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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLa contraddizione Tunisia: tra sviluppo e foreign fighters

La contraddizione Tunisia: tra sviluppo e foreign fighters

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Nonostante i progressi degli ultimi anni e un percorso volto alla democrazia, la Tunisia vanta un triste primato: è il paese che esporta più foreign fighters fra gli stati arabi.

La Tunisia, racchiusa tra la Libia in pieno caos e un regime autoritario in Algeria, rappresenta l’unico esempio di “storia di successo” della primavera araba con la deposizione del dittatore Ben Ali dopo un governo di ben 24 anni. Secondo l’Economist, il paese è l’unico caso di democrazia nel mondo arabo mentre per alcuni studiosi è il modello più avanzato di conciliazione tra Islam e democrazia che possiamo trovare oggi in Nord Africa e Medio Oriente.

Nonostante queste premesse positive, il paese magrebino si trova ad affrontare diversi problemi fra cui quello dei foreign fighters, cittadini che hanno abbracciato gli ideali dello Stato Islamico e sono partiti per combattere in guerra. La Tunisia è infatti il principale esportatore di questi combattenti: secondo alcune stime sono circa 7000 i cittadini tunisini partiti per combattere in Iraq, Siria e Libia, quasi il doppio di ogni altra nazione. I pareri su questi dati tuttavia non sono concordi: il governo tunisino ha calcolato che circa 3000 dei suoi cittadini si sono uniti all’Isis, mentre per altre fonti come le Nazioni Unite e analisti indipendenti la prima cifra sopra presentata rispecchia la triste realtà.

Come è possibile che un paese, con i suoi 11 milioni di abitanti che rappresentano meno dell’un per cento del mondo musulmano, possa giocare un ruolo così importante in questo fenomeno rispetto ad altre nazioni ben più popolose come l’Egitto (più di 80 milioni di abitanti) o il binomio Algeria-Marocco (insieme più di 60 milioni)?

Risposte semplici non esistono ma possiamo prendere in considerazione diversi fattori che sono utili a comprendere meglio la situazione del paese. Innanzitutto la Rivoluzione dei Gelsomini non è riuscita a porre fine ad antichi problemi che restano intrinsechi nella società come la corruzione dilagante e l’elevato tasso di disoccupazione. Alcune gerarchie precedentemente al potere sono tornate a ricoprire le loro posizioni, e nelle aree remote del paese la nuova Tunisia non è tanto diversa da quella pre-rivoluzione, sottolineando il problema della marginalizzazione delle regioni interne come il Kef, abbandonate spesso al loro destino. Ad aggravare questo quadro ha contribuito la crisi economica che sta mettendo in ginocchio il paese, colpendo i suoi settori chiave: il turismo, che sta ancora risentendo degli effetti degli attentati di Sousse e del Bardo, e il calo del 60% della produzione dei fosfati, con una conseguente diminuzione delle esportazioni.

Il fenomeno dei foregn fighters tuttavia non è solo da racchiudersi nella precaria situazione economica, ma è piuttosto complesso e non possiamo incorrere nell’errore di generalizzare  l’immagine del terrorista e i motivi che portano a percorrere questa strada. Certamente alle origini di questo problema ci sono sicuramente la povertà, l’analfabetismo, ma queste non sono le sole cause. Il Centro tunisino per la ricerca e gli studi sul terrorismo ha fornito i seguenti dati: il 40% dei terroristi tunisini ha effettuato studi universitari, e in generale la fascia di età più coinvolta va dai 18 ai 34 anni. Nei giovani tunisini (il 40% della popolazione ha meno di 24 anni) resta ancora forte un senso di disillusione causato dalla rivoluzione, dalla possibilità che la società potesse cambiare e le ingiustizie cessare. In questo contesto molti giovani disoccupati e insoddisfatti si fanno ammaliare dalle sedicenti promesse del califfato di al-Baghdadi: un salario, giustizia sociale e copertura sanitaria gratuita. I giovani, privi di riferimento, trovano nello Stato Islamico una causa per cui combattere e nel jihad un mezzo di realizzazione personale, cercando la gloria e un riscatto nei confronti della società di origine che non li considera. L’Isis dunque fa leva sulla fragilità di queste persone per fare proselitismo, aiutato anche dalle maggiori libertà di opinione ed espressione che la giovane democrazia tunisina fornisce.

In questo periodo il governo tunisino si trova a discutere una strategia nazionale per far fronte al ritorno in patria dei jihadisti dalle zone di conflitto. Dal 2013 il governo tunisino ha adottato una politica di prevenzione volta a sorvegliare i cittadini sospettati di simpatizzare per l’Isis,  impedendo loro di partire all’estero con controlli ed arresti. Inoltre una legge anti-terrorismo è stata approvata lo scorso anno in seguito agli attacchi contro i turisti stranieri verificatisi negli anni passati.

Il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha dichiarato recentemente che la Tunisia non grazierà mai i connazionali che hanno combattuto per organizzazioni jihadiste, aggiungendo: “Molti di loro vogliono tornare e non possiamo impedirlo ma saremo vigili”. Intanto il ministro dell’Interno Hedi Majdoub ha reso noto che 800 terroristi tunisini che hanno combattuto all’estero sono tornati nel paese, non fornendo tuttavia ulteriori informazioni sulle loro sorti. L’opinione pubblica si è divisa su questo tema: alcuni politici laici hanno chiesto di ritirare loro la nazionalità (anche se il diritto di cittadinanza è protetto dalla costituzione) mentre circa 1.500 persone hanno manifestato davanti al parlamento chiedendo di non farli rientrare. Il dibattito in Tunisia è molto accesso anche per le possibili conseguenze future: una delle paure è che questi combattenti possano prendere il controllo del paese e portare la Tunisia a diventare uno ‘Stato fallito’ come la Somalia.

 

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