Secondo una narrazione diffusa tra Roma e Mosca esisterebbe una sorta di «relazione privilegiata» . Questa rappresentazione non solo è contraddetta dal forte spirito atlantista che da sempre anima l’Italia e dal sostegno che essa ha fornito al governo ucraino dopo il 24 febbraio, ma può essere agevolmente falsificata tramite un più accurato studio delle relazioni tra i due Paesi.
Il seguente contributo è estratto dal terzo Geopolitical Brief del progetto RUSPOL, un progetto di Cemas e Università Sapienza di Roma, con il sostegno del Maeci e in collaborazione con Geopolitica.info.
Come suggerito dalla storiografia, è vero che Roma ha intrattenuto non di rado buoni uffici con Mosca, che hanno prodotto anche forme di cooperazione sul piano diplomatico, economico e culturale. Occorre ricordare, tuttavia, che tra gli interessi permanenti della politica estera italiana ne figurano alcuni incompatibili con quelli della Russia, quali l’assenza di una potenza egemonica nel Mar Nero, la presenza di un numero quanto più ridotto possibile di grandi potenze nel Mar Mediterraneo e l’espansione dell’influenza italiana nei Balcani.
Consapevole degli elementi contraddittori che gravavano sul rapporto con la Russia, nel 1881 l’ambasciatore Costantino Nigra scriveva al ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini che i due Paesi non si potevano fare «né troppo bene, né troppo male». Combinando un approccio comparativo di tipo diacronico con la teoria delle relazioni internazionali è possibile individuare almeno tre periodi – la fase finale del periodo interbellico (1936-1941), quella della Guerra fredda (1979-1985) e l’attuale crisi dell’ordine liberale (post-2008) – che risultano contraddistinti dal passaggio a una tendenziale competizione tra Roma e Mosca. L’ipotesi sostenuta in questo capitolo è che le relazioni italo-russe siano tendenzialmente cooperative nelle fasi di relativa stabilità dell’ordine internazionale, mentre risultino tendenzialmente competitive in quelle di instabilità.
L’ordine internazionale del periodo interbellico fu modellato nel periodo compreso tra la Conferenza di Parigi (gennaio 1919) e l’entrata in vigore del Trattato di Versailles (gennaio 1920). Nonostante la fragilità delle sue fondamenta, causata della mancata partecipazione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni e dalle capacità decrescenti del Regno Unito di garantire l’ordine, il periodo immediatamente successivo alla fine della Grande guerra non fu comunque caratterizzato dalla presenza di potenze in grado di lanciare una sfida “rivoluzionaria” allo status quo.
A dispetto della distanza ideologica dei rispettivi regimi, negli anni Venti e nella prima metà degli anni Trenta l’Italia trovò un modus vivendi con l’Unione Sovietica. La necessità scaturiva da una concezione pragmatica della politica estera, volta a riavviare rapporti diplomatici con una potenza che comunque avrebbe continuato a influenzare non solo i calcoli di sicurezza del continente europeo, ma anche le vicende interne dei singoli Paesi per via dei suoi legami con i partiti comunisti locali. Tale atteggiamento di apertura trovò il suo avvio nel riconoscimento de iure dell’URSS nel 1924, proseguì con il viaggio a Odessa di Italo Balbo (1929) e i primi accordi stretti dal Cremlino con la FIAT (1931), per culminare nella sigla del Patto di amicizia, neutralità e non aggressione del 1933. La destabilizzazione del già precario ordine post-bellico, innescata dalla conquista italiana dell’Etiopia (1936), dalla formazione di alleanze a guida tedesca e dall’annessione dei Sudeti alla Germania (1938), segnò il progressivo avvicinamento al campo revisionista dell’Italia. Le relazioni di quest’ultima con l’URSS non tardarono a involversi. L’adesione di Roma al Patto Anti-Comintern (1937) e l’affondamento di alcune imbarcazioni sovietiche nel Mediterraneo da parte dei sottomarini della Regia marina (1937) determinarono l’espulsione degli italiani dal Caucaso, la chiusura di tutti i consolati sovietici e l’azzeramento dei rapporti commerciali. Con l’inizio della Guerra d’inverno (1939), inoltre, il governo Mussolini promosse una campagna mediatica antisovietica e fornì armi a Helsinki. L’Italia, infine, formò il Corpo di Spedizione Italiano in Russia che affiancò le truppe tedesche dopo il lancio dell’Operazione Barbarossa (1941).
Esaurita la sfida delle forze dell’Asse, il nuovo ordine internazionale godette di una breve stabilità. I rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, infatti, assunsero i contorni della sfida egemonica già nel 1949 dopo il raggiungimento della parità nucleare e la progressiva edificazione di due alleanze contrapposte meglio note come “blocchi”. Con l’esaurimento della prima fase “calda” della Guerra fredda, quella degli anni Cinquanta, Roma – ben ancorata al fianco di Washington nell’Alleanza Atlantica – si ricavò un certo grado di autonomia in politica estera che gli consentì di mantenere relazioni con l’URSS qualitativamente migliori rispetto a quelle intrattenute da altri alleati. Una qualche forma di cooperazione con il Cremlino, infatti, prese vita grazie alle relazioni del Partito Comunista Italiano (PCI) con il Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e alla strategia dei governi guidati dalla Democrazia Cristiana (DC) di diversificare parzialmente la politica estera italiana su questioni ritenute non cruciali da quella degli altri Paesi della NATO (Bettanin, 2012). Alla chiusura della questione dei prigionieri di guerra (1959), seguirono le partnership siglate da ENI e FINSIDER (1960), l’accordo della FIAT per costruire stabilimenti automobilistici a Togliattigrad (1965). Il culmine delle relazioni italo-sovietiche fu raggiunto nel 1969 con l’accordo tra l’ENI e il Ministero del commercio estero sovietico che sancì un’offerta ventennale di gas naturale per un ammontare di 6 miliardi di metri cubi per anno.
Anticipata dal progetto dell’Eurocomunismo del PCI (1975), i rapporti tra Roma e Mosca subirono un’involuzione con la nuova fase “calda” della Guerra fredda. Questa fu segnata dall’inizio della guerra sovietico-afgana (1979), dall’intensificazione della rivalità strategica tra Stati Uniti e URSS con l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca (1981) e dal declino economico sovietico negli anni Ottanta per via del crollo dei prezzi energetici (1983) (Gaidar, 2017). Anche in questo caso, l’allineamento italiano con l’alleato maggiore del momento – gli Stati Uniti – fu netto. Non solo Roma mantenne una posizione ferma sulla politica degli euromissili dell’amministrazione Carter (1979) e sul boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca (1980), ma denunciò la presenza di un sottomarino sovietico nel Golfo di Taranto (1982) e permise l’installazione dei missili Pershing e Cruise nell’aeroporto militare di Comiso (1983).
L’ordine internazionale sorto dopo la fine della Guerra fredda è stato contraddistinto da uno strapotere sia in termini di hard power che di soft power – probabilmente mai conosciuto prima – degli Stati Uniti (Deudney e Ikenberry, 1999). Sebbene declassata nella gerarchia internazionale del potere e prestigio, tuttavia, Mosca ha continuato a esercitare un’influenza significativa sulla stabilità dello status quo per via delle sue persistenti capacità militari (soprattutto nucleari), del suo peso geopolitico e delle risorse naturali in suo possesso. Solo se considerato all’interno di tale perimetro assume un senso l’impegno profuso dall’Italia per la reintegrazione della Russia post-comunista nell’ordine “liberale”. Tra i momenti più significativi di questo percorso vanno ricordati il Trattato di Amicizia e Cooperazione (1994), l’impegno di Berlusconi per l’istituzione del Consiglio NATO-Russia (2002) e quello di Romano Prodi per la progettazione di un gasdotto – il South Stream – che avrebbe dovuto collegare Italia e Russia (2006). Proprio a cavallo tra degli anni Dieci, tuttavia, l’egemonia americana divenne meno stabile. Come principali indicatori del mutamento di interazione avvenuto tra i principali attori del sistema internazionale si ricordino il pantano militare in Afghanistan e Iraq, la crisi finanziaria del 2007-2009, l’arretramento democratico su scala globale registrato dal 2005 e la postura revisionista pubblicamente assunta dalla Federazione Russa e dalla Repubblica Popolare Cinese.
Al variare del contesto politico-strategico circostante, anche le relazioni italo-russe hanno registrato un nuovo mutamento, in questo caso di tipo competitivo. Dal 2014 il governo italiano ha sempre confermato la sua adesione alle sanzioni contro l’annessione illegale della Crimea, a cui Mosca ha risposto con contro-sanzioni e la – non casuale – sospensione del progetto South Stream (2014). Il Cremlino, inoltre, ha sostenuto in Libia le forze del generale Khalifa Haftar contro il governo legittimo di Tripoli appoggiato da Roma, che nel frattempo ha dislocato 140 soldati in Lettonia nell’ambito dell’Enhanced Forward Presence della NATO. La divergenza degli interessi politici ed economici tra Roma e Mosca ha conosciuto un crescendo negli anni successivi. Si pensi alla strategia di diversificazione degli approvvigionamenti energetici per cui l’ENI ha optato, che ha portato alle grandi scoperte di giacimenti nel Mediterraneo orientale. Nei Balcani, su cui la Russia cerca storicamente di proiettare la sua influenza, l’Italia è stata tra i maggiori sponsor dell’intensificazione della cooperazione tra Unione Europea, Albania, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia. Al tempo stesso, ha sostenuto l’ingresso nella NATO di Montenegro e Macedonia del Nord, suscitando le ire del Cremlino che ha denunciato queste politiche facendo ricorso alla retorica dell’accerchiamento.
Nei convulsi mesi della pandemia almeno due eventi hanno messo a nudo la torsione competitiva in atto tra Roma e Mosca. Il primo è stato il caso della missione di “solidarietà” From Russia with Love, durante la quale un contingente militare guidato dal generale russo Sergej Kikot ha attraversato la penisola italiana da Roma a Bergamo per poi operare nelle strutture sanitarie della città lombarda. È plausibile ritenere che la missione rientrasse in quelle forme di public diplomacy volte a ricreare un’immagine positiva all’estero della Russia. Ma non è da escludere che il Cremlino avesse dato mandato ai suoi uomini anche di carpire informazioni sanitarie di prima mano sul virus nonché sulla popolazione italiana in quella che potrebbe essere stata una vera e propria operazione di data mining. Un anno dopo, un ufficiale della Marina Militare italiana è stato arrestato con l’accusa di aver fornito documenti segreti della NATO a un diplomatico russo. Non si tratterebbe, d’altronde, di un caso isolato. Le accuse di spionaggio sono state rivolte dalla magistratura italiana anche nei confronti del magnate russo Aleksandr Koschunov ai danni della GE Aviation, di un ufficiale francese di stanza al Comando NATO di Napoli e di Maria Adela Kuhfeldt Rivera nell’ambito della «più clamorosa operazione di intelligence» russa nel nostro Paese.
Anche a seguito di questi eventi, il governo Draghi, coordinandosi con quello francese e tedesco, ha espulso trenta diplomatici russi perché «persone non grate […] per ragioni legate alla nostra sicurezza nazionale, nel contesto della situazione attuale di crisi conseguente all’ingiustificata aggressione all’Ucraina da parte della Federazione Russa». La decisione ha determinato una dura reazione dell’ambasciatore russo Sergej Razov, che si è espresso in termini molto aggressivi sostenendo che «lo stato dei rapporti bilaterali è in forte degrado e non dipende da noi». Successivamente, sono sorti consistenti sospetti circa le minacce poste dalla Russia alla sicurezza italiana nel cyberspazio, che si sono materializzate sotto la forma di hackeraggi contro enti pubblici e aziende. Tra questi, particolarmente significativo è stato l’attacco contro l’Italia e altri paesi europei avvenuto proprio il giorno dell’inizio dell’operazione militare speciale in Ucraina. Da allora, diversi siti istituzionali (Senato, Camera e ministero della Difesa), il sito della Polizia italiana di Stato, dell’Aci e di aziende medio-piccole della filiera energetica sono stati attaccati dal collettivo criminale filorusso KillNet.
Il sostegno italiano al governo ucraino dopo l’aggressione russa, l’impegno nel contenimento di Mosca in sede NATO e l’adozione delle sanzioni di concerto con gli alleati europei rappresentano solo gli ultimi passaggi dell’escalation competitiva tra Roma e Mosca , che ha raggiunto il suo culmine con l’inserimento dell’Italia in una lista di “Paesi ostili” stilata dal Cremlino. Tali eventi, a differenza di quelli che li hanno preceduti, hanno avuto un impatto tale da svelare di colpo la fragilità di quell’assunto, diffuso sia nell’opinione pubblica che nella letteratura politologica, sull’esistenza tra l’Italia e la Russia di una “relazione privilegiata”. Ripercorrendo con maggiore attenzione la storia del XX e del XXI secolo prima del fatidico 24 febbraio 2022, tuttavia, era già possibile far emergere evidenze empiriche tali da sconfessare questa generalizzazione. Lo stato dei rapporti italo-russi, infatti, sembra soffrire l’influenza dei mutamenti che avvengono nel sistema internazionale in termini di distribuzione del potere e del prestigio nonché delle relazioni che ne derivano tra i suoi maggiori attori . Nei momenti di stabilità dell’ordine internazionale i rapporti tra Roma e Mosca finiscono con l’assumere contorni tendenzialmente – per quanto possibile in un ambiente anarchico – cooperativi. Quando tale condizione viene meno, al contrario, le loro relazioni tendono a incrinarsi. Di fronte a tale congiuntura una media potenza come l’Italia finisce per serrare i ranghi con il suo alleato “maggiore” per ragioni di sicurezza . E se quest’ultimo si trova sul fronte avverso alla Russia – come accaduto nell’ultimo secolo – anche le relazioni italo-russe finiscono per registrare una torsione competitiva.