Pechino trae vantaggio da questa classificazione, ma i criteri non sono chiari. Inoltre, il caso cinese è unico nel suo genere, e presenta al suo interno una varietà di contrasti che è impossibile catalogare sotto un’unica etichetta. Gli Stati Uniti si dissociano, e l’emergenza Covid-19 non fa che evidenziare l’ambiguità di questa disputa.
Trumpismi
La Cina è ancora un paese in via di sviluppo? Secondo Donald Trump, la risposta è no. Il 20 febbraio scorso, gli Stati Uniti hanno rimosso la Cina dalla loro lista dei paesi in via di sviluppo (insieme ad altri come il Brasile e l’India), e da diversi mesi ormai il presidente americano incalza l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) perché faccia lo stesso: grazie a questo status, infatti, il colosso asiatico gode di alcuni vantaggi nei negoziati e una maggiore libertà nella gestione delle politiche commerciali. L’ascesa del coronavirus Covid-19 e il suo efficiente contenimento aggiungono un ulteriore tassello al quesito irrisolto: l’epidemia è emersa grazie alle condizioni caratteristiche di un paese arretrato, ma, al tempo stesso, è stata controllata con più efficienza rispetto a molti paesi occidentali.
La risposta, con buona pace di Trump, pare tutt’altro che semplice.
Nemmeno la WTO ci viene in aiuto, in quanto essa stessa non cataloga i suoi membri in base a criteri specifici, ma permette ai singoli paesi di autodefinirsi “sviluppati” o “in via di sviluppo”. Questa classificazione spontanea può essere messa in discussione da altri membri dell’Organizzazione che non la reputino adeguata.
Tecnicismi
“In via di sviluppo” è la definizione, secondo l’Enciclopedia Treccani, di un paese che presenta le seguenti caratteristiche: attività industriale limitata; basso tenore di vita; basso reddito; povertà diffusa; basso indice di sviluppo umano. Basta una rapida occhiata a questi criteri per capire che la Cina non può corrispondervi interamente. Innanzitutto, la vastità del macrocosmo cinese e la spiccata diversità delle parti che lo compongono rendono impossibile catalogare il paese in base ad un’unica definizione; basti pensare alla tanto millantata potenza economica nazionale che, nel caso cinese, diverge così tanto dalle modeste possibilità del cittadino medio. Ma andiamo con ordine.
La prerogativa riguardante la “limitata attività industriale” non può obiettivamente essere applicata, considerando che, con il 40% del PIL esclusivo del settore secondario, l’attività industriale cinese ammonta approssimativamente a 4900 miliardi di dollari: la più grande del mondo, superiore in termini assoluti anche a quella degli Stati Uniti d’America (circa 3700 miliardi).
Per quanto concerne tutti gli altri criteri elencati dalla Treccani, invece, risulta complicato stabilire con una misura univoca la vera natura della condizione cinese. Purché risulti ancora 68ma nella classifica mondiale del PIL pro capite medio, la Cina è caratterizzata da marcate differenze regionali: a un pechinese, infatti, corrisponde un PIL pro capite equivalente a quello di un paese sviluppato come l’Italia (a parità di potere d’acquisto), mentre nella provincia occidentale del Gansu se ne produce solo un quinto, paragonabile quindi a un abitante del Guatemala. Stesso discorso vale per l’indice di sviluppo umano (HDI) che, pur essendo piuttosto basso al livello nazionale, oscilla largamente a seconda dell’area interessata: mentre a Shanghai l’HDI è superiore alla media italiana, in Tibet lo stesso indice è equiparabile a quello dell’Angola. La povertà, infine, è pure ugualmente diffusa in modo non uniforme, ma notevolmente e gradualmente ridotta negli ultimi anni grazie al fortunato sforzo del governo cinese, un successo innegabile, questa volta, e ottenuto su larga scala.
Il teatro commerciale
Ha ragione dunque Trump, quando pretende che la Cina non venga più considerata come un paese in via di sviluppo? Gli Stati Uniti hanno raccolto in un’indagine le motivazioni della contestazione, elencando, fra le altre, il livello di sviluppo economico e la quota di commercio mondiale detenuta da Pechino. È innegabile che un aggiornamento dello status cinese beneficerebbe l’America in termini economici e di pressione nei negoziati; è altresì vero, però, che la Cina al momento non è paragonabile alle altre economie con cui condivide lo status di “paese in via di sviluppo”, e che il semplice fatto che un membro della WTO possa auto-certificare la natura del proprio status minaccia la credibilità dell’Organizzazione stessa agli occhi degli attori più influenti.
Essendo considerata un paese in via di sviluppo, la Cina può giustificare ingenti sussidi all’export (che gli Usa ritengono sleali), un’economia non totalmente orientata al libero mercato, e l’impiego di misure volte a intralciare l’ingresso di attività straniere nel mercato interno.
Alcuni paesi catalogati come “in via di sviluppo”, ad esempio il Brasile e la Corea del Sud, si sono già mostrati disponibili a rinunciare ai loro privilegi in occasione dei futuri negoziati. La Cina, invece, si mostra restia a questo adeguamento, adducendo come argomenti gli stessi fattori di cui abbiamo discusso sopra (il PIL pro capite e l’indice di sviluppo umano, ancora nettamente inferiori – in media – a quelli dei paesi sviluppati, la difficoltà a orientare l’approccio economico verso il libero mercato, eccetera).
Il teatro pandemico
Una perfetta descrizione dello status “ambiguo” della Cina ci viene fornita dai recenti avvenimenti legati al coronavirus Covid-19. Il fatto che questa infezione abbia avuto origine in Cina, infatti, insieme alle modalità con cui ha avuto origine, riflettono fedelmente una condizione in cui le caratteristiche di un paese arretrato e di uno sviluppato coesistono e si compenetrano: da una parte lo smercio di animali selvatici nei wet market, ad esempio, e dall’altra le feroci politiche di urbanizzazione degli ultimi anni; da una parte le rigidissime misure prese dal governo centrale che limitano enormemente la libertà personale, e dall’altra la straordinaria efficienza nel contenere e debellare l’epidemia. L’immagine di un paese retrogrado e draconiano si sovrappone a quella di uno efficiente e produttivo. Ugualmente, il modo in cui Pechino sta manipolando la narrazione sull’epidemia in modo da influenzare l’opinione pubblica impone un ulteriore livello d’analisi su un lato non prettamente economico: può essere considerato sviluppato un paese in cui l’unico mezzo di espressione consentito è quello della propaganda (in Cina non esiste la libertà di stampa: peggio di lei nell’Indice si classificano solo Eritrea, Corea del Nord, e Turkmenistan), e in cui un dramma sanitario viene adoperato come mezzo per imporre il proprio modello a paesi in difficoltà? Ad oggi, non si ha a disposizione un criterio universale per classificare queste pratiche, e i vari interlocutori preferiscono interpretarle a loro discrezione. Senza dubbio, la Cina rappresenta il caso unico di un paese che, in contrapposizione alle restrizioni imposte ai propri cittadini e ai propri partner, ha raggiunto un peso geopolitico quasi egemonico. È difficile rintracciare una situazione simile nel corso della storia, soprattutto quando si parla di un’economia che, a parità di potere d’acquisto, ha ormai sorpassato gli Usa come prima del mondo.
La Cina è ancora un paese in via di sviluppo? Sì e no. Per vedere da quale parte penderà la bilancia dovremo aspettare ancora qualche tempo.