Tra l’Italia e la Libia storicamente esistono delle relazioni bilaterali molto forti, che alternano ciclicamente fasi di tensione a fasi di cooperazione. Negli ultimi anni stiamo assistendo per lo più ad un realizzarsi di queste ultime da un punto di vista economico, energetico ma anche archeologico.
Pertanto, abbiamo intervistato Luisa Musso, professore ordinario di Archeologia delle province romane dell’Università Roma Tre, Direttore della Missione Archeologica dell’Università Roma Tre in Libia, Presidente della Fondazione MedA – Mediterraneo Antico – Onlus.
Gentile Professoressa, la ringraziamo per la disponibilità. Quali sono storicamente i rapporti Italia e Libia dal punto di vista delle spedizioni archeologiche? Quali sono e come si configurano e sviluppano i rapporti più recenti?
Il 10 novembre 1899 Federico Halbherr, direttore della Missione Archeologica Italiana di Creta, scrive allo storico Gaetano De Sanctis: “Che ne diresti di una gita in Tripolitania?” Questa proposta, tra il serio e il faceto, troverà attuazione nel 1910 quando, grazie al supporto del Ministero degli Esteri, verrà promossa una missione archeologica, svolta prima in Cirenaica e in seguito in Tripolitania.
In qualche modo l’archeologia arriva in Libia prima dei militari e vi rimarrà anche quando questi se ne saranno andati: ancora oggi le missioni archeologiche accreditate presso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale che operano in Libia sono 14.
I grandi scavi e i restauri di Leptis Magna, di Sabratha e Cirene, nonostante siano stati utilizzati a scopo propagandistico dal governo fascista, hanno il merito di aver lasciato in eredità alla Libia indipendente un patrimonio monumentale entrato a pieno titolo nella loro identità nazionale. Questa eredità ha consentito agli archeologi italiani di continuare ed estendere le proprie ricerche sul campo, sia nel periodo della monarchia sia sotto la dittatura di Gheddafi e persino nella caotica situazione attuale, affiancando alle tradizionali ricerche legate al mondo greco e romano la preistoria, l’archeologia subacquea e quella islamica.
A conferma di questo rapporto speciale, su impulso dell’Ambasciata d’Italia in Libia e in collaborazione con il Department of Antiquities of Libya, a dicembre prossimo si terrà a Tripoli una grande mostra dedicata alla cooperazione archeologica tra l’Italia e la Libia.
Come va letta la missione archeologica a Leptis Magna da un punto di vista archeologico-geopolitico? Più in generale, qual è la valenza politica dei siti archeologici in Libia?
Le missioni archeologiche italiane in Libia si trovano oggi in un momento cruciale: i cambiamenti sociali, culturali ed economici, la diffusione delle tecnologie informatiche e dei nuovi media impongono cambiamenti significativi. La ricerca archeologica deve trovare nuovi canali e nuovi obiettivi, uscire dalle università e confrontarsi con una società diversa.
Se, come crediamo, lo studio del passato è importante nella formazione degli individui, il suo messaggio deve essere comprensibile e deve essere attuale. I dubbi, le ambiguità accademiche e le scelte metodologiche tradizionali di una disciplina complessa e talvolta iper-specialistica non possono essere il solo prodotto dell’attività archeologica.
L’archeologia affascina le persone e bisogna utilizzare questo potere per suscitare nella collettività il rispetto e l’amore per la propria storia, trasmettere il senso di continuità e appartenenza a luoghi unici e irripetibili nella loro specificità.
Da un punto di vista politico ritengo che l’archeologia possa essere uno strumento non cruento di cooperazione e compenetrazione positiva tra i nostri paesi. Nel periodo di Gheddafi, comprensibilmente, i grandi siti archeologici del mondo romano sono stati utilizzati come strumento ideologico, in negativo, per cementare l’identità libica. L’Italia e i contenuti dell’archeologia coloniale erano allogeni e la gestione del patrimonio archeologico è stata volutamente trascurata nella convinzione che dovesse essere l’Italia, per prima, a dover provvedere ai restauri e alla conservazione di quanto avevano scavato. In realtà, dopo la fine dell’embargo, il turismo ha rappresentato una voce aggiuntiva nell’economia della Libia e l’archeologia è diventata una risorsa significativa per le economie locali. Questa nuova consapevolezza si è riflessa positivamente nel rapporto tra i libici e il loro patrimonio archeologico.
Qual è l’interesse della Libia e come concepisce la Libia la conservazione del suo patrimonio culturale? Quale la sua posizione circa le destinazioni turistiche e più in generale i luoghi di interesse?
Come dicevo il turismo in Libia, dopo la fine dell’embargo, vede una breve ma intensa crescita: grandi investimenti immobiliari e infrastrutture sorgono per accogliere flussi turistici sempre crescenti. La morte di Gheddafi e l’instabilità politica che ne è seguita ha interrotto questo promettente inizio.
Quando questa fase d’incertezza sarà finita, la Libia tornerà ad aprirsi al turismo internazionale e i grandi siti archeologici, patrimonio dell’umanità, saranno una risorsa economica importante per diversificare la sua economia e per garantire occupazione qualificata: ci sarà bisogno di studiosi, tecnici e professionisti ai quali affidare la gestione e la valorizzazione del patrimonio monumentale. In questo l’Italia può e deve giocare un ruolo.
L’Italia è vista dai libici come un paese vicino: vicino fisicamente e, soprattutto, culturalmente. Ai libici piace la cultura italiana, la lingua italiana, il cibo italiano, il modo di essere degli italiani e, pragmaticamente, comprano i nostri prodotti, si fanno curare negli ospedali italiani, scelgono le nostre università. Sentono che, al pari degli altri popoli mediterranei, condividiamo con loro i valori familiari, il piacere della convivialità e il rispetto per le tradizioni… e inoltre sono al loro agio nel fare business con noi. Dobbiamo sfruttare questa relazione speciale.
Arianna Testa
Geopolitica.info
Tutte le foto di: Salvatore Santangelo