Gli Stati Uniti sono un Paese forte, anzi il più forte di tutti. Ma anche un Paese in crisi, alla testa di un ordine internazionale instabile. La crisi non è iniziata con l’assalto a Capitol Hill, né con lo scoppio della pandemia. È una crisi dalle radici ormai profonde – le prime delle quali hanno attecchito più di un decennio fa – e che nessuno degli ultimi due commander in chief – Barack Obama e Donald Trump – è stato in grado di risolvere.
La perdita di uomini, denaro e prestigio causato dal duplice pantano militare in Afghanistan e Iraq, l’assenza di un piano per tirare fuori il mondo dagli sconquassi seguiti alla grande recessione del 2007-2008, il lento ma preoccupante declino della democrazia nel mondo (secondo Freedom House, a partire dal 2006), l’emergere delle potenze revisioniste cinese e russa, la polarizzazione politica interna e il dilagare del Coronavirus sono solo gli eventi più noti che hanno colpito il primato americano così come lo abbiamo conosciuto dalla fine della Guerra fredda.
I discorsi di insediamento di Obama e Trump, così come l’approccio strategico che successivamente le loro amministrazioni fecero assumere agli Stati Uniti nei confronti del mondo, stanno lì a indicare la consapevolezza di entrambi del fatto che avevano assunto la guida di un Paese – e di un ordine internazionale – in crisi. Non essendo mutata la situazione esterna ed essendo persino peggiorata quella interna, era prevedibile che l’inaugural address di Joe Biden non avrebbe costituito un’eccezione.
Il problema dell’unità, intorno a cui è ruotato l’intervento del 46° presidente americano, da un lato conferma le lacerazioni interne dell’America. Solitamente, tuttavia, tale genere di discordie vengono superate con le amnistie e la comprensione delle ragioni degli sconfitti, soluzione che mal si concilia con il secondo impeachment a Trump e la narrazione della “verità vs. bugie”. Dall’altro, indica che – come accaduto con gli ultimi due predecessori – l’agenda di Biden vedrà in cima alle sue priorità le questioni politiche domestiche. Le principali minacce passate in rassegna dal presidente, infatti, hanno proprio questa origine, dagli effetti del virus all’ineguaglianza, passando per la democrazia.
Diversamente da Obama e Trump che avevano sorvolato su quest’ultimo tema nei loro discorsi di insediamento, Biden è tornato a riflettere sul “problema” della democrazia. A differenza del passato, tuttavia, non lo ha fatto per discutere su cosa gli Stati Uniti faranno per rilanciare la democrazia nel mondo, ma per ribadire il suo impegno a difenderla al loro interno. Democracy has prevailed è stato uno dei passaggi fondamentali del suo discorso. Ma per come lo ha declinato, Biden è sembrato attribuire questo risultato non al fatto che le istituzioni americane si siano dimostrate più forti delle piazze, dei tentativi del presidente Trump di delegittimare la bontà del processo democratico (speculare alla spiegazione della sua precedente elezione quale risultato di maldestre operazioni di spionaggio russe) e del clima politico più infuocato che forse l’America ha registrato dai tempi della guerra civile. Piuttosto, ha finito per collegare la vittoria della democrazia al successo riscosso il 3 novembre dal Partito Democratico sul Partito Repubblicano.
Con la promozione della democrazia trasformata in questione domestica, poco spazio è rimasto per la politica estera. Nella tradizione nazionale, d’altronde, questa è stata di sovente presentata in termini umanitaristico-volontaristici come un’attività a cui l’America è chiamata – come ebbe a dire il presidente William McKinley – “per il bene dell’umanità” e quasi mai trattata esplicitamente nei termini dell’interesse nazionale.
Al di là delle apparenze il messaggio di Biden al resto del mondo è restato sibillino, nel senso che si presta a fraintendimenti su quello che la sua amministrazione farà nella dimensione internazionale (molto più illuminante su questo tema è l’audizione di Antony Blinken).
Il presidente ha ribadito il suo impegno a “riparare le alleanze”, messaggio anzitutto diretto alle cancellerie europee e che preso alla lettera potrebbe far intendere quello che gli europei sarebbero lieti di poter intendere, ovvero un ritorno al multilateralismo e un rinnovato impegno degli Stati Uniti nell’Alleanza Atlantica, soprattutto sui fronti caldi costituiti dal fianco est e da quello sud. Ha aggiunto, tuttavia, che questo impegno non è finalizzato “per affrontare le sfide di ieri, ma le sfide di oggi e di domani”. Leggendo queste parole alla luce di quanto sostenuto dal segretario generale Jens Stoltenberg la scorsa estate nel suo intervento su #NATO2030, se da un lato riceviamo la conferma che Biden è più che interessato a un rilancio dell’Alleanza, dall’altro ne possiamo anche desumere che la intende come uno strumento utile non più a fini esclusivamente regionali ma su scala globale (cosa poco gradita agli alleati, Italia in testa). Anche un eventuale multilateralismo, secondo quanto avvenuto con Obama, non sarebbe da intendersi come un coinvolgimento dei Paesi europei nelle decisioni strategiche similmente a quanto fatto dalla presidenza Clinton, ma come una redistribuzione dei costi dell’Alleanza (quel burden sharing spesso rivendicato con modi poco istituzionali da Trump). A conferma di ciò, subito dopo il nuovo presidente ha promesso che gli Stati Uniti non guideranno il mondo solo “con l’esempio del loro potere, ma anche con il potere del loro esempio”.
Come interpretare questo monito? Probabilmente costituisce una conferma della politica di retrenchment già attuata da Obama e Trump, per cui l’America è disponibile a ricorrere alla forza solo laddove lo ritiene vitale per i suoi interessi strategici, ma che in tutti gli altri casi si limita a proporre comportamenti virtuosi e a delegare ai suoi alleati sul campo la responsabilità di conseguire quelli che si profilano come obiettivi comuni. Si tratta di una strategia tipica delle potenze che affrontano minacce esistenziali al loro primato internazionale e che se ben attuata – chi scrive lo auspica assolutamente – potrebbe rivelarsi la scelta giusta per far uscire l’America e il mondo dalla crisi che stanno attraversando. Di sicuro però questa strategia non ci riporterà agli anni Novanta.
Gabriele Natalizia,
Sapienza Università di Roma – Geopolitica.info