Lo scorso 8 agosto 2021 si è svolta la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Tokyo 2020, che ha sancito la fine della corsa tra la Cina e gli USA per il primo posto nel medagliere olimpico. Pechino è stata in testa per undici giorni consecutivi, ma gli statunitensi sono riusciti a centrare il sorpasso grazie agli ori vinti nelle ultime discipline in programma. Una grande delusione per il PCC, che non ha potuto festeggiare il centesimo anniversario della sua nascita con il primo posto nel medagliere, ormai da anni un obiettivo della sua strategia olimpica e dichiarato prima dei Giochi dallo stesso Gou Zhongwen, capo del comitato olimpico cinese.
I “three big ball sports”
L’importanza della strategia olimpica cinese per il PCC è legata al ruolo riconosciuto allo sport sin dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese. Le umiliazioni e le sconfitte subite durante gli ultimi anni della dinastia Qinq generarono nella popolazione un complesso di inferiorità fisica nei confronti delle potenze occidentali e del Giappone. Questo indirizzò la maggior parte dei cinesi verso gli sport ritenuti più adatti alle loro caratteristiche fisiche: ping pong, ginnastica e badminton. Una volta arrivato al potere, Mao Zedong vide nello sport l’occasione per ripristinare il rispetto del mondo nei confronti della Cina e decise dunque di investire nei “three big ball sports”, ovvero calcio, basket e pallavolo, che godevano di un ampio seguito nei paesi occidentali. Ottenere delle vittorie in queste discipline, infatti, avrebbe permesso alla Cina di mostrare la superiorità del proprio modello politico rispetto a quello occidentale, risvegliando così il nazionalismo cinese e superando la nomea di “Grande malato d’Asia”.
La Cina alle Olimpiadi
Il primo grande banco di prova della strategia di Mao Zedong furono le Olimpiadi di Helsinki del 1952. Alla vigilia dei Giochi, però, sia la RPC che Taiwan dichiararono che avrebbero partecipato solo a condizione di essere gli unici rappresentanti della Cina. L’impossibilità di riconoscere più di un Comitato Olimpico Nazionale per Paese portò il CIO a decidere, su proposta francese, di far partecipare gli atleti di entrambe le squadre senza riconoscere i rispettivi comitati. Taiwan decise dunque di boicottare i Giochi, mentre Zhou Enlai inviò tardivamente una spedizione di quarantuno atleti, con il solo nuotatore Wu Chuanyu che riuscì a prender parte alle gare. Nonostante gli scarsi risultati sportivi, la classe dirigente cinese ottenne un’importante vittoria diplomatica e, soprattutto, ebbe l’opportunità di assistere alle grandi vittorie sportive dei Paesi dell’Europa orientale. Questo convinse il governo a dar vita a un sistema sportivo centralizzato basato sul modello sovietico e lo sport divenne nella propaganda del partito “la continuazione della politica con altri mezzi”. I Giochi di Helsinki furono anche le ultime Olimpiadi estive a cui partecipò la Cina comunista sino al 1984. La decisione di Taiwan di partecipare alle Olimpiadi di Melbourne, infatti, convinse il PCC a boicottare i Giochi. Nonostante la lunga assenza dalle Olimpiadi, Pechino continuò a investire molto nella diplomazia sportiva. Il suo successo più importante risale all’inizio degli anni ’70, quando la “diplomazia del ping-pong” inaugurò simbolicamente il processo di distensione tra Cina e Stati Uniti.
La gold medal strategy
Il ritorno alle Olimpiadi della Cina è coinciso con la nascita della gold medal strategy di Pechino, ovvero un piano di grandi investimenti per vincere più medaglie d’oro degli altri Paesi e diventare una potenza olimpica. La visione dello sport come fonte di prestigio è nata con l’URSS, dove la vittoria delle medaglie olimpiche divenne un motivo di orgoglio nazionale, nonché una vetrina per mostrare al mondo la superiorità del sistema sovietico. Questa visione è condivisa anche dal PCC, che ha iniziato ad impiegare lo sport non solo per migliorare l’immagine della Cina e produrre soft power in politica estera, ma anche come strumento di soft power domestico, con l’obiettivo di consolidare la posizione del governo di fronte ai cittadini. In un recente articolo del New York Times, Hannah Beech ha spiegato che per vincere il maggior numero di medaglie d’oro il PCC ha deciso di investire negli sport meno importanti, che sono sottofinanziati in Occidente e che spesso mettono in palio molte medaglie. Per questo motivo il 75% degli ori olimpici vinti dagli atleti cinesi sono arrivati da soli sei sport: ping-pong, tiro a segno, badminton, tuffi, ginnastica e il sollevamento pesi. Mentre negli sport di squadra la Cina continua a far fatica, quelli individuali hanno portato il Celeste impero a migliorare le proprie prestazioni olimpiche, sino ad arrivare al primo posto nel medagliere a Pechino 2008, non replicato però nelle edizioni successive.
Le critiche al sistema sportivo cinese
Come detto in precedenza, il sistema sportivo cinese è fortemente centralizzato. Il governo invia talent scout negli asili di tutto il Paese per individuare i bambini più dotati fisicamente. Una parte di loro riuscirà ad entrare nella squadra nazionale, mentre la stragrande maggioranza non diventerà mai un atleta professionista. Questo ha ripercussioni negative nelle loro vite: corpi danneggiati, basso livello di istruzione e poche prospettive future. Come riportato dalla BBC, una parte rilevante della popolazione cinese inizia ad essere contraria a questo sistema. La Cina ormai è un paese industrializzato, dove la pratica dello sport non è più considerata solo come un ascensore sociale, ma anche come un diritto che spetta a tutta la popolazione. I genitori della classe media non sono più disposti a vedere i propri figli due volte l’anno per far vincere delle medaglie al proprio Paese. Inoltre, l’opinione pubblica cinese è stata molto colpita dalle feroci critiche su Weibo nei confronti della coppia Liu Shiwen e Xu Xin, rei di aver perso in finale nel doppio misto di ping-pong contro il Giappone, e nei confronti della coppia Li Junhui e Liu Yuchen, sconfitti nella finale di doppio maschile di badminton contro Taiwan. Queste critiche sono state un vero e proprio scandalo in Cina, tanto da aver portato alcuni media di stato a chiedere al pubblico di essere più «razionale» nei suoi giudizi e atteggiamenti.
Pechino 2022
Nonostante le critiche al sistema sportivo cinese, il PCC continua ad investire nella sua strategia olimpica. Il prossimo appuntamento per il Celeste Impero saranno le Olimpiadi invernali di Pechino 2022. Dopo il successo dei Giochi del 2008, per la prima volta una città ospiterà sia le Olimpiadi estive che quelle invernali. La sfida lanciata dalla Cina è quella di organizzare le prime “Olimpiadi verdi”: «Pechino 2022 pone la sostenibilità in cima alla sua agenda e la considera un elemento indispensabile per realizzare Giochi “ecologici, inclusivi, aperti e trasparenti” e attuare le riforme introdotte con l’Agenda olimpica 2020», ha dichiarato il vicepresidente esecutivo del Comitato organizzatore di Pechino 2022, Zhang Jiandong.
La difesa dell’ambiente, infatti, è funzionale al PCC per produrre soft power e mostrare al mondo il proprio livello tecnologico: l’elettricità consumata dagli impianti sciistici, ad esempio, verrà prodotta attraverso fonti rinnovabili, mentre il ghiaccio artificiale non verrà prodotto attraverso il tradizionale gas freon, ma sfruttando l’anidride carbonica. La costruzione di oltre 800 stazioni sciistiche, inoltre, incentiverà il turismo invernale. La grande sfida del governo cinese sarà quella di diventare entro il 2022 una potenza olimpica anche negli sport invernali. Come ha detto a Reuters Liu Bo, un ex allenatore di sci: “La Cina spende molti soldi per allestire il palco e i protagonisti sono tutti stranieri. Il presidente Xi non permetterà che ciò accada. Dobbiamo essere i protagonisti nel 2022”.