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TematicheItalia ed EuropaLa crisi mondiale dei porti come lezione per l’Italia

La crisi mondiale dei porti come lezione per l’Italia

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Già dalla fine del 2020 e, soprattutto, durante il 2021 è andata maturando una crisi sempre più endemica della catena logistica legata al trasporto e alle infrastrutture marittime che ha investito tutto il sistema mondiale. È da diversi mesi che aziende di ogni tipologia e dimensione hanno difficoltà nel reperire con le giuste tempistiche le quantità necessarie di beni utili alla produzione. Le criticità del sistema mondiale di trasporto marittimo hanno investito i mercati di ogni settore, dalle materie prime ai prodotti finali, passando per i beni di maggior valore strategico come la componentistica informatica. Questa crisi, tuttavia, non è solo consequenziale allo scenario pandemico ma affonda le sue radici negli anni precedenti in cui si è allargato il gap tra i mezzi e le infrastrutture, che hanno viaggiato su ritmi di sviluppo notevolmente differenti.

La crisi della portualità mondiale

Per comprendere le diverse ragioni di una crisi così diffusa, emersa nei mesi scorsi e che in alcune aree non troverà soluzione prima del prossimo anno, si deve in prima istanza suddividere le ragioni in due diverse categorie: conseguenze pandemiche e cause sistemiche.

Le prime sono, per l’appunto, delle conseguenze generate dal quadro pandemico che ha inevitabilmente influito sui diversi livelli del trasporto marittimo e più in generale sui mercati che questo va a toccare. In questo caso è stato proprio l’andamento dei mercati e dei flussi di merci ad esacerbare una situazione già problematica. Nel 2019, ad inizio pandemia, i mercati mondiali hanno subito una brusca battuta di arresto in termini di produzione e di flusso di merci (si pensi al caso del mercato automobilistico che in Italia si è quasi del tutto fermato nei primi mesi del 2019) svuotando i porti e le navi da trasporto e mettendo in crisi le compagnie marittime e portuali. Durante questo periodo molti armatori hanno quindi deciso anticipare i lavori di ammodernamento e ristrutturazione delle loro flotte mettendo in cantiere le loro navi e riducendo la capacità di trasporto della catena logistica marittima.

Se da un lato lo scenario presentava uno stop dei grandi flussi mondiali dall’altro la progressiva adozione di misure limitative nei diversi paesi del mondo ha, contemporaneamente, fatto lievitare la domanda di prodotti finiti acquistati direttamente dai fornitori (con l’uso massivo dell’e-commerce di fatto salta la logica che vede l’acquisto del prodotto quando questo si trova dal rivenditore locale), svuotandone i magazzini e aumentando esponenzialmente la domanda di trasporto merci su tratte medio-lunghe.

Passata la fase più acuta della pandemia, con il riavvio di molte attività e dei relativi mercati si è verificato un vero e proprio collo di bottiglia in cui la domanda ha superato di gran lunga la capacità di trasporto marittimo e di gestione dei flussi da parte dei porti e di tutte le infrastrutture portuali. Da un lato il numero delle navi (con molte ancora in cantiere) non è stato sufficiente per assorbire il volume di merci in coda per la spedizione, dall’altro si è avviata una crisi parallela legata ai container e che ha raggiunto il suo picco proprio ad agosto. La forte domanda di piattaforme per il trasporto ha di fatto polverizzato non solo la disponibilità delle navi ma anche dei container che hanno visto un aumento del loro prezzo di noleggio con punte sino al 700% (intorno ai 10.000 dollari). In questo scenario di scarsità di mezzi e costi proibitivi molte consegne hanno visto ritardi colossali per l’attesa di container e navi libere e i costi hanno messo fuori mercato le realtà più piccole che non sono in grado di sostenere tali spese di spedizione, in special modo se il rapporto volume/valore della merce non è favorevole (un container di smartphone ripaga il costo del noleggio molto meglio rispetto a un carico di legname). Per comprendere la portata economica di questo trend basti pensare che Maersk, l’operatore di trasporti marittimi più grande al mondo, nel primo semestre del 2021 ha fatturato un guadagno utile di circa 6,5 miliardi di dollari.

La crisi pandemica ha investito il settore dei trasporti marittimi anche a livello del personale dato l’impatto dei contagi e delle misure di prevenzione adottate nei porti e a bordo delle navi. Ad oggi, infatti, i controlli all’ingresso delle infrastrutture portuali e il contingentamento del personale addetto causano costanti ritardi e ritmi di lavoro più bassi, fattori che ampliano ulteriormente la crisi innescata dal gap tra domanda e offerta di cui sopra. Ciò che tuttavia causa i maggiori disagi sono i contagi degli operatori portuali: in questi casi si arriva persino alla chiusura di intere banchine e terminal con la conseguente riduzione delle capacità ricettive del singolo porto e lo smistamento del traffico verso altri porti. In breve tempo si è quindi arrivati alla saturazione delle infrastrutture con centinaia di navi in rada in attesa di poter attraccare. Il caso più rilevante è sicuramente legato al porto cinese di Ningbo-Zhoushan (il terzo più trafficato al mondo) che ha visto la chiusura di un terminal che da solo gestiva il 20% dell’intero traffico portuale. Le autorità cinesi hanno quindi dirottato parte del traffico nei porti di Shanghai e Hong Kong senza tuttavia evitare un gigantesco ingorgo di quasi 150 navi ferme in rada nei pressi di Shanghai e Ningbo-Zhoushan (distanti pochi chilometri).

Secondo quanto riportato dal Financial Times l’11 agosto le navi portacontainer in attesa di entrare nei porti di tutto il mondo erano oltre 350, ovvero il 7% del totale di navi cargo al mondo. Attualmente, quindi, il sistema portuale mondiale non è in grado di gestire l’intero traffico navale e i trend dimostrano che questi numeri sono destinati a crescere, gettando una lunga ombra sul futuro del trasporto marittimo e intermodale, ben oltre l’orizzonte della crisi pandemica. La congestione dei porti ha investito la quasi totalità degli hub mondiali con ritardi che vanno dagli 11 giorni di Atlanta a quasi un mese per il porto di Karachi in Pakistan (che ha visto punte di 3 mesi di attesa). In sostanza dal 2019 il tempo in rada delle navi è più che raddoppiato come notevolmente aumentato è il tempo passato nei porti per le operazioni di carico e scarico. Ultimo fattore contingente è il ritardo causato dall’incidente della portacontainer Ever Given nello stretto di Suez che vede le sue conseguenze protratte sino ad oggi e che vedrà i ritardi protrarsi fino in autunno con uno scenario disastroso per fornitori, rivenditori, clienti e più in generale per buona parte di piccole, medie e, in parte, grandi imprese.

Come accennato queste sono le conseguenze della recente crisi sanitaria globale ma alcune problematiche lasciano intendere che le cause vere e proprie di questo momento nero vanno rintracciate ben prima dell’inverno a cavallo tra il 2018 e il 2019.

In primis vi è un progressivo allargarsi del gap tra i ritmi di sviluppo delle navi e quelli di adeguamento infrastrutturale dei porti. Come si può ben capire i costi e le tempistiche sono nettamente differenti come lo sono anche gli attori coinvolti: da un lato armatori e compagnie private e dall’altro autorità portuali. Mentre le prime hanno come loro limite principale i limiti di investimento per la messa in cantiere di una nuova portacontainer le seconde hanno vincoli più stretti e in numero maggiore. Le autorità portuali devono tener conto delle singole legislazioni locali e nazionali in materia di salvaguardia dell’ambiente, inurbamento e vincoli di costruzione. A ciò si aggiunge il dover costantemente contrattare con le autorità e i gruppi di interesse locali, spesso causa di ostracismo più o meno immotivato. Infine, i costi e le tempistiche di adeguamento di infrastrutture così importanti e complesse non sono di certo secondari e rendono, da soli, quasi impossibile tenere il passo con lo sviluppo navale.

Molti dei porti strategici per i singoli paesi sono di fatto inefficienti nel ricevere il grande flusso di traffico navale destinato all’area servita dall’infrastruttura e spesso non son in grado di accogliere le navi più moderne (come nel caso italiano in cui le regioni del nord vengono servite dai porti olandesi e tedeschi). Le navi portacontainer sono divenute progressivamente più grandi per generare delle vere e proprie economie di scala e abbattere i costi di trasporto grazie ai nuovi vascelli classificati come Ultra Large Container Ship (ULCS) con i loro 400 metri di lunghezza. Il problema è che le banchine spesso non hanno né la lunghezza né il pescaggio sufficiente per ormeggiarle (oltre a gru sufficientemente alte) ed è necessario effettuare servizi shuttle con naviglio di minor tonnellaggio, e spesso a maggior impatto ambientale, attraverso il trasbordo delle merci in mare o in altri porti a costi (economici ed ambientali) nettamente maggiori.

Molto spesso per evitare ritardi ingenti sulle consegne di tutta la tratta le merci possono essere sbarcate in un porto diverso da quello designato e quindi consegnate attraverso naviglio minore o via terra. Un’altra soluzione è saltare completamente la tappa per tornarvi in un secondo momento. Questo caso è tuttavia quello meno praticabile dato che le rotte delle porta container sono definite round world nei casi in cui l’imbarcazione faccia l’intero giro del globo oppure circolari, potendo quindi tornare nel porto saltato solo nel viaggio successivo. Ciò comporta ritardi non solo nella consegna della merce a bordo ma anche nella spedizione di quella in porto che sarà quindi stipata nell’imbarcazione successiva, con un congestionamento che, a cascata, interessa tutti i centri di interscambio delle merci.

Tornando ai problemi endemici delle infrastrutture portuali altri fattori che contribuiscono alla loro inefficienza sono l’insufficiente e/o inefficiente capacità di stoccaggio (come nel caso di alcuni porti degli Stati Uniti che hanno i depositi container lontano dal mare e che richiedono tempistiche e costi notevolmente più alti per la loro movimentazione), la scarsa connessione e coordinazione con gli altri attori logistici (come l’assenza dell’ultimo miglio ferroviario o strade di accesso non sufficientemente capienti) e la mancanza o l’insufficienza dei mezzi idonei allo scarico/carico delle navi più capienti (con punte di 20 mila container trasportati in un singolo viaggio). Della classe Ultra Large Container Ship (ULCS) attualmente sono operative 85 navi con altre 8 in cantiere, il dato che rende l’idea della loro recente proliferazone è che circa 1 su 3 è stata varata negli ultimi due anni ad un ritmo non sostenibile per le autorità portuali di buona parte del mondo.

Questa situazione ha visto il progressivo inserimento degli armatori nelle quote delle società portuali con lo scopo di poter maggiormente influenzare le scelte di investimento e ottenere maggiori vantaggi per la propria flotta. Se da un lato le ingenti quantità di denaro portate da grandi aziende private possono avviare un processo di adeguamento in tempi più rapidi il rischio è che si dia il via ad un processo di integrazione verticale in cui i principali armatori avvierebbero di fatto un tipo di concorrenza oligopolistica a discapito degli attori più piccoli.

La lezione che l’Italia deve apprendere

In tema di infrastrutture e flussi portuali l’Italia si presentava già in crisi da decenni con infrastrutture inadeguate ed una gestione delle stesse lontana dagli standard dei principali player della regione euromediterranea. Le criticità che stanno investendo in questo momento il sistema mondiale della logistica marittima sono in sostanza le stesse che caratterizzano da decenni il nostro Paese e che, in questa situazione, ne aggravano ancora di più la già ridotta competitività.

Il PNRR ha dedicato parte dei fondi proprio per ovviare parte di queste problematiche (utopica è la loro risoluzione entro il 2030) ma la brusca accelerazione di questa crisi ha messo a nudo la fragilità del programma di ripresa. Una fragilità che non risiede tanto nella programmazione (che tocca tutte le principali aree dove è necessario investire) quanto nella sua esecuzione: fondamentali saranno infatti le tempistiche e la “qualità” degli interventi che dovranno adeguarsi ai trend di medio-lungo termine e non semplicemente recuperare un gap già di per sé abissale. Il rischio è che, se non adeguatamente eseguiti, i programmi designati per le infrastrutture marittime diventino un buco nero di fondi che, oltre a drenare importanti risorse al paese, non diano alcun valore aggiunto in quanto già sorpassati al loro completamento.

I problemi che possono emergere sono quelli caratteristici della nostra realtà che vede le istituzioni locali e i gruppi sociali come entità avverse a qualsiasi grande opera (spesso solo per interesse meramente politico o utilitaristico) in grado di rallentare o fermare del tutto i programmi sul territorio (vedasi la TAV o il rigassificatore di Brindisi) con un conseguente immobilismo letale per il sistema paese dentro e fuori i confini nazionali.Questa crisi mostra come l’Italia, intesa come sistema omnicomprensivo di tutte le realtà del Paese, debba invertire un trend caratterizzato da un forte immobilismo e localismo in virtù di visioni che vedano la nostra realtà inserita in un contesto internazionale e globale molto più complesso. La competitività e la ricettività delle infrastrutture sono uno dei terreni di scontro del futuro per ottenere una posizione di rilievo nell’area. Se nel prossimo decennio questo scontro sarà perso Roma sarà di fatto sempre più una periferia d’Europa e del Mediterraneo pur essendo al centro di tutto.

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