La visita non ufficiale del Primo ministro Naftali Bennet al Cremlino avvenuta il 5 marzo scorso, apre alla possibilità di una mediazione israeliana al conflitto in corso tra l’Ucraina e la Russia. Il primo ministro israeliano Naftali Bennet ha avviato una serie di procedure di dialogo tra le parti fin dai primi giorni dello scontro. Le ragioni dietro l’interesse israeliano per un dialogo tra Mosca e Kiev non sono solo politiche ma anche culturali.
I “russi d’Israele”
La comunità russofona in Israele è la terza più grande al di fuori della Russia. A questo gruppo definibile etnico linguistico appartengono i milioni di cittadini sovietici, soprattutto russi, bielorussi ed ucraini, che a partire dal 1967, grazie alla cosiddetta “legge del ritorno”, hanno avuto la possibilità di lasciare le loro terre di origine per fare aliyah e trasferirsi in terra d’Israele. Numeri che, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il 25 dicembre 1991 e fino ai primi anni Dieci del 2000, hanno raggiunto dimensioni da capogiro. Si parla infatti di più di 1 milione e mezzo di nuovi cittadini israeliani parlanti russo. Pur non raggiungendo le dimensioni del secolo scorso, annualmente, ancora decine di migliaia di cittadini, in maggioranza ucraini e russi, di religione o di origine ebraica si trasferiscono in Israele. Tuttavia, nell’ultimo decennio si assiste a una timida controtendenza che, sebbene non riesca ad eguagliare le emigrazioni in terra d’Israele, prova a controbilanciare con un’immigrazione verso la Russia e l’est Europa.
La comunità russofona israeliane, la terza più importante nel paese, gioca un ruolo molto importante all’interno della società e della politica del Paese. L’esempio per eccellenza è tangibile nel ruolo che il partito Yisrael Beitenu (Nash dom Israel in russo) di Avigdor Lieberman, detiene all’interno dell’attuale compagine di governo. Lieberman, nato nel 1958 a Chisinau, si è sempre impegnato per la difesa degli interessi della comunità russofona israeliana.
Le relazioni russo – israeliane
La diretta vicinanza politica tra Mosca e Tel Aviv si evince anche dall’affluenza che i cittadini aventi doppia cittadinanza russa/israeliana hanno manifestato nell’ultima tornata elettorale russa del 2018. Infatti, il 72% degli aventi diritto ha dato la preferenza al partito Russia Unita di Vladimir Putin. L’anno precedente, nel 2017, la Knesset decretò Giornata della Vittoria in Europa sul nazifascismo come festa nazionale, alla presenza di numerosi veterani di quella che fu l’Armata rossa. Non solo ebraismo però. In Israele, infatti, è presente anche una nutrita comunità di cristiani ortodossi. La Chiesa di Maria Maddalena sita sul Monte degli Ulivi in Gerusalemme è tra le più importanti cattedrali della cristianità ortodossa fuori dalla Russia.
Viceversa, Mosca, negli ultimi anni ha assistito ad un aumento della presenza di cittadini israeliani. Cifre parlano di circa 80 mila cittadini israeliani residenti nella capitale russa, con altrettante comunità a San Pietroburgo, Novosibirsk ed Ekaterinburg.
Secondo la Federation Jewish Communities of Russia nel 2015, 194 mila cittadini russi si identificavano come praticanti ebrei. Circa 500 mila invece si identificavano come ebrei secolarizzati o di origine ebraica, con la presenza di più di 150 comunità ebraiche sparse per tutto il territorio russo. Queste cifre pongono la Russia tra i paesi con la più grande comunità ebraica in Europa, dopo Francia e Regno Unito, e quinta più grande al mondo.
Da un punto di vista diplomatico, la Russia ha da sempre definito Israele come un partner fondamentale nella regione. A partire dagli anni 2000 i rapporti tra Putin e il suo omonimo israeliano Benjamin Netanyahu sono divenuti col tempo sempre più cordiali totalizzando, tra il 2015 e il 2018, nel pieno dell’interventismo russo in Siria, nove incontri istituzionali. Nel 2008 i due paesi hanno siglato un accordo di libera circolazione di persone. Le agevolazioni miravano a semplificare i trasferimenti tra i due paesi ed aumentare la presenza turistica russa in Israele. Tuttavia, a partire dal 2014, a seguito delle prime sanzioni occidentali e la successiva crisi del rublo, il mercato turistico russo ha avuto un brusco calo.
Le relazioni ucraine – israeliane
Quando il 20 maggio 2019, Volodymyr Zelensky assunse la presidenza della Repubblica Ucraina, diverse testate israeliane acclamarono l’evento come il primo caso di Esecutivo “Ebraico” al di fuori dello Stato d’Israele. Allora, la presidenza dei ministri era ancora in mano Volodymyr Groysman, e la scelta di un esecutivo così giovane faceva ben sperare non solo per una risoluzione sostanziale al conflitto nel Donbass ma anche per una concreta cooperazione diretta con la Russia. Due anni e mezzo dopo però la situazione è mutata in modo estremamente drammatico.
Fin dall’inizio delle ostilità, l’agenzia ebraica si è mobilizzata per tentare di portare in salvo quanti più cittadini israeliani ed ucraini di origine ebraica. L’Ucraina, infatti, ha una nutrita comunità ebraica che, secondo i dati del 2015 della Federation of Jewish Communities in CIS attestata tra i 75 mila e i 200 mila ebrei osservanti, con una più vasta presenza di ucraini di origine ebraica ma non praticante che raggiunge i 400 mila. Ovviamente questi dati dovranno essere rivisti al ribasso, una volta terminato il conflitto in corso. Tuttavia, l’ebraicità dell’Ucraina ha radici secolari. È in questi territori che nel 1791 Caterina II istituì la nota Zona di residenza per la popolazione ebraica i cui numeri nel 1939, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Superavano il milione. La popolazione ebraica lungo i decenni cupi del comunismo subì la forte repressione del regime. Tuttavia, a partire dagli anni 80, le comunità ebraiche di Kiev, Odessa, Kharkiv, Cernihiv, Leopoli e decine di altre, videro ridurre drasticamente il numero dei loro iscritti, emigrati a centinaia di migliaia verso gli Stati Uniti o Israele. Il passato culturale dell’ebraismo ucraino, quello tipico dello shtetl descritto dai vari autori russo – ucraini di letteratura Yiddish come Sholem Aleichem, è riuscito a riemergere nell’ultimo trentennio, grazie anche alle opere di salvaguardia del World Jewish Congress e delle numerose fondazioni che riescono a mantenere in vita le centinaia di comunità sparse per tutto il paese. L’Ucraina, infatti, detiene un nutrito numero di santuari ebraici, di cui i più importanti sono quello del Rebbe Nachman di Breslov a Uman’ e la tomba del santo Baal Shem Tov a Medzibyzh. Prima dello scoppio del Covid – 19, queste due città erano le protagoniste di pellegrinaggi di massa di fedeli ebrei ortodossi, provenienti in maggioranza da Israele, Stati Uniti e Russia che, durante le festività ebraiche più importanti, giungevano a migliaia. Per tal motivo nel 2010 i governi di Kiev e Tel Aviv siglarono un accordo speciale di libero transito di persone tra i due paesi, consentendo così maggiori flussi turistici. Purtroppo, però, pur essendo meta di pellegrinaggio, pur essendo conservatrice di “un mondo che non c’è più” (parafrasando Israel Yehoshua Singer) e pur essendo Volodymir Zelensky l’unico capo di stato ebreo al mondo, al di fuori d’Israele, gli atti di antisemitismo nel paese sono divenuti sempre di più una costante nella vita dell’Ucraina.
Il 2021 infatti è stato definito uno degli anni con il più alto tasso di atti antisemitici dell’ultimo decennio. Questi episodi hanno avuto luogo non solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti, in Francia e nei paesi dell’Europa dell’Est: Polonia e Ucraina ai primi posti. La maggior parte degli episodi si è registrata nell’est del paese, nelle regioni di Donetsk e Luhansk. Di controtendenza invece la situazione in Russia.
Perché Israele potrebbe essere il mediatore tra Russia e Ucraina.
Fin dalla crisi della Crimea e la successiva crisi del Donbass Israele ha cercato di accompagnare ad un accordo tra le parti. Tuttavia, la fine del lungo decennio di Netanyahu e il passaggio delle consegne a Bennett, ha mutato, seppur di poco, le relazioni con Mosca e Kiev, se non per le posizioni del ministro degli esteri Yair Lapid nei giorni dell’acuirsi della Crisi in Ucraina, quando lo spettro del conflitto sembrava (all’apparenza) remoto. Il governo Bennett, fin dalla richiesta di Zelensky di un aiuto diplomatico, e in seguito al bombardamento del memoriale di Babi Jar, ha sempre tentato di giocare il ruolo di ago nella bilancia tra le parti. Tel Aviv, ad esempio, ha evitato che armi di fabbricazione israeliana venissero distribuite all’esercito e alla resistenza ucraina dai paesi baltici della Nato. Al tempo stesso la staffetta di visite non ufficiali fatte a Putin e Olaf Scholz il 5 e il 6 marzo scorso, accompagnato dal ministro israeliano per l’edilizia abitativa Zeev Elkin, originario di Charkiv, le tre telefonate effettuate in volo con il Presidente Zelensky, hanno fatto sperare (e continuano a farlo) per l’apertura di un canale diplomatico concreto che possa avviare un negoziato per un cessate il fuoco e una tregua armata.
Domenica mattina, durante una conferenza stampa, il Premier Bennet ha sottolineato che “Israele ha l’obbligo morale di cercare di porre fine alla sofferenza umana nella guerra in Ucraina“. Il gabinetto di Bennett ha annunciato altresì l’avviò di una serie di missioni umanitarie della protezione civile israeliana e dell’Agenzia ebraica Sochnut per aiutare la comunità ebraica ucraina e non solo. Tuttavia, a differenza della maggioranza dei paesi occidentali, Tel Aviv non ha aderito all’unanimità ai pacchetti di sanzioni indirizzati verso il Cremlino, attestandosi su posizioni più “soft”, quali semplici misure restrittive nei confronti degli oligarchi russi, monitorando movimenti bancari verso gli istituti di credito israeliani.
Questa timida risposta di Tel Aviv all’invasione russa dell’Ucraina trova una sua risposta anche nei rapporti militari con Mosca. Infatti, fin dai primi giorni dell’intervento russo in Siria, Israele ha sempre manifestato un interesse alla cooperazione militare con Mosca nella Regione. Da fine settembre 2015 un accordo militare siglato tra Putin e Netanyahu ha evitato la possibilità di incidenti militari sopra i cieli della Siria meridionale. Qualche settimana più tardi un Sukhoi russo verrà abbattuto sui cieli di Latakia dall’aviazione turca. Con questo accordo i russi si impegnavano infatti a comunicare prontamente alla difesa israeliana eventuali propri sconfinamenti sui cieli israeliani, coordinandosi infine in materia di intelligence on the ground. E poiché la situazione siriana lungi dall’essere risolta, o sulla via della risoluzione, la Balance of Power israeliana potrebbe consentire il mantenimento della stabile instabilità che da dieci anni marca le vicissitudini mediorientali.
La politica israeliana, le cui radici sono ineludibilmente ramificate nella storia europea e, maggiormente, in quell’area compresa tra i Carpazi, il Baltico, gli Urali e il Mar Nero, è probabilmente una delle poche voci autorevoli che possono comprendere le reali problematiche dietro questa sanguinosa guerra, oltre che una delle poche in grado di poterla risolvere. Indubbiamente questo, da una parte darebbe una maggiore credibilità sullo scenario internazionale ad Israele, il quale potrebbe sedersi al tavolo delle trattative; dall’altro il governo Bennett potrebbe evitare due diversi scenari.
Il primo è interno. La guerra in Ucraina vedrebbe una nuova immigrazione di massa di cittadini ebrei russi e ucraini verso Eretz; oggi la popolazione israeliana ha raggiunto quasi i 9 milioni di abitanti. Il secondo è prettamente strategico. L’intervento diplomatico (ed umanitario) israeliano sulla questione ucraina potrebbe aprire un ulteriore trattativa sulla proliferazione del nucleare iraniano, ampiamente appoggiata da Mosca, i cui colloqui, iniziati a Vienna il 29 novembre 2021, erano stati boicottati dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump. Infine, è plausibile che, nel caso di un raggiungimento di un accordo in Ucraina, Israele potrebbe entrare nel concerto dei Paesi “non allineati”; una via di mezzo tra l’Occidente e l’Oriente.
Emanuele Pipitone