La posizione geografica dell’Italia e la peculiare storia politica che ne ha caratterizzato il secondo dopoguerra ne fecero un protagonista, talvolta riconosciuto talvolta sottovalutato, della Guerra fredda. Paese di frontiera, collocato nel fianco sud dell’Alleanza Atlantica, l’Italia poté sperimentare la complessità delle dinamiche bipolari in una tumultuosa “zona di contatto”. Sul Fronte Centrale, la NATO e il Patto di Varsavia si confrontarono lungo una linea di contatto estesa dalle Alpi al Baltico e dunque all’interno di una cornice tutto sommato definita e stabile. Sussisteva altresì una certa identità di interessi e di condotta tra i due blocchi, mentre motivazioni economiche e politiche che potessero portare ad un conflitto aperto venivano neutralizzate di fronte alla possibilità che sfuggissero di mano causando un cataclisma.
Nel fianco sud, al contrario, i confini tra le due alleanze potevano meno facilmente essere definiti, non solo per la predominanza dello spazio navale su quello terrestre, ma anche per gli atteggiamenti neutralisti o filosovietici di alcuni Paesi nordafricani e mediorientali e per crisi interne all’Alleanza Atlantica stessa, come nel caso del conflitto tra Grecia e Turchia per Cipro. Non solo zona di contatto, dunque, piuttosto zona di contesa. In questo contesto, l’Italia fu un attore importante. Ragioni politiche interne (il rapporto con il PCI, l’apertura a sinistra, il compromesso storico, la Santa Sede, etc.) ed internazionali (l’alleanza con gli Stati Uniti, il processo di integrazione europea, la NATO, la distensione), influirono fortemente sulla percezione che l’Italia ebbe della minaccia sovietica nel Mediterraneo. Una minaccia la cui chiara identificazione, sia in termini quantitativi che qualitativi, subì nel tempo oscillazioni importanti che riflettevano non tanto, o non soltanto, lo stato dei rapporti tra le due superpotenze ma anche lo stato delle relazioni italo-statunitensi e quello della sicurezza regionale nel Mediterraneo.
Il presente articolo è un prodotto del progetto “La Russia nel contesto post-bipolare (RUSPOL). I rapporti con l’Europa tra competizione e cooperazione”, sviluppato da CEMAS Sapienza Univ. di Roma in collaborazione con Geopolitica.info, UNITELMA Sapienza e DISPI Univ. Genova con il sostegno con il sostegno dell’Unità di Analisi, Programmazione, Statistica e Documentazione Storica del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni contenute nel progetto sono espressione degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni del MAECI.
La soglia di Gorizia e la difesa del Mediterraneo centrale
L’apparato militare e di sicurezza italiano fu costruito e integrato nella struttura militare dell’Alleanza Atlantica per contribuire alla difesa del fronte orientale e alla vasta copertura radar che la geografia del Paese garantiva. Le Forze Armate italiane si occuparono anche della protezione del traffico mercantile; del controllo delle aree marittime di interesse; del supporto alle forze navali alleate; dell’integrazione del sistema di difesa aerea nazionale italiano con quello dell’Alleanza; della partecipazione alle campagne di contraviazione e interdizione convenzionale nucleare della NATO (Silvestri, 1980). Nei primi anni Cinquanta, la “minaccia da Sud” non era nemmeno menzionata nei documenti militari, concentrati com’erano sulla disputa di Trieste, sull’esercito jugoslavo e sul Patto di Varsavia (Taviani, 1998). Non a caso, in quegli anni Paolo Emilio Tavani, Aldo Moro e Gaetano Martino autorizzarono la creazione di una rete clandestina di Stay-Behind (nome in codice: Gladio) per operazioni di guerriglia e resistenza in caso di invasione sovietica (Nuti, 2007).
Con la firma del Trattato di Osimo nel 1975, l’approfondirsi della spaccatura tra Belgrado e Mosca, l’inizio della distensione europea e della Ostpolitik, la pressione percepita sui confini nord-orientali parve diminuire e le condizioni generali di sicurezza stabilizzarsi al punto da rendere la possibilità di una invasione delle forze del Patto di Varsavia sempre meno probabile. Allo stesso tempo, dalla seconda metà degli anni Sessanta il bacino del Mediterraneo stava vivendo gravi sconvolgimenti. In questo contesto, l’Italia si rese progressivamente conto che la NATO non era sufficiente a garantire la sua sicurezza e i suoi interessi nazionali, poiché questi ultimi spesso andavano ben oltre il perimetro dell’Alleanza. Nella seduta del 7 dicembre 1967 del Consiglio Supremo di Difesa, il generale Giuseppe Aloia, Capo di Stato Maggiore della Difesa, osservava con preoccupazione come l’Unione Sovietica avesse aggirato il sistema di difesa della NATO nel centro-Europa ricorrendo ad una strategia indiretta di intervento sul fianco meridionale dello schieramento atlantico, con epicentro l’area mediterranea. Secondo il generale, «fino al 1961 il Mediterraneo era ancora un lago occidentale» (ASPR, Fondo CSD, 7 dicembre 1967). Dal punto di vista militare, infatti, esso era completamente sotto il controllo delle forze dell’Alleanza Atlantica, supportate da una vasta catena di basi e dalla Sesta Flotta americana. La penetrazione militare sovietica poteva dunque limitarsi al transito occasionale di unità navali isolate attraverso gli Stretti o alla presenza di qualche sommergibile. Anche dal punto di vista politico, l’influenza occidentale nelle capitali dei Paesi arabi dell’Africa del Nord e del Vicino Oriente era preponderante. Ma il ritiro delle forze francesi e inglesi da Suez nel 1956, il declino della potenza navale britannica, la perdita delle basi nord-africane, l’isolamento geografico della regione sud-europea dopo l’uscita francese dalla struttura militare integrata dell’Alleanza nel 1966, il dissidio greco-turco per Cipro, «hanno sensibilmente indebolito lo schieramento NATO» (ibid.). Al contrario, la presenza permanente di una forza navale sovietica di superficie, il sostituirsi dell’influenza politica sovietica a quella occidentale nella maggior parte del mondo arabo, le conseguenze del conflitto arabo-israeliano e il potenziamento quantitativo-qualitativo delle marine dei Paesi filosovietici (Jugoslavia, RAU, Algeria), avevano trasformato la situazione politico-militare nel Mediterraneo.
Concludeva il generale Aloia che la possibilità per l’URSS di disporre di navi modernissime (inclusi lanciamissili) e di basi in territorio nord-africano avrebbe rappresentato per l’Italia il pericolo più grave in quanto comportava l’esistenza di una pesante minaccia per le linee di comunicazione e rifornimento marittimo, condizionando così la capacità della nazione di combattere e di sopravvivere. L’analisi del Capo di Stato Maggiore della Difesa italiano era condivisa solo in parte dai governi italiani che, pur non sottovalutando la minaccia, tendevano a smussarla perché funzionale alla sopravvivenza del centro-sinistra di governo (Nuti, 1999). La possibilità di una distensione internazionale era infatti concettualmente connessa al quadro politico interno italiano ed alla possibilità di integrare i socialisti nell’area di governo, ma anche all’opportunità per l’Italia di sviluppare una politica di dialogo con il mondo postcoloniale che prescindesse dalle stringenti logiche bipolari (Brogi, 1996). Maggiori timori suscitava semmai la prospettiva di un ritiro americano dal Mediterraneo, un fatto che avrebbe sancito l’isolamento del Sud Europa dal resto dell’Alleanza e dunque un indiretto declassamento dell’Italia e del suo ruolo in essa (ASPR, CSD, 7 dicembre 1967).
La minaccia che viene da Sud
Nella riunione dell’aprile 1971, il Consiglio Supremo di Difesa registrava come anche in sede NATO fosse stata riconosciuta una rinnovata minaccia sovietica nel Mediterraneo che profilava, potenzialmente, “un aggiramento dell’Alleanza da Sud” (ASPR, Fondo CSD, 17 aprile 1971). La letteratura scientifica sulla Guerra fredda è sufficientemente concorde nell’affermare che la distensione non riuscì ad operare alla periferia dei due blocchi, in Medio Oriente e nel Mediterraneo in particolare (Calandri et al., 2015). Le spiegazioni possono essere molteplici. In primo luogo, il Mediterraneo costituiva l’apparente “ventre molle” dell’alleanza occidentale, data l’inferiorità locale delle forze convenzionali della NATO rispetto all’URSS. In secondo luogo, le dinamiche regionali come il conflitto arabo-israeliano o la diffusione del fondamentalismo islamico dopo la rivoluzione iraniana rappresentarono eventi “extra-sistemici” alle logiche della Guerra fredda e dunque della distensione (Lesch, 2001).
Dal punto di vista militare, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, in Occidente numerosi esponenti dell’establishment politico-militare iniziarono a manifestare crescenti preoccupazioni per l’equilibrio militare nel fianco meridionale dell’Alleanza. Queste opinioni riflettevano il dibattito che infuriava allora negli Stati Uniti sulla corretta valutazione della minaccia dell’Unione Sovietica, la cosiddetta controversia sul “Team-B” (Allen, 1987). In effetti, tra il 1976 e il 1985, l’equilibrio militare assunse un ruolo centrale nelle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica come mai lo aveva avuto dai tempi della guerra di Corea (Welsh, 2007). Nei quattro principali settori militari – forze strategiche, forze convenzionali, capacità di proiezione, spesa militare – si diffuse la percezione di un crescente potenziale sovietico e di declino americano. Strettamente legata a ciò era la preoccupazione che questo scostamento potesse spingere il Cremlino a una politica più bellicosa, volta a stabilire l’egemonia globale sovietica (Westad, 2011). In breve, durante la crisi della distensione il fianco sud fu caratterizzato da un equilibrio ancor più instabile che in passato e anche nel settore terrestre l’URSS aveva fatto importanti passi avanti: introducendo il bombardiere Backfire e schierando gli IRBM SS-20 in Crimea e in Transcaucasica, l’aviazione sovietica era in grado di raggiungere il Mediterraneo, minacciando lo spazio di manovra della Sesta Flotta e le forze marittime della NATO (Till, 2005). Documenti NATO declassificati mostrano come i pianificatori occidentali si fossero resi conto dell’artificiosità della separazione dei fianchi dalla linea del fronte (NATO Archives, C-M (78)64, 1978). Ma, come detto, i problemi principali rispetto alla percezione della minaccia militare e strategica dell’URSS erano la politica e l’intelligence. Con la prima che premeva pesantemente sulla seconda, le percezioni e i giudizi si confondevano al punto da oscurare il fatto che le crisi regionali nel fianco meridionale non erano necessariamente collegate al confronto bipolare (Hatzivassiliou, 2015). La resistenza del paradigma bipolare, tuttavia, finiva per comprimere forzatamente ogni problema al suo interno. L’Italia stessa giocò spesso la carta sovietica come leva per perseguire i propri interessi nazionali. Quando gli Stati Uniti iniziarono a guardare con preoccupazione al riavvicinamento tra l’Italia e la Libia di Muammar Gheddafi, i politici italiani risposero che fare affari con lui era l’unico modo per evitarne lo scivolamento nel campo sovietico. In privato, tuttavia, i rapporti del Servizio segreto italiano (SISMI) affermavano come non vi fosse alcun chiaro segno delle intenzioni di Gheddafi di aprire il suo Paese ai russi, al di là della vendita di armamenti (ASILS, AGA, Libia, b. 1300, f. 1979).
Rivolgendosi al Senato nel 1978, il Ministro degli Esteri Arnaldo Forlani rilevò un dato di fatto: nell’era della distensione, delle superpotenze e di entità politiche come l’OPEC in grado di esercitare un’influenza regionale, i margini di libertà delle singole nazioni erano ridotti al minimo. Nel caso dell’Italia, Paese in trasformazione dipendente dalle forniture energetiche estere, la sua stessa sopravvivenza dipendeva dall’interdipendenza che era riuscita a creare nel ristretto perimetro della Guerra fredda. La vulnerabilità dell’Italia era dovuta principalmente alla sua dipendenza dalla stabilità del bacino del Mediterraneo: libertà di movimento marittimo, integrità delle rotte commerciali e un flusso stabile di petrolio ne assicuravano infatti la prosperità economica. Inoltre, l’esito della guerra dello Yom Kippur e quello della distensione in Europa avevano, almeno parzialmente, neutralizzato la dimensione Est-Ovest della minaccia nel Mediterraneo, lasciando un vuoto ora riempito dall’emergere di nuove minacce radicate in dinamiche locali. In questo senso, l’Italia finiva per trovarsi intrappolata in un dilemma di sicurezza. Da un lato, la crisi degli Euromissili provocata dallo schieramento degli SS20 sovietici faceva riemergere il tema degli equilibri continentali e delle forze nucleari di teatro; dall’altro, la precarizzazione della cornice di sicurezza del Mediterraneo richiedeva un differente approccio di politica estera e di difesa (ASPR, CSD, 26 ottobre 1979). Tutto ciò si sarebbe concretizzato nell’ammodernamento delle forze armate, nella decisione di schierare i missili Cruise di teatro nel 1983 e nell’elaborazione di una politica mediterranea che potesse tenere in considerazione gli interessi nazionali del Paese e l’ancoraggio alla NATO. Una strada non priva di ostacoli ed incomprensioni, come nel caso del sequestro dell’Achille Lauro e della crisi di Sigonella nel 1985 (Gerlini, 2016).
L’arrivo di Michail Gorbačëv alla Segreteria del PCUS nello stesso anno ebbe un notevole impatto sulla narrativa dei governi italiani rispetto alla minaccia sovietica. Tra il 1985 e il 1989, infatti, la classe dirigente democristiana decise di scommettere sulla nuova leadership sovietica nella speranza che potesse alimentare una distensione duratura nei rapporti internazionali. La fiducia nel nuovo corso sovietico fu tale da sconfessare l’ambasciatore italiano a Mosca il quale, di fronte alla freddezza con cui Palazzo Chigi e la Farnesina accoglievano i suoi avvisi di allarme rispetto all’esito ultimo della perestrojka, non ebbe altra scelta che dimettersi (Romano, 2002). L’entusiasmo italiano per le riforme gorbacioviane non può tuttavia essere spiegato soltanto dalla speranza generata dalla nuova distensione e dai trattati per il controllo degli armamenti, benché meno dalle possibilità che si aprivano per le imprese italiane in Unione Sovietica. È probabile, infatti, che la classe dirigente democristiana avesse intravisto nel successo di Gorbačëv un risultato in favore dello status quo e indirettamente degli equilibri politici della Prima Repubblica.
Conclusioni
La minaccia militare sovietica fu percepita dall’Italia come un serio problema di sicurezza soprattutto rispetto alla difesa dei confini orientali ed alla soglia di Gorizia fino a tutta la seconda metà degli anni Sessanta. Con la firma del Trattato di Osimo e il consolidarsi della distensione, la pressione sul confine nord-orientale parve diminuire, mentre maggiore apprensione cominciava a destare l’accresciuta presenza navale sovietica nel Mediterraneo, così come i rapporti economici e militari che Mosca intratteneva con alcuni Paesi, tra cui Egitto, Siria, Libia e Algeria. Ma proprio queste preoccupazioni furono spesso utilizzare dai governi italiani in maniera strumentale rispetto alle relazioni con gli Stati Uniti, facendo leva sulla paura di un allargamento dell’influenza sovietica per ottenere un tacito assenso ad una politica meno muscolare e più distensiva con alcuni Paesi problematici (come la Libia di Gheddafi o l’Iraq di Saddam Hussein), ma da cui l’Italia dipendeva per la propria sicurezza energetica e commerciale. La minaccia militare tornò a suscitare preoccupazione dopo la crisi degli Euromissili, le operazioni sovietiche in Angola ed Etiopia e l’invasione dell’Afghanistan.
Un nuovo allentamento si ebbe con l’arrivo di Gorbačëv ma, come detto, il mutamento della narrativa rispetto all’URSS fu funzionale a rilanciare la possibilità di una Ostpolitik italiana e a garantire quello status quo internazionale all’interno del quale anche gli equilibri politici della Prima Repubblica avrebbero potuto continuare ad operare.
In conclusione, durante la Guerra fredda l’Italia ebbe una visione più sofisticata, meno indifferenziata, forse perfino opportunista della minaccia sovietica nel fianco sud. Gli appelli alla sicurezza, una necessità reale e non certo immaginaria, nascondevano infatti un problema politico più profondo che riguardava la credibilità dell’impegno e della presenza italiana nella NATO. Garantire quell’impegno significava evitare la marginalizzazione, contribuire a definire quelle politiche che in un modo o nell’altro avrebbero avuto un impatto sulla vita del Paese e negoziare di conseguenza spazi di manovra autonomi nel Mediterraneo.
Bibliografia
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Fonti archivistiche:
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Archivio Storico Presidenza della Repubblica (ASPR), Fondo Consiglio Supremo Difesa (CSD), Verbali 1954-1984, Seduta del 26 ottobre 1979.
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