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TematicheCina e Indo-PacificoLa Cina, l’Australia, e la guerra commerciale fantasma

La Cina, l’Australia, e la guerra commerciale fantasma

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In un anno 2020 tormentato da eventi catastrofici, è passato in secondo piano il deteriorarsi dei rapporti fra due paesi di primaria importanza, sia sul lato economico, che su quello geopolitico. Cina e Australia hanno visto l’accelerazione improvvisa di un processo già in atto da anni, prima con un gioco di accuse reciproche in ambito sociale ed epidemico, e poi con violente sferzate nel campo degli scambi commerciali. Questa novella trade war, già impensabile per il grado di integrazione economica fra i due paesi, si evolve paradossalmente in linea con la firma del più grande accordo di libero scambio del mondo, la RCEP, che include fra i suoi membri più illustri proprio la Cina e l’Australia. Come può un progetto del genere coesistere con il duello letale che anima due attori di primaria importanza? I rapporti commerciali sono ancora in grado di sopravvivere alle crisi politiche, oppure sono stati definitivamente asserviti alla politica stessa, armi non convenzionali e di ineguagliabile efficacia?

Inception

La Cina è il principale partner commerciale dell’Australia, con il volume degli scambi che in soli tre anni è più che raddoppiato (da 108 miliardi di dollari nel 2016, a 235 miliardi nel 2019). Affamato di materie prime e di prodotti di alta qualità, il Dragone calamita su di sé un terzo delle esportazioni australiane, composte da minerali, combustibili fossili, carne bovina, orzo, eccetera. Si tratta questo di un dato piuttosto rilevante, considerando che, nello stesso periodo di tempo, le relazioni diplomatiche fra i due paesi hanno seguito un andamento inversamente proporzionale. Dinamiche in tema di influenza regionale e sicurezza nazionale hanno inasprito i rapporti fra Canberra e Pechino, dirottandoli verso quello che sembra a tutti gli effetti un punto di non ritorno. Come nel caso degli Stati Uniti, l’aspetto commerciale gioca in questa disputa un ruolo decisivo: riuscirà esso a sopravvivere alla crisi politica, oppure tenderà ad allinearsi ad essa, seguendola nel suo progressivo deterioramento?

Un’ulteriore variabile è entrata in gioco a metà novembre, quando le principali economie dell’area pacifica, incluse Cina e Australia, hanno firmato uno storico patto di libero scambio denominato RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership). Ad onor di cronaca, si rileva che il precedente accordo di libero scambio (ChAFTA) del 2015, firmato dalle parti in questione dopo dieci anni di estenuanti negoziati, ha vissuto un’esperienza travagliata a causa della ragnatela di crepe che si allargava in quel periodo sui rapporti bilaterali fra i due paesi: scioccanti rivelazioni sono state diffuse in seguito dai media australiani, in base alle quali si criticava la strumentalizzazione dei businessmen di etnia cinese volta a “spingere” nel governo di Canberra alcuni politici graditi a Pechino; lo scandalo ha raggiunto il culmine con le dimissioni di un senatore, e l’approvazione di una legge mirata a contenere le interferenze straniere.

A proposito di australiani di etnia cinese: ad oggi questi rappresentano circa il 6% dell’intera popolazione, e vivono principalmente nei grandi nuclei urbani. In tempi recenti la loro presenza è stata percepita come una minaccia dalla classe dirigente australiana, specialmente in quanto potenziale camera di coltura per il rigoglioso soft power di Pechino.

Fra le interferenze più temute da Canberra, spiccano senz’altro quelle legate al mercato della tecnologia. Parallelamente a quanto successo negli Stati Uniti, anche se con minor risonanza al livello globale, Huawei e ZTE hanno visto un muro ergersi fra loro e la rete di telecomunicazioni australiana già nel 2018. Inoltre, il primo ministro Scott Morrison ha gettato ulteriore benzina sul fuoco quando, in primavera, si è appellato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per un’inchiesta sulle cause del Covid-19, e più specificatamente per una verifica approfondita della responsabilità di Pechino nel contesto epidemico. Inutile dire che l’appello ha scatenato una reazione violenta su tutto il fronte cinese, con velate minacce per tutti quei paesi che avessero eventualmente sostenuto l’approccio australiano. Lasciata sola nella sua crociata, Canberra si è accodata in seguito alla risoluzione portata dall’Unione Europea all’attenzione dell’OMS, che si proponeva di indagare l’origine dell’epidemia senza accusare apertamente nessun particolare paese.

Backlash

Che la risposta cinese sia stata solo una reazione politica, o che lo scontro sia stato utilizzato per spalleggiare dei piani commerciali, Pechino ha rapidamente inanellato una serie di misure piuttosto importanti. Nemmeno ventiquattro ore dopo il lancio della risoluzione EU, la Cina aveva già finalizzato un’imposta dell’80% sull’orzo in arrivo dall’Australia (per avere una prospettiva realistica, si consideri che circa tre quarti dell’orzo australiano finisce di norma in Cina). Contemporaneamente, anche le importazioni della rinomata carne di bovino erano state parzialmente ostruite. Poco tempo dopo, in piena estate, è stata invece la volta del vino, obiettivo di una rigida indagine antidumping (anche in questo caso, la Cina è di gran lunga il principale mercato d’esportazione per i viticoltori australiani).

Ad ogni modo, bisogna precisare che queste iniziative rappresentano un costo ingente anche per l’economia cinese, sia per la necessità di dover reperire la merce altrove, che per le perdite aziendali di quegli importatori che dipendevano interamente dagli scambi con l’Australia, e che i sussidi pubblici possono solo parzialmente risarcire del danno subito. La macchina politica cinese però ha dimostrato negli ultimi anni di non fermarsi davanti a nulla, fortemente convinta dei propri mezzi e delle proprie capacità di resilienza.

Le risposte arrivate da Canberra sono state dapprima moderate, poiché le misure prendevano di mira soprattutto beni voluttuari. Quando la morsa ha iniziato a stringersi sul carbone, però, la tensione è cresciuta a dismisura. Per contestualizzare: il valore totale delle esportazioni “minerali” verso la Cina supera i 50 miliardi di dollari, rappresentando circa il 3,5% del PIL australiano. La terra dei canguri gioca il ruolo di principale fornitore di materie prime e combustibili, che vanno poi ad alimentare i mastodontici progetti infrastrutturali del Dragone. Per tutto il 2020, infatti, questo settore era stato ignorato dalle cannonate commerciali, forse come tacito auspicio che da entrambe le parti si potesse lavorare per ricucire lo strappo.

Tuttavia, in seguito alle reiterate prese di posizione di Canberra a proposito delle responsabilità “pandemiche” della Cina, Pechino ha deciso il 12 ottobre di calare l’asso: divieto assoluto di importare carbone australiano, con possibilità di estendere la proibizione anche all’ambito del ferro. Mentre la mossa potrebbe rivelarsi un semplice deterrente, messo in atto per scoraggiare altri paesi dal riesumare le origini cinesi del Covid-19, per l’economia australiana si tratterà senz’altro di un durissimo colpo. Si presuppone che il paese oceanico adotterà un approccio affine a quello statunitense, volto quindi a fronteggiare il nuovo nemico perseguendo strategie che coniugano la sfera politica a quella strettamente commerciale. D’altra parte, anche le scaramucce fra America e Cina sono state sempre puntellate nel corso del tempo da fattori come la concorrenza sleale e il trasferimento di tecnologia, che si sono innestate in varie declinazioni su tutti i piani della contesa geopolitica.

Gli effetti dello scontro si propagano anche al livello regionale, soprattutto nel quadro dei trattati commerciali. La domanda infatti sorge spontanea: come si svilupperanno queste fratture nel contesto del più grande trattato commerciale del mondo, firmato anche da Cina e Australia il 15 novembre? La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) sembra imporsi come una pietra miliare nella storia commerciale dell’Asia orientale e del Pacifico. Tuttavia, persino questo progetto mastodontico presenta già diverse linee di faglia: per anni, tanti paesi hanno espresso uno dopo l’altro dubbi e tentennamenti a proposito dell’accordo, primi su tutti l’Australia e il Giappone, che hanno a lungo esitato al cospetto di una partnership contraddistinta dalla Cina come sponsor dominante. L’India, dal canto suo, ha ripetutamente declinato qualsivoglia invito a partecipare; inizialmente pensata come il membro che avrebbe controbilanciato il gigante cinese, Nuova Delhi con la sua assenza non ha fatto altro che complicare la realizzazione del progetto.

Pur sconfortati dal rifiuto indiano, Australia e Giappone hanno infine concesso una seconda possibilità alla RCEP, soprattutto in luce dell’entusiasta adesione dei paesi ASEAN: Canberra e Tokyo non possono permettersi di ignorare il mercato in rapida crescita rappresentato dal Sud-est asiatico o, peggio, lasciarlo in balia delle lusinghe cinesi. Tuttavia, la loro originaria esitazione andava ben oltre l’aspetto commerciale: i giapponesi temevano soprattutto per la propria immagine, qualora avessero deciso di imbarcarsi in un progetto patrocinato da Pechino; gli australiani, dal canto loro, avevano ben altre preoccupazioni di cui curarsi, prima su tutte l’interferenza politica di cui abbiamo parlato sopra. A questa si aggiunge la responsabilità epidemica, l’accesso alla rete 5G, e altri fattori assai delicati, tutti fondamentali ai fini della disputa venuta alla luce nella seconda metà del 2020.

Roadmap

A conti fatti, dalla prospettiva australiana la RCEP potrebbe essere vista non come una concessione a Pechino, ma come un’occasione irrinunciabile nonostante Pechino. Non a caso, subito dopo la firma il primo ministro Scott Morrison è volato a Tokyo, per la sua prima visita all’estero post-pandemia. In aggiunta, il governo di Canberra non ha menzionato la Cina nei suoi commenti, enfatizzando invece la valenza dell’accordo in quanto rampa di lancio verso il Sud-est asiatico, dichiarazioni analoghe a quelle rilasciate dal presidente indonesiano Joko Widodo. Il progetto, da vedersi in primo luogo come un consolidamento dei tanti accordi preesistenti, come ad esempio i vari “Asean+1”, si distingue soprattutto per la potenziale integrazione delle catene di valore, che permetterebbe ai firmatari di trarre vantaggio dalla combinazione dei costi di produzione, capitale umano, e categorie standardizzate. L’accordo va anche ad appianare le questioni di proprietà intellettuale e le procedure doganali, proponendo norme d’origine molto flessibili e di facile comprensione. Tuttavia, a una prima occhiata la tabella delle tariffe appare assai complessa, e difficilmente si assisterà a una correzione dei dazi già in corso, soprattutto quelli “mascherati”, ovvero di natura non specificatamente tariffaria (come alcuni delle misure imposte da Pechino, di cui abbiamo parlato sopra). Per questo motivo, sembra improbabile che le tensioni fra Australia e Cina possano trarre particolare beneficio dal nuovo partenariato, che si occupa più che altro delle iniziative atte a semplificare il commercio internazionale, piuttosto che delle questioni normative e della risoluzione delle dispute. Con il suo epocale compimento, la RCEP potrebbe comunque fungere da àncora per mantenere i due sfidanti con i piedi per terra, e rallentare di un certo qual grado l’acutizzazione del confronto. In quest’ottica, l’Australia per tenere a bada le ingerenze cinesi si potrà avvalere della nuova cornice normativa, garantita ora da un supporto condiviso e multilaterale.

Certo, a giudicare dalle ripetute schermaglie sul piano diplomatico, è lecito sospettare che le relazioni bilaterali non potranno normalizzarsi in tempi brevi. Il 18 novembre (appena tre giorni dopo la firma della RCEP) il Ministero degli affari esteri di Pechino ha presentato una lista di “quattordici rimostranze”, volta a rimproverare Canberra per il suo comportamento sotto vari aspetti, fra cui la repressione politica contro i cinesi, l’interferenza con le questioni di Taiwan e Hong Kong, il blocco di Huawei, eccetera.

Piano piano, sempre più settori vengono contaminati dall’atmosfera bellicosa, come l’educazione e il turismo: l’Australia, da anni meta ambita di un cospicuo numero di studenti cinesi, viene ora fortemente sconsigliata dal governo centrale; allo stesso modo, Canberra mette in guardia i propri cittadini contro il rischio di essere detenuti arbitrariamente ogniqualvolta si vengano a trovare sul suolo cinese. Sempre più tipologie di beni vanno ad aggiungersi alla lista nera delle importazioni cinesi dall’Australia (legna, zucchero, gamberi, cotone…) in quella che è ormai per definizione l’arma principe della strategia del Dragone, ovvero la pressione commerciale.

Come possono queste tensioni coniugarsi con un patto di libero scambio, che implica per definizione stabilità e collaborazione? L’aspetto commerciale farà da contraltare alla crisi politica, oppure soccomberà ad essa, completando la sua transizione da veicolo di integrazione a potente arma diplomatica? Apparentemente, nelle relazioni internazionali gli aspetti commerciali resistono ancora molto a quelli politici, come nell’esempio della fiducia accordata a Huawei dalla Corea del Sud, un via libera al gigante del tech nonostante i legami indissolubili che intercorrono fra Seoul e Washington. Già duramente colpito dall’epidemia di Covid-19, questo equilibrio multisettoriale sembra però perdere progressivamente rilevanza.

Marco Suatoni,
Geopolitica.info

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