A causa dei rischi potenziali, la questione climatica è ormai al centro del dibattito politico internazionale. Tuttavia, gli obiettivi di de-carbonizzazione prefissati dai vari Paesi saranno difficilmente raggiungibili senza una vera transizione energetica ecologica. Ecco dove potrebbe entrare in scena l’idrogeno: una risorsa dal potenziale attualmente inespresso e dal mercato ancora acerbo. Diversi attori hanno già iniziato ad interessarsi a questo nuovo mercato ma, fra tutti, spiccano gli Emirati Arabi Uniti. In questo contesto, l’Italia, potrebbe sfruttare la sua posizione geografica e le sue relazioni col Regno emiratino per diventare un hub dell’idrogeno e raggiungere i suoi obiettivi di lotta al cambiamento climatico.
Il quadro internazionale nella lotta al cambiamento climatico
È iniziata il 31 ottobre a Glasgow la COP26 (Conferenza delle Parti), l’annuale Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, forum e scenario negoziale più importante al mondo, a cui partecipano 200 Paesi, incentrati sulla lotta al cambiamento climatico, al riscaldamento globale e alla riduzione delle emissioni gassose. Il punto di partenza fondamentale e imprescindibile per comprendere quanto in questi giorni si discute a Glasgow è rappresentato dall’Accordo di Parigi siglato nel 2015, nell’ambito del quale si è stabilito il contenimento del riscaldamento globale sotto la soglia dei 2° dal livello pre-industriale, attraverso una riduzione delle emissioni di gas serra. Se nel 2015 il tema del cambiamento climatico appariva importante, circostanza evidenziata anche all’interno delle Nazioni Unite con la pubblicazione dei Sustainable Development Goals, nell’Agenda ONU 2030, oggi si prefigura come una crisi da affrontare senza indugi ed efficacemente.
Sul tema l’Unione Europea si è impegnata fin dai primi dibattiti sorti negli anni Novanta, come emerge dall’adozione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e, in particolare, nel corso della ventunesima edizione della COP, dell’Accordo di Parigi, dimostrando una chiara intenzione nel limitare l’aumento della temperatura globale, attraverso obiettivi di breve e lungo periodo quali il pacchetto energia pulita del 2016 (finalizzato alla riduzione del 40% delle emissioni di CO2 rispetto al 1990 entro il 2030) e una programmazione lineare di investimenti volti a ricercare e sviluppare in modo efficiente fonti di energia rinnovabili, nonché all’aumento dell’efficienza energetica. Sulla scia degli impegni presi, nel 2019, la Commissione Europea ha pubblicato l’European Green Energy Deal (EGD) che, superando gli obiettivi assunti nel 2016, prevede una riduzione delle emissioni pari al 50-55% entro il 2030. Quest’ultimo appare come un ambizioso piano di politica estera, in quanto la transizione ecologica dal carbonio coinvolgerà non solo l’Unione, ma ogni partner commerciale produttore di combustibili fossili, innescando profonde ripercussioni geopolitiche. Il Green Deal europeo è il basamento di un complesso sforzo volto a trasformare l’assetto economico dell’Unione, nel tentativo di rendere il continente il primo al mondo a neutralità climatica entro il 2050. Per arrivare a ciò, sarà necessario ridefinire la catena di produzione energetica ed il suo consumo, considerando che circa i ¾ del sistema energetico europeo si basano su combustibili fossili, mentre le energie rinnovabili si attestano ancora sotto il 15%, soglia che dovrà inevitabilmente crescere notevolmente per il raggiungimento degli obiettivi fissati al 2050. In tale contesto, nel 2019, l’International Energy Agency (IEA), su richiesta del governo giapponese, ha prodotto un rapporto dal titolo The Future of Hydrogen, analizzando lo status attuale della risorsa e anticipandone le potenzialità future, prevedendo una crescita d’impiego della risorsa almeno del 13-14% entro il 2050, alla luce dei numerosi progetti di ricerca su quello che viene definito idrogeno pulito. L’European Clean Hydrogen Alliance mira infatti a svilupparlo, abbattendo i costi, e distribuirlo nel continente lungo una filiera che lo renda fruibile ad alti livelli.
Perché l’idrogeno?
Primo elemento della tavola periodica, nonché il più abbondante in natura, l’idrogeno è divenuto oggetto di innumerevoli studi ed investimenti in tutto il mondo, per la sua versatilità e potenzialità d’impiego verso un futuro più green. Quest’ultimo può essere conservato per lunghi periodi di tempo a costi competitivi rispetto ai convenzionali sistemi di Energy Storage su larga scala. La sua leggerezza chimica lo rende più sicuro in caso di dispersione accidentale, considerando inoltre la sua inferiore infiammabilità rispetto ai classici combustibili.

Quanto può incidere l’idrogeno nell’industria italiana?
Nel contesto descritto l’Italia ha definito il suo piano per la lotta al cambiamento climatico secondo due direttrici: la Strategia Energetica Nazionale del 2017 e il Piano Nazionale Integrato per l’energia ed il Clima risalente al 2019 (PNIEC). Quest’ultimo, si configura come uno dei pilastri fondanti il percorso di de-carbonizzazione sul territorio nazionale, i cui obiettivi si conformano a quelli previsti dall’Unione Europea per il 2030. Al suo interno è possibile riscontrare particolare attenzione per l’idrogeno e per le sue potenzialità energetiche, stimando che possa arrivare a coprire ¼ del fabbisogno nazionale entro il 2050. In tale ottica sono stati recentemente istituiti nuovi Ministeri e ridefiniti altri preesistenti: nel febbraio 2021 è stato istituito il Ministero per la Transizione Ecologica (MITE) ed al contempo il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) ha quantificato i costi dello sviluppo di un’economia basata sull’idrogeno a basse emissioni, pari a 10 miliardi di euro da destinare a investimenti nel decennio 2020-2030. Il Governo, inoltre, al fine di incentivarne il mercato, ha previsto il raggiungimento della capacità di 5 GW di elettrolisi entro il prossimo decennio. Attualmente il consumo di idrogeno (prevalentemente grigio) in Italia è limitato ai settori della chimica e della raffinazione. Uno dei primi terreni di prova per un suo futuro utilizzo su larga scala, è senza dubbio il settore navale, nell’ambito del quale sono presenti nuove tecnologie per l’impiego della risorsa come combustibile nelle turbine a gas. Il trasporto pubblico si configura come un ulteriore banco d’esame, specie per le tratte a lunga percorrenza, nel trasporto di merci e nelle reti ferroviarie. L’idrogeno si impone dunque come valido percorso verso la de-carbonizzazione dei settori industriali e dei trasporti. Tuttavia, l’attuale quadro normativo della produzione di idrogeno nel territorio nazionale, sebbene destinato ad ampliamenti giuridici, comprende solamente quella derivante da combustibili fossili, il c.d. idrogeno grigio. Terminata la conferenza COP26, l’attenzione mondiale si focalizzerà interamente sull’Esposizione Universale 2020 in corso a Dubai. L’evento, iniziato il 1° ottobre con un anno di ritardo a causa della pandemia da Covid-19, si basa proprio sulla de-carbonizzazione mondiale e la lotta al cambiamento climatico, temi ormai portanti in ogni ambito e manifestazione internazionale. Seguendo il mantra Connecting Minds, Creating the Future il Padiglione tricolore espone e vanta gli impegni e i progressi compiuti nel settore, attraverso il connubio di bellezza ed eco-sostenibilità. Sul tema, è inevitabile evidenziare l’impegno del Paese ospitante. Gli Emirati Arabi Uniti, primi firmatari tra le petromonarchie del Golfo dell’Accordo di Parigi, posseggono tutti i requisiti ed i vantaggi competitivi per divenire uno dei produttori di idrogeno a bassa emissione di carbonio più grandi e più economici al mondo. Sebbene possa sembrare paradossale essere il settimo produttore ed il quarto esportatore al mondo di petrolio, gli EAU (da molti definito un Paese energivoro) vantano uno dei programmi di energia rinnovabile e di diversificazione economica più ambiziosi al mondo, rappresentando una grande opportunità per le sue partnership. Questi, sono inseriti all’interno di una cornice geopolitica e geoeconomica-energetica articolata, meritevole di approfondimento.
Quanto sta impattando il cambiamento climatico nel Golfo?
A causa, infatti, degli ormai evidenti rischi posti dalla questione climatica, il dibattito sulla transizione ecologica sta assumendo una sempre maggiore rilevanza anche fra i Paesi mediorientali che basano la loro economia sull’esportazione del petrolio. Seppur ricco di combustibili fossili e idrocarburi, il Medio Oriente sta subendo un incremento medio delle temperature pari a due volte quello globale e, secondo le ultime previsioni, entro il 2050 l’intera regione potrebbe diventare più calda di ben 4° rispetto al target dei 2°, stabilito dalla comunità scientifica come indice per una drastica diminuzione della qualità della vita nei territori. Tali dati sembrano essere corroborati dai fenomeni metereologici che hanno colpito la regione quest’estate: a giugno, il Kuwait ha registrato una temperatura di 53,2° mentre l’Oman, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita hanno tutti evidenziato temperature oltre i 50°. Non è un caso che i Paesi più colpiti siano quelli del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC): la penisola arabica è un territorio vasto e quasi interamente ricoperto da deserto, i cui centri abitati si sviluppano, per esigenze geografiche, lungo le fasce costiere. Sebbene le difficoltà sorte dall’impatto climatico sulla regione siano evidenti, le misure politiche adottate sono state assai limitate; tale esitazione è attribuibile al ruolo che riveste nelle rispettive economie l’esportazione dei combustibili fossili e di idrocarburi. Il contributo al PIL nazionale varia dal 30% negli EAU, a circa il 60% in Arabia Saudita e Qatar. Tuttavia, recentemente la domanda globale di greggio ha registrato un forte calo, innescando processi di diversificazione economica, spianando la strada ai preparativi per un’era post-petrolifera, ormai divenuta priorità anche tra le petromonarchie del Golfo.
La Roadmap per l’idrogeno del Regno emiratino
Gli Emirati Arabi Uniti ne rappresentano infatti, l’esempio più virtuoso: la volontà di Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan, Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, di candidare (e ufficializzare) gli Emirati ad ospitare la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP28) prevista per novembre 2023, è indice della crescente rilevanza della questione dei cambiamenti climatici tra le priorità politiche del Paese. Tesi avvalorata inoltre dall’ambizioso progetto emiratino, manifestato proprio in questi giorni a Glasgow in sede COP26, comprendente un investimento di 600 miliardi di dirham (143 miliardi di euro) in energie rinnovabili per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni per il 2050, diventando effettivamente il primo Paese mediorientale a fare una simile promessa. Al fine di poter raggiungere tali traguardi, il Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture (MOEI) emiratino ha annunciato la Hydrogen Leadership Roadmap, un progetto nazionale volto a supportare le industrie a basse emissioni di CO2, favorendo la produzione di idrogeno con l’obiettivo di condurre Abu Dhabi all’ottenimento di circa il 25% della quota di mercato globale di esportazione dell’idrogeno per il 2030.
La tabella di marcia segue tre direttrici principali: sbloccare nuove fonti di valore attraverso le esportazioni di idrogeno a basso contenuto di CO2, (il c.d. idrogeno blu e verde), sviluppare una produzione sostenibile di acciaio e cherosene attraverso l’impiego dell’idrogeno come combustibile; contribuire all’impegno di zero emissioni del Paese per il 2050. Oltre a questo, la Roadmap indica che verranno attuate partnership con altri Stati interessati al mercato per sviluppare nuove tecnologie che possano ulteriormente abbassare i costi dell’estrazione, dello stoccaggio e del trasporto dell’idrogeno. Abu Dhabi è quindi pronta a mettere a disposizione la propria struttura di ricerca e sviluppo (R&D) nazionale per accelerare la crescita di un’economia nazionale basata sull’idrogeno. Stime attuali valutano il mercato globale dell’idrogeno pulito a circa 120 miliardi di dollari, con un valore che potrebbe superare i 200 miliardi entro 4 anni, secondo Bloomberg.
Con un progetto relativamente ambizioso, diversi fattori infrastrutturali, logistici e geografici lasciano immaginare che Abu Dhabi possa davvero diventare un attore centrale nel mercato dell’idrogeno pulito e renderlo un hub energetico regionale e internazionale. La sua posizione geografica, infatti, rappresenta un’opportunità strategica unica per ergersi a collegamento per le rotte commerciali fra Oriente ed Occidente. Inoltre, le grandi distese desertiche presenti nel territorio permetterebbe la costruzione di centrali ad energia solare e pannelli fotovoltaici indispensabili per la produzione dell’idrogeno verde. In tal senso, sono stati sviluppati due progetti significativi: il parco solare Mohammed bin Rashid Al Maktoum, realizzato dalla Dubai Electricity and Water Authority (DEWA), in grado di fornire 5 GW entro il 2030 e il Progetto Solare di Al Dhafra da 2 GW, commercialmente operativo dal 2022. Ulteriore vantaggio è costituito dal fatto che la conversione green del settore produttivo energetico emiratino non partirebbe da zero, essendo dotato di una rodata architettura infrastrutturale; a maggio di quest’anno infatti, gli Emirati Arabi Uniti hanno creato il più grande impianto di idrogeno del Medio Oriente e del Nord Africa, un’iniziativa congiunta tra Siemens Energy, Dubai Electricity and Water Authority (DEWA) e l’Expo 2020 di Dubai; il progetto, implementato nelle strutture del centro di ricerca e sviluppo della DEWA, impiegherà l’energia solare prodotta proprio dal Parco Al Maktoum.
Le possibilità di cooperazione internazionale
La proattività mostrata da Abu Dhabi nell’esplorare le possibilità energetiche dell’idrogeno non sono di certo passate sottotraccia; tutt’altro, ha suscitato l’interesse di numerosi Stati importatori di energia impegnati attivamente nella ricerca di alternative ai combustibili fossili. Trattative e incontri bilaterali si sono susseguiti per tutto il perdurare della COP26 a Glasgow e, alcuni, proseguiranno anche nel corso della manifestazione dell’Expo 2020.
Il 4 novembre scorso, Nawal Al-Hosany, rappresentante permanente degli Emirati Arabi Uniti presso l’Agenzia Internazionale delle Energie Rinnovabili (IRENA) ha dichiarato che il proprio Paese ha attualmente diversi progetti attivi per il mercato globale, l’Europa è certamente tra questi. L’Italia, attraverso le sue imprese nazionali, è attiva nella ricerca di partnership con gli Emirati Arabi per lo sviluppo di soluzioni adatte alla transizione ecologica, alla produzione ed esportazione di idrogeno. A titolo esemplificativo, il 22 marzo, la Snam, uno dei principali operatori italiani di infrastrutture energetiche, e Mubadala Investment Company (il fondo sovrano emiratino dal valore di 243 miliardi di dollari) hanno firmato un Memorandum of Understanding (MoU) con l’obiettivo di collaborare su iniziative congiunte di investimento e sviluppo dell’idrogeno. Secondo il Memorandum, le due aziende realizzeranno attività di valutazione, in termini tecnici ed economici, di potenziali progetti e soluzioni finalizzati a promuovere lo sviluppo dell’idrogeno a livello globale.
L’Italia ha inoltre manifestato interesse per una collaborazione energetica con gli Emirati anche attraverso l’adesione all’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA), con sede dal 2015 a Masdar, nei pressi di Abu Dhabi, la cui direzione è stata affidata all’italiano Francesco La Camera.
Il colosso italiano degli idrocarburi, ENI, ha recentemente firmato un MoU con Mubadala, volto a identificare opportunità di cooperazione nel settore della transizione energetica, inclusi l’idrogeno e la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. L’Amministratore Delegato di ENI, Claudio Descalzi, ha definito Mubadala un partner strategico, sottolineando l’importanza dell’intesa, nell’ottica del raggiungimento della neutralità carbonica da parte della società italiana entro il 2050. Questo obiettivo rappresenta il fulcro della politica energetica attuale portata avanti dall’ENI, come dimostrato anche dall’enfasi posta sul processo di de-carbonizzazione e sulla transizione ecologica all’interno del Padiglione Italia ad Expo 2020, dove il colosso partecipa in qualità di Platinum Sponsor. Proprio pochi giorni fa, all’interno del Padiglione tricolore è avvenuto l’incontro tra il Ministro dello Sviluppo Economico italiano Giancarlo Giorgetti, e il Ministro dell’Economia emiratino, Abdullah bin Touq Al Marri, congiuntamente al Ministro dell’Industria e della Tecnologia, Sultan bin Ahmed Al Jaber. I colloqui, avvenuti durante l’inaugurazione dell’Italia Geniale, sono poi proseguiti presso il Padiglione dei padroni di casa (tappa non di poco conto) sottolineando, secondo il Ministro Giorgetti, l’importanza di un percorso congiunto tra i due Paesi, volto allo sviluppo e alla crescita economica. Percorso di collaborazione che è poi continuato anche con l’incontro, l’8 novembre, fra il Ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio e la sua controparte emiratina Abdullah bin Zayed Al Nahyan, in cui è stata discussa la partnership bilaterale fra i due Stati.
La penisola tricolore, grazie alla sua vantaggiosa posizione geografica, è stata a più riprese definita un possibile hub dei futuri mercati di idrogeno. L’Italia avrebbe, infatti, la possibilità di incrementare la sua capacità energetica e la sua proiezione nei mercati globali del settore, in virtù della già esistente collaborazione con gli Emirati Arabi Uniti, apertamente dichiaratisi futuri leader nei processi di elettrolisi e nello sviluppo dei c.d. idrogeni blu e verde. Tale collaborazione, partendo da solide basi già rodate, offrirebbe la possibilità ad entrambi i Paesi di inserirsi velocemente nel mercato globale come players di primo piano. Gli EAU potrebbero inoltre rivestire, nel breve e medio periodo, il ruolo di attore stimolante per l’incremento della produzione e stoccaggio dell’idrogeno derivato da combustibili fossili, tappa fondamentale verso gli obiettivi del 2050.