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Israele-Palestina, le risposte (divisive) degli Stati del Golfo all’escalation di violenza

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Gli Accordi di Abramo hanno determinato la disgregazione del fronte congiunto dei paesi arabo-islamici contro quello che, fino a pochi anni fa, era considerato un nemico comune: Israele. La normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, ha messo in luce discrepanze sempre più evidenti tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il profondo cambio di rotta della loro politica estera è stato rimarcato anche in occasione della recente escalation di violenza tra israeliani e palestinesi. Tutti i paesi arabi hanno assistito con apprensione alla riaccesa tensione dei giorni scorsi,  ma in che modo hanno reagito i paesi del Golfo?

La condanna “morbida” di Emirati Arabi Uniti e Bahrein

La normalizzazione delle relazioni con Israele ha rappresentato un ulteriore punto di rottura all’interno dei Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’organizzazione su base regionale che riunisce Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Tutti i paesi islamici hanno condannato le azioni di Israele a Gerusalemme e a Gaza, ma la reazione di Abu Dhabi e Manama è stata, come si poteva immaginare, piuttosto fredda. L’8 maggio, sulla scia degli altri paesi del Golfo, anche gli Emirati e il Bahrein hanno condannato l’operazione delle forze di sicurezza israeliane nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme – il terzo luogo sacro dell’Islam dopo Mecca e Medina – e l’aggressione dei fedeli. Però nessuna dichiarazione ufficiale è stata rilasciata dai leader delle due monarchie. Il 26 aprile, Sheikh Abdullah bin Zayed bin Sultan Al Nahyan, Ministro degli Esteri degli Emirati, aveva espresso “preoccupazione per gli atti di violenza commessi da gruppi di estremisti di destra nella Gerusalemme Est occupata, che hanno provocato feriti tra i civili”, e aveva invitato le autorità israeliane “ad assumersi la responsabilità di ridurre l’escalation e a porre fine a tutte le aggressioni e le pratiche che tengono accese tensione e ostilità”. La critica, però, è stata rivolta ai gruppi estremisti, e non al governo israeliano. Il 14 maggio, Sheikh Abdullah bin Zayed, ha sottolineato la volontà degli Emirati Arabi Uniti di assumere una posizione più “moderata” simile a quella degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali, che hanno invitato entrambe le parti a ridurre l’escalation.

Secondo alcuni analisti, l’allontanamento emiratino dagli interessi dei palestinesi non è riconducibile unicamente alle conseguenze della normalizzazione con Israele, ma sarebbe il risultato di un graduale disinteresse nella questione manifestato con l’ascesa di Muhammad Bin Zayed, erede al trono di Abu Dhabi. Il Ministro della Difesa e leader de facto di Abu Dhabi, infatti, avrebbe intrapreso quindici anni fa una linea politica in cui la questione palestinese non era più considerata prioritaria. Effettivamente, i leader palestinesi espressero un forte disappunto nei confronti degli accordi di Abramo, affermando che nessun Paese della regione avrebbe dovuto stipulare accordi con lo Stato ebraico, se non dopo la nascita di uno Stato palestinese o il raggiungimento di un accordo di pace equo e duraturo. A questa richiesta, gli Emirati risposero che il loro avvicinamento ad Israele, avrebbe favorito anche i palestinesi. Tuttavia, da una prospettiva emiratina, il disinteresse nel sostenere i palestinesi è motivato da varie ragioni. Prima di tutto, la presenza di Hamas – considerata un’organizzazione terroristica – nella Striscia di Gaza; secondariamente, la corruzione all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, che rappresenta un interlocutore poco affidabile per la monarchia emiratina. E infine, i forti interessi in ballo con Israele che non si limitano al settore economico e tecnologico. La relazione tra Israele e gli Emirati Arabi è, difatti, strategica e politica. Essa si fonda su una sinergia ideologica e su una visione comune della regione mediorientale, e sulla connotazione che quest’ultima potrebbe assumere in futuro.

Per quanto concerne il Bahrein, il paese meno esteso e meno “influente” del Golfo, la condanna al “ciclo continuo di violenza e la pericolosa escalation tra le fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza e le forze israeliane” è stata pronunciata da Jamal Faris Al-Ruwaie, Rappresentante permanente del Bahrain presso le Nazioni Unite. Nel suo discorso davanti all’Assemblea Generale ha dichiarato che “le vittime di questa escalation militare sono civili innocenti, strutture civili e case, che dovrebbero essere categoricamente respinte dalla comunità internazionale in generale”. Il Ministro degli Esteri, Abdullatif Al-Zayani, si è limitato a confermare il sostegno del Bahrain all’iniziativa di mediazione egiziana per il cessate il fuoco in una telefonata con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry.

La posizione saudita

L’Arabia Saudita ha espresso la sua ferma condanna nei confronti degli attacchi compiuti dalle forze israeliane contro la Sacra Moschea di Al-Aqsa e contro i fedeli. Il Ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, ha lanciato un appello in cui ha invitato la comunità internazionale a riconoscere l’occupazione israeliana “responsabile di questa escalation” e a porre immediatamente fine alle azioni che violano tutte le norme e le leggi internazionali. Il Ministro ha sottolineato che il Regno è dalla parte del popolo palestinese e sostiene tutti gli sforzi volti a porre fine all’occupazione e a raggiungere una soluzione giusta e globale per la questione palestinese, consentire al popolo palestinese di stabilire il proprio Stato palestinese indipendente sulla base dei confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, in conformità con le risoluzioni internazionali. L’Ambasciatore saudita presso le Nazioni Unite, Abdul Aziz Al-Wasel, ha affermato che “la situazione palestinese rimane la principale preoccupazione per l’Arabia Saudita”. In occasione di una riunione straordinaria del Consiglio dei Diritti Umani, convocata per discutere i recenti sviluppi nei Territori palestinesi occupati che a Ginevra ha espresso “profonda preoccupazione per l’accelerazione della politica di colonizzazione israeliana delle terre palestinesi, e in particolare per il rischio di evacuazione di centinaia di famiglie palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est, occupata con la forza da coloni estremisti, sostenuti delle autorità israeliane e in collaborazione con i tribunali razzisti”. L’Ambasciatore, inoltre, ha invitato la comunità internazionale a fare il possibile per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti gli obblighi della Carta delle Nazioni Unite, della Quarta Convenzione di Ginevra, delle leggi internazionali sui diritti umani e di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Tuttavia, sebbene non abbia firmato gli accordi di Abramo, è noto che il giovane erede al trono saudita, Muhammad bin Salman, intrattiene da anni un dialogo con Israele. Se la vecchia guardia, rappresentata dal Re Salman e dal Ministro degli Esteri, Faisal bin Farhan Al Saud, si dichiara disposta a riconoscere lo Stato di Israele solo nell’ambito di un accordo permanente che garantisca ai palestinesi uno Stato nei confini del ’67, la posizione del principe ereditario Muhammad Bin Salman è decisamente meno ostile. A dimostrarlo una dichiarazione rilasciata nel 2018 in cui affermò “condividiamo diversi interessi con Israele, e se c’è pace ci saranno molti interessi tra Israele e i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo”. Si ricorda inoltre l’episodio dell’incontro, mai confermato ufficialmente, con il Premier Netanyahu tenutosi nella “città del futuro” di NEOM alla presenza dell’allora Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo. 

La linea dura di Doha

Tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il Qatar è quello che ha denunciato con più fermezza le “aggressioni” israeliane contro i palestinesi. Il Ministro degli Esteri, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha discusso della situazione attuale sia con il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, che con gli omologhi egiziano e saudita. Il Qatar, inoltre, si è proposto come mediatore per il raggiungimento di un cessate il fuoco ed ha fornito aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, entrando, in un certo senso, in competizione con l’Egitto. Forte delle ottime relazioni qatarine con Hamas, il Ministro degli Esteri ha tenuto una conversazione telefonica anche con Ismail Haniyeh, leader del gruppo che dal 2007 controlla la Striscia. 

Doha ha inoltre dichiarato che non normalizzerà le proprie relazioni con Israele fino a quando non sarà costituito uno Stato palestinese. Per di più, il vice Ministro degli Esteri del Qatar, Lolwah al Khater, ha condannato la risposta di diversi media e politici occidentali alle azioni di Israele nei Territori palestinesi, affermando che “molti politici e media guidati dal denaro stanno ancora trattando la Palestina come se fosse sotto mandato”.

In conclusione, le tensioni tra israeliani e palestinesi hanno reso ancora più evidente la distanza ideologica tra Qatar ed Emirati Arabi Uniti. La competizione tra i due paesi in questione non si basa su aspetti geo-strategici, ma su basi ideologiche. In seguito alle cosiddette Primavere arabe, i due paesi hanno ricoperto due posizioni contrastanti. Se da una parte, Doha sostiene i movimenti rivoluzionari (molti dei quali islamisti) contro gli autoritarismi, dall’altra, gli Emirati Arabi Uniti ritengono che i movimenti rivoluzionari vadano repressi perché motivo di destabilizzazione della regione. All’interno di questa diatriba, si pone poi un’altra enorme potenza, l’Arabia Saudita. Il Regno saudita racchiude in sè una natura conservatrice – come bastione dell’Islam sunnita è interessato a mantenere lo status quo – ma anche riformista – come dimostrato dalla volontà del principe Bin Salman di imporsi a livello internazionale. A completare il quadro, ci sono Oman e Kuwait, che ricoprono il ruolo di storici mediatori regionali.

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