Lo scorso 8 aprile il Primo Ministro italiano, Mario Draghi, ha tenuto una conferenza stampa nel corso della quale ha dedicato un ampio spazio ai temi di politica estera. In particolare, soffermandosi sugli avvenimenti noti come Sofagate, si è spinto sino a definire il Presidente turco Erdoğan un ‘dittatore’. Tali parole hanno aperto una crisi diplomatica tra Roma e Ankara, le cui conseguenze profonde sono ancora tutte da indagare. Con l’occasione, abbiamo intervistato Federico Donelli, ricercatore e docente dell’Università degli Studi di Genova.
Non possiamo non partire dalle recenti dichiarazioni del premier italiano Draghi in conferenza stampa, il quale ha definito il Presidente della Turchia Erdoğan “un dittatore”. Varie sono le letture che sono state date. Dalla gaffe non voluta, al tentativo di innescare un processo di allontanamento dalla Turchia, riorientando la postura strategica dell’Italia, a partire dal dossier libico; fino a un approccio più ideologico, interessato a condannare le recenti performance turche, dall’uscita dalla Convenzione di Istanbul al così detto Sofagate. Qual è, secondo lei, la spiegazione che si cela dietro tale dichiarazione? A quali orecchie voleva arrivare Draghi con le sue parole?
Ritengo che le parole rilasciate da Draghi nei confronti di Erdoğan siano da collegarsi soprattutto ma non soltanto alla sua recente visita in Libia. Durante il breve viaggio a Tripoli il premier ha probabilmente constatato di persona l’indiscusso peso, in termini di presenza e influenza, di Ankara nel complicato percorso di stabilizzazione della Libia a cui corrisponde da un paio di anni una sostanziale marginalità italiana. Una situazione che non si può circoscrivere al solo paese nordafricano ma deve essere estesa a tutto il Mediterraneo allargato, incluso il Mar Rosso. In altre parole, la Turchia è più che mai un interlocutore necessario per l’Italia e per tutta l’Unione Europea. Per questo motivo, penso che tra gli obiettivi a breve termine dell’esecutivo Draghi vi sia la volontà di provare a riequilibrare i rapporti di forza tra i due paesi nell’area mediterranea che, complici alcune scelte discutibili dei precedenti esecutivi italiani, hanno fatto perdere influenza e credibilità al paese nel quadro macro-regionale. Credo inoltre che il premier abbia voluto mandare un segnale al governo turco: è consapevole che l’UE su migranti e scenari di crisi sia costretta a interloquire con la Turchia, ma non intende scendere troppo a patti sui valori e i principi democratici. L’approccio che Draghi intende sviluppare nei confronti della Turchia e di Erdoğan è simile a quello adottato dalla Germania e, più recentemente dagli Stati Uniti, nei confronti dei regimi non democratici ossia un sano realismo senza per questo tradire i principi e i valori democratici che, al netto dell’attuale deriva autocratica, nel paese anatolico hanno dimostrato di attecchire diffondendo nella società turca una significativa consapevolezza democratica. Infine, penso che la dichiarazione del Primo Ministro italiano dalla prospettiva della leader-to-leader diplomacy possa rivelarsi una scelta corretta perché, superata la prima reazione stizzita, il Presidente turco saprà di doversi relazionare con una persona diretta. Aspetto che il Presidente turco apprezzi particolarmente.
Passiamo ora alla prospettiva turca. Oltre ad aver convocato l’Ambasciatore italiano ad Ankara e ad aver richiesto scuse ufficiali, nelle scorse ore la Turchia ha annunciato la prima contromisura concreta, sospendendo l’acquisto di 10 elicotteri AW169 di Leonardo, per un valore di circa 70 milioni di euro. Cosa dobbiamo aspettarci nel medio periodo? Tale mossa è propedeutica a un deterioramento della relazione bilaterale tra Roma e Ankara voluto da Erdoğan? Quali sono, secondo lei, i settori di cooperazione o i teatri geopolitici in cui la Turchia tenterà di far pagare il prezzo all’esecutivo guidato da Draghi?
Collegandomi a quanto detto in precedenza ritengo che difficilmente ci sarà un deterioramento delle relazioni tra i due paesi. Ritengo si debba riportare il tutto ad una fase necessaria di riassestamento degli equilibri e dei rapporti che non credo vengano messi a repentaglio da una o dall’altra parte. La reazione turca, o meglio dell’esecutivo AKP, ha avuto più che altro una rilevanza interna risultando necessaria soprattutto verso quella parte di elettorato che con il Presidente Erdoğan da anni coltiva un rapporto quasi simbiotico. L’Italia nell’ultimo anno ha aumentato gli scambi commerciali con la Turchia diventando il secondo partner europeo dopo la Germania, primo per investimenti diretti, e penso che il trend continuerà a crescere nei prossimi mesi. Dal punto di vista geopolitico Italia e Turchia si trovano in una posizione particolare perché possono essere competitor naturali ma, allo stesso tempo, possono consolidare i rispettivi ruoli mediante una maggiore cooperazione su scenari multipli. Oltre alla già citata Libia, i due paesi operano – politicamente, economicamente e in materia di sicurezza – in scenari comuni come il Mediterraneo orientale, l’Iraq, i Balcani, il Mar Rosso, e l’Africa orientale. Nel caso in cui, al contrario, dovessi venire smentito dai fatti e la dichiarazione di Draghi fosse il preambolo ad un inasprimento dei rapporti, allora la Turchia avrebbe indubbiamente diversi elementi su cui fare leva per danneggiare interessi italiani: dalla ricostruzione libica agli interessi soprattutto di ENI a largo delle coste dell’Africa orientale (Somalia/Kenya e Mozambico) dove la Turchia gode di crescente influenza. A ciò si deve necessariamente aggiungere la delicata e drammatica questione migranti. Il ruolo assunto dalla Turchia in Libia le permette infatti di accrescere ulteriormente il proprio bargaining chip verso l’Italia e tutta l’Unione, diventando l’interlocutore primario non solo per quanto riguarda i flussi dell’Egeo e dei Balcani ma anche delle coste libiche.
Arriviamo al dossier più caldo su cui si gioca una grossa fetta delle relazioni tra Italia e Turchia, ovvero la Libia. Con l’arrivo di Draghi e la nascita del nuovo governo di unità nazionale libico sembra essersi aperto un nuovo capitolo nelle sorti del paese nordafricano. Il premier Draghi ha scelto proprio la Libia come primo viaggio all’estero del suo mandato. Dobbiamo attenderci un maggior attivismo dell’Italia su questo dossier nei prossimi mesi? E soprattutto, Roma tenterà di smarcarsi dalla posizione turca, anche su un tema caldo come quello dei flussi migratori e del conseguente posizionamento nel Sahel? Estendendo lo sguardo, assisteremo a uno sbilanciamento della postura italiana nel Mediterraneo allargato a favore del blocco opposto rispetto a quello turco, formato da Israele, Egitto, Arabia Saudita ed EAU, e a cui prendono parte Francia, Grecia e Cipro sulla sponda europea?
Credo che l’Italia nel post-Brexit abbia perso un’ottima occasione per riguadagnare centralità nella politica europea colmando il vuoto di potere lasciato dalla Gran Bretagna e, soprattutto, riconfigurando il proprio ruolo in proiezione Mediterraneo ed Africa. In particolare, negli ultimi due anni Roma ha scelto di defilarsi dalla Libia e seguire l’approccio francese nel Mediterraneo orientale diventando a tutti gli effetti un junior partner di Parigi. Una scelta caldeggiata anche da parte della stampa e di alcuni think tank la cui narrativa tende a presentare attori regionali, su tutti UAE, come potenziali modelli per il futuro Medio Oriente o quantomeno partner preferibili rispetto a paesi come Turchia ed Iran. Se dotata di matura lungimiranza e visione strategica, l’Italia avrebbe potuto in questi ultimi anni operare con maggiore autonomia avvicinandosi all’asse Berlino-Ankara e, così facendo, ritagliarsi un ruolo primario all’interno dell’UE per ciò che concerne il Mediterraneo, mantenere maggiori quote sul futuro della Libia, sfruttare le reti instaurate dalla Turchia in Africa orientale e aprirsi la strada verso i Balcani occidentali e il Caucaso, come fatto dalla Germania. Per quanto riguarda il presunto “sbilanciamento”, la prima cosa da dire è che non bisogna semplificare eccessivamente i diversi allineamenti regionali. Se si osserva il cosiddetto Quartetto Arabo, in particolare ciò che riguarda UAE, Arabia Saudita ed Egitto da diversi mesi si evidenziano molti interessi divergenti in contesti differenti – dallo Yemen al Sudan passando per l’Etiopia – e persino alcune lievi frizioni. L’Italia dal canto suo potrebbe sfruttare la situazione mantenendo una posizione di equidistanza rispetto a tutti i principali players regionali, Turchia in primis, mettendo al centro del proprio operato unicamente gli interessi nazionali. D’altro canto, a differenza di Francia e Grecia, l’Italia non ha ragioni storiche né ideologiche per assumere posizioni di contrasto alla Turchia o ad altri players regionali. In questo senso, un approccio pragmatico e issue-oriented consentirebbe al governo Draghi di promuovere gli interessi strategici del paese nella regione senza compromettere i rapporti, politici e commerciali, con nessuno dei molteplici stakeholder.
Per concludere è necessario allargare la prospettiva ricordando che, nonostante le recenti dichiarazioni, Italia e Turchia sono entrambe parte dell’Alleanza atlantica. Pertanto, non possiamo non prendere in considerazione la variabile rappresentata dagli Usa. Anche alla luce dell’arrivo di Biden alla Casa Bianca, ritiene che ci sia ancora posto per la Turchia nello schieramento euro-atlantico? Che ruolo può giocare l’Italia agli occhi di Biden nel processo di riconfigurazione del ruolo della Turchia nella Nato? Ribaltando la prospettiva, crede che Ankara sia ancora interessata a rimanere ancorata a questa alleanza e, in prospettiva, a diventare uno Stato membro dell’Unione europea?
Credo che l’appartenenza alla NATO e la prospettiva all’adesione europea siano due discorsi distinti che troppo comunemente vengano trattati come parti di un unico approccio turco all’Occidente. Per quanto concerne l’Unione europea ritengo sia irrealistico pensare che tanto da parte europea quanto da parte turca vi siano ancora spinte reali e concrete verso una membership della Turchia. Più plausibile che vi sia una effettiva volontà comune di provare a reimpostare i rapporti su nuove basi. Fulcro di una nuova forma di partnership potrebbero essere l’inclusione della Turchia nel mercato comune e la cooperazione nella gestione dei confini esterni all’Unione che, tradotto, significherebbe dare maggiore riconoscimento istituzionale ai discussi e discutibili accordi di gestione dei migranti. Passando alla NATO penso che la Turchia abbia necessità dell’Alleanza Atlantica tanto quanto questa ha necessità della Turchia. Al di là di alcune dichiarazioni e di diverse spinte all’interno del Congresso dettate più che altro da lobby varie, dubito che gli Stati Uniti abbiano realmente intenzione di sacrificare i rapporti strategici con la Turchia. A differenza di Trump, Biden ha voluto impostare le relazioni con tutti i regimi autocratici, della regione ma non solo, su nuove basi. Inevitabilmente il discorso della nuova amministrazione statunitense si lega alla necessità di ricompattare la coalizione con le democrazie liberali, europee ed asiatiche, e alla volontà di tornare ad essere ‘la città sulla collina’. Per fare questo, Biden ha dovuto marcare la distanza con le tante alternative non democratiche, in particolare Cina e Russia, che, soprattutto durante la crisi pandemica, hanno acquisito maggiore fascino nel panorama globale per la loro capacità, il più delle volte apparente, di affrontare le tante sfide del momento. A livello strategico però gli Stati Uniti sono consapevoli che nei prossimi anni avranno necessità di mantenere tutti i principali partner e alleati regionali, compresa la Turchia sia per contrastare la penetrazione russa sia per contenere l’inevitabile espansione cinese. A questo proposito proprio la Turchia potrebbe rivelarsi un alleato strategico chiave in alcuni contesti come l’Africa dove non solo gode di maggiore popolarità e reti rispetto ai tradizionali players occidentali (i.e. Francia) ma ha anche avviato da alcuni mesi contatti per esportare i propri droni di ultima generazione preferiti, da parte di alcuni governi africani, proprio a quelli cinesi. In tale scenario l’Italia e la Turchia potrebbero dunque rappresentare il bastione del fianco sud-orientale dell’Alleanza Atlantica.