia, ponendo un freno, la creatività politica e diplomatica, soprattutto quando ci si siede al tavolo negoziale con la parte palestinese; la rozza materia su cui picchettare qualsivoglia digressione onirica. Proprio a causa di una ragione di tipo demografico, oggi Israele è chiamato a fare una scelta, costretto a rinunciare a uno dei tre attributi che a targhe alterne ne hanno costituito la ragion d’essere: grande (territorialmente), democratico ed ebraico. Il conflitto spietato tra le forze sioniste è già in atto, in quella che ha l’aria di essere una vera e propria resa dei conti che potrebbe imprimere una svolta identitaria e strategica al futuro dello Stato israeliano.

Demografie a confronto

Tra il 2005 e il 2010 da un punto di vista demografico si è assistito al sorpasso delle componenti non ebraiche (arabi, drusi ecc.) sulla componente ebraica della popolazione che viveva nella Palestina storica (comprese le Alture del Golan). Una condizione che non si verificava dall’inizio degli anni ’50 quando, per la prima volta in epoca moderna, gli ebrei tornarono a rappresentare la maggioranza demografica tra il Mediterraneo e il Giordano. In quell’occasione la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49 aveva provocato un vero e proprio shock demografico: almeno 680 mila palestinesi erano emigrati fuggendo dalle proprie case. Al contrario, grazie alla Legge del Ritorno del 1950 si era aperta una vasta ondata di immigrazione ebraica proveniente dai Paesi arabi, a cui si aggiungevano gli ebrei europei giunti tra la fine del XIX secolo e la Seconda Guerra Mondiale all’interno delle così dette cinque aliyot (ondate migratorie ebraiche verso la Palestina storica). Considerando ora solo i territori controllati da Israele (comprese le aree sotto occupazione militare), ad oggi la componente araba si aggira intorno al 30% della popolazione totale, rappresentando quella che viene definita una minoranza rilevante. In altre parole, sebbene rappresenti ancora una minoranza in termini assoluti, il suo peso relativo sta progressivamente mutando gli equilibri politici del Paese.

Un imperativo demografico: lo Stato degli Ebrei

Così facendo, ha iniziato a vacillare quel prototipo che il sociologo israeliano Sammy Smooha ha definito la democrazia etnica, cioè una particolare forma istituzionale e politica in cui esiste un gruppo etnico dominante in grado di egemonizzare i gangli vitali del potere, sebbene l’impianto statuale rimanga intimamente laico, così da garantire pari diritti alle minoranze etnico-religiose. Sta venendo meno il presupposto su cui l’élite sionista secolare – maggioritaria all’inizio del ‘900 – aveva fondato lo Stato degli ebrei. Un Paese, cioè, in cui a essere ebraica era la componente maggioritaria della popolazione ma non le istituzioni che lo componevano. Si trattava di uno Stato secolarizzato nato da un’esigenza di tipo pratico: garantire la sopravvivenza della popolazione ebraica dopo il fallimento del processo di integrazione nelle società europee negli anni dell’Illuminismo ebraico (Haskalah), della conseguente emancipazione ebraica (XIX secolo) e del dramma della Shoah.

Quell’impianto statuale si fondava tuttavia su un imperativo demografico, ovvero la garanzia di una chiara maggioranza demografica della popolazione ebraica. Una condizione possibile solo all’interno di una piccola entità statuale e demograficamente omogenea. La progressiva estensione territoriale di Israele, soprattutto dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967, ha annacquato il disegno statuale originario. Un processo solo parzialmente invertito con il Percorso di Oslo degli anni ’90. Inoltre, tutti gli indicatori demografici e le proiezioni future fanno presumere che il declino della componente ebraica di Israele sia destinato a proseguire.

Assumendo come costanti alcuni indicatori demografici relativi ai settori della Salute e Longevità (tasso di natalità, mortalità, aspettativa di vita ecc.) e delle Migrazioni (saldo migratorio, tasso migratorio ecc.), è il differenziale tra i Tassi di fecondità (TFT) di ciascuna componente demografica che sta rivoluzionando il volto di questa regione. All’interno della popolazione palestinese solo gli arabo-israeliani di fede cristiana presentano un TFT inferiore a quello degli ebrei (rispettivamente 3,5 e 4). Il TFT maggiore è quello dei palestinesi di Gaza (7). Se tali equilibri venissero confermati nel 2050 la popolazione ebraica allargata (comprensiva degli ebrei riconosciuti tali dalla Legge del Ritorno ma non dalle autorità rabbiniche) diventerà minoranza demografica anche all’interno dei confini di Israele. Proprio per mantenere ancora per due decenni una seppur debole maggioranza ebraica, nel 2005 l’allora governo guidato da Sharon promosse il così detto disengagement di Israele da Gaza. Così facendo, si intendeva rinunciare alla prima prerogativa, l’estensione territoriale, per salvaguardare il carattere democratico ed ebraico di Israele.

Un progetto imperiale: lo Stato ebraico

In una direzione opposta si inserisce la Legge Base votata dalla Knesset nel luglio 2018, la quale definisce Israele come “lo Stato-Nazione del popolo ebraico”. Una definizione che ha degradato parzialmente lo status delle componenti non ebraiche, mettendo in discussione la seconda prerogativa, la democrazia, al fine di salvaguardare l’essenza ebraica di Israele e alludendo, implicitamente, anche alla ritrovata esuberanza necessaria a intraprendere campagne di conquista territoriale. In altre parole, in uno schema siffatto, quale che sia la componente demografica maggioritaria è l’impianto istituzionale ad essere ebraico, sanzionando giuridicamente la supremazia degli ebrei sulle altre componenti demografiche. Marchio tipicamente imperiale, in cui alle componenti allogene della società viene imposta l’assimilazione e al nucleo territoriale centrale vengono sottomesse provincie straniere. Un’azione di una violenza antropologica inaudita, tipica di una razionalità di tipo imperiale che già caratterizza altri popoli della regione (turchi e persiani). Sarà ai libri di scuola degli istituti israeliani che si dovrà guardare per comprendere a che punto di maturazione si trovi tale processo. Si dovrà capire, infatti, se Israele sarà stato in grado di costruire un’organica pedagogia nazionale in grado di assoldare alla propria causa le genti non ebraiche della propria popolazione, superando una volta per tutte le linee di faglia etnico-religiose su cui si basa l’attuale sistema educativo israeliano e accantonando definitivamente i tremori di matrice demografica.

Su un piano ideologico e politico l’evoluzione appena descritta denota il momentaneo sorpasso dei sionisti religiosi sull’élite secolare del Paese. Si tratta di quella componente un tempo sottorappresentata della classe dirigente israeliana che dignifica Israele come ultima e realizzata evoluzione di un disegno storico-teologico che aspirava al ritorno degli ebrei nella Terra promessa in attesa della venuta del Messia. Una postura opposta all’approccio pragmatico del sionismo secolare, nella misura in cui si tende a inserire Israele all’interno della storia millenaria dell’ebraismo, sebbene la legge religiosa (Halakhah) viene piegata alle esigenze della modernità. Su un piano strategico, invece, un’evoluzione del genere ha parzialmente accresciuto la creatività degli strateghi israeliani. Liberati dal fardello demografico, ex abrupto potrebbero tornare a progettare uno Stato territorialmente grande, sulla base del postulato che legherebbe la sicurezza di Israele alla sua capacità espansiva. Proprio in tale cornice si inserisce la volontà di annettere unilateralmente porzioni della Cisgiordania nella prospettiva implicita di creare un unico Stato, giuridicamente binazionale ma strategicamente ebraico.

L’ebraismo anti-israeliano: lo Stato dell’Halakhah

Cionondimeno, all’interno della componente ebraica stanno assumendo un peso demografico relativo sempre maggiore gli Haredim, ovvero gli ebrei ultra-ortodossi, i quali hanno un TFT nettamente superiore rispetto alla componente laica della società ebraica. Si tratta di quelle frange dell’ebraismo che a partire dal XIX secolo hanno rifiutato di venire a patti con la modernità, assumendo l’Halakhah come l’unica fonte normativa per loro vincolante. Sebbene si tratti di un universo molto eterogeneo in cui alcuni aderiscono a posizioni sioniste (il movimento Gush Emunim è un esempio), gran parte di essi rifiutano di riconoscere a Israele un ruolo nella storia ebraica, assumendo financo posture anti-sioniste. Tra di essi spiccano i Chassidim, i quali definiscono la nascita di Israele come un atto di Satana che allontana l’età messianica. Gran parte dei componenti di sesso maschile dedicano l’intera vita allo studio dei testi religiosi, rifiutandosi di lavorare anche grazie ai programmi assistenziali forniti dallo Stato israeliano. Il principale tasto dolente è tuttavia il rifiuto di prestare il servizio militare, da cui la legge israeliana li esenta. In uno scenario in cui gli ultra-ortodossi diventassero una maggioranza schiacciante all’interno della componente demografica ebraica anche l’approccio proprio dei sionisti religiosi dovrebbe tornare a occuparsi di demografia. Infatti, Israele diverrebbe da un punto divista economico-occupazione, assistenziale e strategico-militare un progetto insostenibile. In altre parole si assisterebbe a un passaggio ulteriore: non uno Stato degli ebrei né uno Stato ebraico bensì uno Stato dell’Halakhah, ebraico sì ma non più israeliano.

Pietro Baldelli,
Geopolitica.info

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