Lo scorso 23 agosto, il modulo lunare indiano Vikram ha allunato nei pressi del polo sud del satellite terrestre. Il successo della missione ha consacrato Nuova Delhi come potenza spaziale, tuttavia questo avvenimento apre una riflessione sulla nuova corsa allo spazio e il ruolo dell’Europa.
Il 14 luglio scorso, dalla base di Sriharikota nel Andhra Pradesh, è partita la missione Chandrayaan-3 che ha portato il modulo Vikram ad allunare, il successivo 23 agosto, vicino al polo sud del satellite terrestre.
Lo scopo della missione è di effettuare attività di ricerca in questa area della Luna ancora inesplorata. Il principale obiettivo è quello di esaminarne il suolo, il sottosuolo e l’atmosfera lunare e verificare la presenza l’acqua, già accertata dalla sonda Chandrayaan-1 nel 2008, e se sia utilizzabile.
Oltre alle finalità puramente scientifiche, la missione nasconde interessi prettamente geopolitici (o, più correttamente, “astropolitici”).
La presenza di acqua sulla superficie lunare (e la possibilità di poterla estrarre) è ritenuta essenziale per consentire la presenza di basi lunari. Questo, infatti, risolverebbe il problema dell’elevato costo dei rifornimenti dalla Terra (il costo per il trasporto di un litro di acqua è di circa 1 milione di dollari).
La presenza di acqua sulla Luna consentirebbe anche la produzione di idrogeno e quindi di combustibile per razzi e altri veicoli spaziali, con un notevole risparmio di spesa.
Oltre all’India, anche la Russia ha mostrato rinnovato interesse alla Luna e inviato la sonda Luna-25 che però si è schiantata in fase di allunaggio.
Altra potenza particolarmente attiva nell’esplorazione lunare è la Cina che ha già inviato tre lander (Chang’e 3, Chang’e 4 e Chang’e 5) sul satellite terrestre, rispettivamente nel 2013, 2018 e 2020, di cui due sul c.d. lato nascosto.
Nel 2018 la Cina ha anche “piazzato” il satellite Queqiao in uno degli strategici punti di Lagrange, ossia dove gli effetti gravitazionali della Terra e della Luna si annullano a vicenda permettendo agli oggetti spaziali di orbitare con un minimo consumo di carburante.
Proprio l’attivismo cinese ha spinto, nel 2017, l’allora Presidente Trump a dare avvio ad un nuovo programma lunare, chiamato Artemis (la dea greca della Luna). Questo programma prevede di riportare l’uomo (anzi, una donna) sulla Luna entro questo decennio e di stabilirvi una base lunare.
Gli Stati Uniti – già dall’amministrazione Obama – hanno puntato sul settore privato per rilanciare l’esplorazione spaziale. Una scommessa che – al momento – pare si stia rivelando vincente grazie al grande successo della SpaceX di Elon Musk e, in particolare, dei suoi razzi Falcon riutilizzabili.
Anche i giapponesi hanno mostrato ambizioni spaziali. L’agenzia spaziale giapponese (Jaxa) sta lavorando ad un razzo di nuova generazione che possa competere con il Falcon di SpaceX. È, inoltre, in programma per il 2026 la missione congiunta con l’India Lunar Polar Exploration Mission (LUPEX). Quest’anno, la società privata iSpace ha lanciato, con un razzo Falcon, il modulo Hakuto-R M1 con obiettivo allunare il rover emiratino Rashid. Il modulo, tuttavia, è precipitato.
L’Europa, per ora, resta pericolosamente priva di lanciatori e di autonomia. I non più economici Arianne 5 hanno cessato la produzione e l’entrata in servizio dei nuovi razzi Arianne 6 (non riutilizzabili) è stata posticipata.
Un report del marzo 2023 commissionato dall’ESA evidenzia che l’Europa corre il rischio di diventare, nella migliore delle ipotesi, un junior partner, nella peggiore, uno spettatore della nuova corsa allo spazio e della space economy.
Lo spazio è sempre più un’altra dimensione della competizione tra le grandi potenze.
Sia Cina che Stati Uniti e Russia stanno cercando radunare attorno a sé altre nazioni, riproducendo nello spazio le coalizioni che stanno cercando di formare sulla Terra.
Gli Stati Uniti, nel 2020, hanno lanciato gli Accordi Artemis, una sorta di autoregolamentazione e coordinamento tra gli Stati firmatari (ne fanno parte anche l’Italia e l’India) sull’esplorazione, uso e sfruttamento della Luna.
La Cina, invece, sta corteggiando Arabia Saudita ed Emirati Arabi (che già fanno parte degli Accordi Artemis) per cooptarli nel suo programma spaziale.
I russi, dal canto loro, hanno offerto ai partner del gruppo BRICS di partecipare alla costruzione della loro nuova stazione spaziale.
La competizione riguarda anche il posizionamento dei satelliti attorno alla Terra, il cui numero sta aumentando esponenzialmente. Nel 2020 c’erano circa 6.000 satelliti (di cui circa 2.600 operativi) e le stime parlano di poco meno 1.000 satelliti lanciati ogni anno.
Un numero sempre maggiore di satelliti significa anche un incremento del rischio di collisioni tra gli stessi e vari detriti (vecchi satelliti o stadi di razzi usati per lanciarli). Rischio aggravato anche dalla militarizzazione dello spazio.
La dimensione spaziale, infatti, è ormai parte integrante dello scenario bellico. I satelliti, in particolare, consentono non solo le comunicazioni ma anche di conoscere in tempo reale il posizionamento delle proprie truppe (si pensi al GPS), ma anche i movimenti del nemico e se sia in procinto di lanciare dei missili.
Non può, quindi, stupire che diversi Stati abbiamo sviluppato armi anti-satellite (anti-satellite weapons o ASAT), quali missili o strumenti laser capaci di “accecarli”. Nel 2007 i cinesi, e più recentemente i russi nel 2021, hanno compiuto dei test missilistici colpendo loro vecchi satelliti e creando sciami di detriti.
Nel luglio 2020, americani e britannici hanno accusato i russi di aver posizionato nello spazio un satellite “matriosca”, ovvero un satellite che al suo interno contiene un altro satellite capace di sparare proiettili.
Non è casuale, quindi, che nel dicembre 2019 Trump abbia costituito la Space Force con il compito di difendere le infrastrutture spaziali americane. Nel luglio dello stesso anno il Presidente francese Macron aveva annunciato il nuovo comando di difesa spaziale.
Sempre nel 2019 la NATO ha adottato la sua prima Space Policy e al vertice di Bruxelles del 2021 è stato riconosciuto che attacchi nello spazio potrebbero portare all’invocazione dell’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico.
L’aumento del numero degli attori, l’incremento del numero di satelliti e di missioni spaziali, rischia di generare un affollamento con il rischio di incidenti, con conseguenze anche politiche.
Attualmente le relazioni tra gli Stati nello spazio sono governate principalmente dal Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967, oltre ad altri quattro trattati, principi adottati dall’Assemblea Generale dell’ONU e, comunque, dal diritto internazionale.
I principi su cui è basato il trattato del 1967 sono quelli dell’esplorazione e uso dello spazio nell’interesse e beneficio di tutti i paesi e del libero accesso a tutti i corpi celesti. Il divieto di appropriazione dei corpi celesti e l’obbligo di avere riguardo ai corrispondenti interessi di altri Stati costituiscono le pietre angolari di questa architettura normativa.
Per quanto riguarda l’uso di armi nello spazio, in realtà, questo non è completamente vietato. Il divieto, infatti, riguarda espressamente solo la Luna e gli altri corpi celesti, non l’orbita terrestre dove sono bandite le sole armi di distruzione di massa. È, comunque, fatto salvo il diritto alla legittima difesa.
Non è difficile immaginare nel prossimo futuro un aumento delle controversie su quali atti costituiscano un libero uso ammissibile e quali un’appropriazione vietata dello spazio, in particolare della Luna. Gli stessi Accordi Artemis sollevano degli interrogativi rispetto alla loro conformità al trattato in quanto permettono la costituzione di “safe zones”.
Negli anni a venire lo spazio diverrà sempre più importante, non solo per le comunicazioni, l’economia e la guerra, ma anche per rivalità politica che sarà anche una competizione sulle regole che lo disciplinano. Essere dotati di uno space power sarà, quindi, essenziale, per poter avere una voce in capitolo.
L’idea di una umanità unità nella esplorazione dello spazio, almeno per ora, sembra relegata ai film di fantascienza. Una competizione governata da regole condivise, tuttavia, potrebbe evitarne la militarizzazione e favorire lo sviluppo scientifico.