Il 24 agosto scorso Naftali Bennett è partito per il suo primo viaggio negli USA da quando è stato nominato Primo Ministro di Israele. Si è trattato del primo incontro tra il Presidente americano Biden e un premier israeliano da quando il primo è arrivato alla Casa Bianca. In partenza dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv Bennet ha inteso fin da subito chiarire gli obiettivi del suo viaggio oltreoceano – in cui ha tenuto colloqui anche con il Segretario alla Difesa, Austin, e il Segretario di Stato, Blinken. Da un lato, inaugurare un “nuovo spirito di cooperazione” tra lo Stato ebraico e il suo maggiore alleato, dopo le turbolenze vissute negli ultimi mesi del governo Netanyahu; dall’altro, come ribadito anche in occasione della riunione di governo del 22 agosto, porre al centro delle discussioni un unico tema cruciale: l’Iran e il dossier nucleare. Con il viaggio di Bennett a Washington, infatti, si è simbolicamente concluso il processo di revisione della politica iraniana di Israele, iniziato fin dalle prime settimane di vita dell’attuale governo israeliano, in carica dal giugno scorso.
L’Iran nucleare visto da Israele
Da almeno due decenni la Repubblica islamica dell’Iran rappresenta il principale cruccio dell’establishment della sicurezza israeliano. Nel gergo utilizzato dagli strateghi israeliani, l’Iran nuclearizzato viene definito una “minaccia esistenziale”. Un lessico apparentemente parossistico, probabilmente affetto da contaminazioni di matrice escatologica tipiche di un attore la cui cultura strategica è influenzata dalla visione del mondo propria del suo ceppo demografico e identitario dominante: il popolo ebraico, nella sua doppia veste di nazione e comunità religiosa.
Cionondimeno, con tale dizione bene si intercetta la percezione che lo Stato ebraico ha di sé e del quadrante regionale in cui insiste. Israele, infatti, si percepisce come un unicum nel panorama mediorientale: una variabile da cui non si può prescindere se si vogliono comprendere le dinamiche regionali ma anche, allo stesso tempo, un corpo allogeno impiantato artificialmente nel codice genetico di tale regione. In virtù di quanto detto, agli occhi di Israele tale stato di sospensione rende le interazioni con gli altri attori regionali un fatto a sé stante. Secondo tale visione, i detrattori dello Stato ebraico non mirerebbero a una sua sconfitta politico-militare, come nella normale dialettica competitivo-conflittuale che connota le interazioni tra gli attori dell’arena internazionale. Al contrario, essi aspirerebbero alla sua estinzione; nelle parole di Moshe Dayan, «alla distruzione del Terzo Tempio» – richiamando alla memoria le campagne con cui i babilonesi prima e i romani poi, rispettivamente nel 586 a. C. e nel 70 d. C., distrussero il Tempio di Gerusalemme, baricentro dell’ebraismo antico.
Con la cessazione della minaccia esistenziale di tipo convenzionale portata dai confinanti Stati arabi almeno sino alla Guerra dei Sei giorni del 1967 – nei decenni successivi la loro attenzione si è spostata sul più limitato obiettivo della riconquista dei territori perduti – ad oggi l’Iran nuclearizzato viene percepito come la più credibile minaccia esistenziale, di tipo non convenzionale, in grado di mettere in discussione la sopravvivenza dello Stato ebraico. Nel calcolo israeliano, inoltre, l’eventuale nuclearizzazione andrebbe a innescare delle conseguenze di più ampia portata sulla politica regionale di Teheran, nelle parole dell’ex Ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, interpretata come una «minaccia multidimensionale». Nello scenario di un Iran nuclearizzato, infatti, l’estroversione iraniana nella regione, dal sostegno al regime di Assad in Siria sino al consolidamento dell’asse con i vari attori non statuali che popolano il Medio Oriente, ne uscirebbe ulteriormente rafforzata.
Gli obiettivi dello Stato ebraico
In una prospettiva di lungo periodo, l’imperativo che muove la politica israeliana su tale dossier rimane immutato: il mantenimento della propria unicità nucleare in Medio Oriente. Israele, infatti, rappresenta al momento l’unico attore regionale in possesso di una capacità nucleare nazionale, seppure occulta. La politica nucleare israeliana, in gergo Amimut policy (politica dell’ambiguità), non ha eguali se confrontata con le dottrine nucleari degli altri attori del panorama internazionale. Come suggerisce lo stesso termine, lo Stato ebraico non ha mai né confermato né smentito il possesso dell’arma nucleare. Storicamente, tale politica ha rappresentato il prodotto finale di intense negoziazioni tra Israele e gli USA iniziate nel 1963, in occasione dell’incontro tra il Presidente Kennedy e l’allora Vice-Ministro della Difesa israeliano, Shimon Peres, padre del nucleare israeliano. Solamente nel 1968, nell’incontro tra Nixon e Golda Meir, si giunse a un’intesa non scritta con cui Washington accettò la nuclearizzazione israeliana in cambio dell’impegno israeliano di non rendere pubblico il proprio arsenale né favorire la proliferazione a terze parti. Da Nixon in poi ogni Presidente americano ha rinnovato tale sostegno, messo per iscritto per la prima volta da Clinton nel 1998. Lo stesso Biden avrebbe ribadito la propria adesione nel suo incontro con Bennett dello scorso 27 agosto.
Dalla prospettiva israeliana la ratio strategica di tale politica dell’ambiguità è contenuta nel seguente calcolo: far credere agli altri attori internazionali di possedere l’arma nucleare, al fine di costruire una deterrenza nucleare sufficientemente credibile ma, allo stesso tempo, negarne pubblicamente il possesso, per evitare di dover sostenere i costi politici, diplomatici e militari che deriverebbero da una dottrina nucleare classica. Allargando lo sguardo, la politica nucleare israeliana si inserisce nel più vasto principio della superiorità qualitativa, il quale si esplica nel tentativo, in ciascuna dimensione e livello della strategia, di sopperire all’inferiorità quantitativa garantendosi appunto una superiorità di tipo qualitativo – un principio inscritto non a caso anche nelle maglie dell’alleanza con gli USA, attraverso il concetto di Qualitative military edge israeliano (QME).
Legando quanto detto alle negoziazioni internazionali in corso sul nucleare iraniano, l’attuale leadership politico-militare israeliana traccia un obiettivo molto chiaro, evitare la nuclearizzazione della Repubblica islamica, e tre scenari ipotetici differenti:
1) Scenario ottimale un accordo sul nucleare iraniano rafforzato sia nella durata (non decennale come era il JCPOA) che nelle singole clausole (vincolante non solo il nucleare ma anche la politica missilistica e la politica regionale iraniana, oltre che un ampliamento della capacità ispettiva riservata all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica). In questo senso è utile menzionare la recente intervista rilasciata dal Ministro della Difesa Gantz su Foreign Policy: Israele accetterebbe un accordo sul nucleare a patto che Washington preveda un Piano B in caso di mancato accordo, basato su un ritorno alla “massima pressione”. Inoltre, lo Stato ebraico continuerà a lavorare a un Piano C, ovvero all’opzione militare;
2) Scenario intermedio mancato accordo. In tale caso Israele continuerebbe a richiedere una forte pressione politica ed economica su Teheran, riservandosi inoltre la possibilità di risolvere in maniera extra-diplomatica la partita del nucleare iraniano;
3) Scenario peggiore accordo uguale o simile al Joint Comprehensive Plan of Action del 2015. Si tratta di uno scenario equiparato dall’attuale leadership israeliana – sia militare che politica – a un Iran già nuclearizzato, aggravato dall’aumento del costo politico-diplomatico che si dovrebbe sostenere se si decidesse di agire militarmente contro gli impianti nucleari iraniani.
In merito a tale valutazione è possibile affermare come in questa fase ci sia un consenso trasversale tra tutti gli attori che a vari livelli partecipano al decision-making process (DMP) – situazione molto diversa rispetto al 2015-16 quando il ramatkal Gadi Eisenkot, il vertice militare, si attestava su una posizione di sostegno al JCPOA in contrasto con il premier Netanyahu, il vertice politico. Va dato atto tuttavia di come, ancora oggi, all’interno del variegato universo della sicurezza in Israele permangano posizioni eterogenee: sia più aperturiste e di sostegno, financo a un accordo soft sulla falsariga del JCPOA, che ancor più rigide e di rifiuto.
Death by a thousand cuts: una tattica tridimensionale
È scendendo ad un livello tattico che è possibile individuare le principali novità apportate dal governo Bennett alla politica israeliana nei confronti della Repubblica islamica. In generale si può parlare di una tattica “tridimensionale”, composta come segue:
- Dimensione politico-diplomatica: massimo coordinamento con gli USA. Durante il suo incontro con Biden alla Casa Bianca Bennett ha confermato la volontà di smarcarsi dalla posizione di totale chiusura nei confronti del negoziato nucleare di cui per anni si è fatto promotore Netanyahu. In cambio, per la prima volta Biden ha accennato alla possibilità di un piano B qualora i negoziati con Teheran fallissero, al fine di evitarne la nuclearizzazione. Fin dal giugno scorso il nuovo premier israeliano aveva annunciato l’intenzione di discutere nel merito le singole clausole dell’accordo con l’alleato americano, facendo decadere il ban imposto dal precedente governo che impediva ai funzionari israeliani di fare ciò. Tale posizione è stata presentata agli americani nel corso del summit di Roma tra Blinken e Lapid del 27 giugno scorso. In generale, a tale livello si vogliono evitare gli errori commessi da ambo le parti all’epoca di Obama – quando gli americani negoziarono segretamente con l’Iran a partire dal 2013 e Netanyahu alzò il livello dello scontro politico con il suo discorso di accusa tenuto al Congresso americano nel 2015. Entrando nel merito, tale politica di coordinamento viene definita no surprise policy: gli americani si impegnano ad aggiornare le controparti israeliani sullo stato di avanzamento del negoziato; in cambio, Israele condivide informazioni circa le sue mosse nelle dimensioni militare e di intelligence (in verità alcuni analisti sostengono che tale politica fosse stata già accettata da Netanyahu, il quale tuttavia ha negato in più occasioni). I contatti tra i due attori vengono condotti a vari livelli. È tuttavia interessante sottolineare l’esistenza di due fori specificatamente dedicati al dossier del nucleare iraniano:
- Strategic working group: si tratta di un format di dialogo informale nato nel 2009 e rivitalizzato nel febbraio scorso, nelle prime settimane di Biden alla Casa Bianca, guidato dai rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale;
- Ufficio dell’Inviato speciale per l’Iran: all’interno dell’ufficio del Dipartimento di Stato americano guidato dall’Inviato Speciale Robert Malley è stato nominato un nuovo membro. Si tratta dell’ex Ambasciatore americano in Israele, Dan Shapiro, il quale fungerà da cerniera di collegamento tra gli USA e Israele, facendo la spola tra Washington e l’ambasciata americana di Gerusalemme.
- Dimensione militare: la guerra dei mari. Negli ultimi mesi si è assistito all’apertura di un fronte del tutto inedito nel confronto tra Israele e Iran, ovvero una guerra marittima occulta – secondo uno scoop del Wall Street Journal tale tattica sarebbe stata impiegata da Israele già a partire dalla fine del 2019, ma limitatamente alle imbarcazioni iraniane dirette in Siria. Questa viene condotta da ambo i lati attraverso una serie di plausible-deniability operations, ovvero attacchi e azioni di sabotaggio a petroliere, navi mercantili e altre imbarcazioni, la cui paternità non viene rivendicata. Il quadrante di riferimento è quello che va dal Mediterraneo al Golfo, comprendendo anche il Mar Rosso. Dal punto di vista israeliano, tale tattica è propedeutica a sedersi idealmente al tavolo dei negoziati senza essere invitati. In altre parole, si mira a influenzare l’andamento dei negoziati, ponendo dei costraints sia a Teheran che a Washington. Prova ne è la tempistica con cui si sono verificati tali eventi negli scorsi mesi, in concomitanza con i round negoziali di Vienna. Dal canto suo, Teheran non ha esitato a intraprendere azioni simili. L’attacco più recente e importante è quello avvenuto a largo dell’Oman agli inizi di agosto, ai danni della nave cisterna Mercer Street. In quell’occasione, per la prima volta si sono contate delle vittime tra i membri dell’equipaggio tanto che, dopo un’investigazione condotta da CENTCOM, gli USA hanno accusato esplicitamente l’Iran di essere dietro l’attacco. Una posizione condivisa successivamente in un comunicato congiunto dai ministri degli esteri dei Paesi del G7.
- Dimensione di intelligence: sabotaggi e assassini mirati. Si tratta delle più classiche covert operations, condotte dagli apparati di intelligence israeliani – su tutti il Mossad e Aman, ovvero l’intelligence militare – in collaborazione con alcune unità delle Israel Defense Forces – come la Unit 8200 deputata alla guerra cibernetica.
- Sabotaggi: si tratta di attacchi cyber e/o cinetici condotti al fine di danneggiare le centrali nucleari iraniane ma anche altri siti ad esse collegate, come poli industriali e centri di ricerca. Il più recente attacco, non rivendicato, che vale la pena menzionare è quello occorso ad aprile nella centrale nucleare di Natanz. Come ricostruito recentemente dal New York Times, in quell’occasione Israele avrebbe avvertito gli USA dell’imminente operazione solo con due ore di preavviso, segnando il punto più basso della collaborazione tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Biden sul piano dello sharing informativo.
- Assasini mirati: come ricostruito dall’analista israeliano Ronen Bergman, si tratta di una tattica utilizzata in maniera sistematica nei decenni scorsi per decapitare la leadership politica e/o militare di molteplici attori non statuali, da Hamas a Hezbollah. In riferimento al nucleare iraniano, l’operazione nota più recente è quella che ha portato all’uccisione dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, nel novembre del 2020.
Complessivamente, la tattica tridimensionale adottata da Israele è stata definita da Bennett una death by a thousand cuts strategy: cioè una tattica che ambisce a contrastare l’Iran attraverso piccole azioni mirate poste in essere su molteplici fronti. Di fatto, essa non è che la declinazione nel dossier iraniano del più generale principio della war between wars (MABAM nell’acronimo in lingua ebraica), tratto peculiare della dottrina di difesa israeliana.