Era nell’aria ormai da tempo ma ora è diventato realtà: Israele e gli Emirati Arabi Uniti normalizzeranno le proprie relazioni diplomatiche. La mediazione del presidente Trump e il momentum creato dalla volontà israeliana, dichiarata e poi congelata, di annettere unilateralmente porzioni della Cisgiordania, hanno sbloccato definitivamente un percorso di avvicinamento lungo e complesso.
Nel pomeriggio del 13 agosto, dopo una telefonata tra il presidente Trump, il premier israeliano Netanyahu e il principe ereditario emiratino Mohammed Bin Zayed (MbZ), è stato pubblicato un Joint Statement che ha reso ufficiale il percorso di normalizzazione tra Israele e gli EAU. Abu Dhabi è il terzo Stato arabo a riconoscere diplomaticamente Israele, dopo l’Egitto (1979) e la Giordania (1994), e il primo a farlo tra gli Stati del Golfo. Specificatamente, non si tratta di un accordo di pace, come molti lo hanno definito, dato che i due Paesi non si sono mai confrontati in un conflitto, ma di una normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Come riportato nel comunicato congiunto e ribadito nelle dichiarazioni stampa da Trump, entro tre settimane la Casa Bianca dovrebbe ospitare la firma dell’accordo bilaterale vero e proprio, tramite cui verrà data sostanza all’intesa.
Il percorso che ha portato all’accordo
Su un piano regionale, lo schema su cui si regge questo nuovo allineamento è quello tracciato dal presidente Trump nel suo primo viaggio in Medio Oriente nel lontano maggio 2017 e, più in generale, dalla sua politica mediorientale. Di fatto, si tratta di un percorso di restaurazione delle alleanze storiche che gli Usa intrattengono nella regione, dopo una fase di deviazione promossa negli anni della presidenza Obama, maggiormente allineato agli attori espressione dell’Islam politico. Se l’obiettivo strategico dei due presidenti era il medesimo, ovvero un alleggerimento della propria presenza nella regione, su un piano tattico tale fine è stato perseguito in maniera opposta. Nel disegno trumpiano, lo sdoganamento di Israele da parte degli Stati arabi alleati di Washington serve a delegare a questi la gestione di un equilibrio regionale maggiormente autosufficiente. Tanto più in una fase in cui tali attori si sentono accomunati dalla medesima minaccia turco-iraniana, in una regione in cui la comunanza di interessi e non più le divisioni etnico-religiose riescono a spiegare i nuovi allineamenti.
Come ricostruito dal giornalista israeliano Barak Ravid, sul piano bilaterale la partita si è sbloccata circa due mesi fa, quando Israele iniziava il percorso di annessione unilaterale di porzioni della Cisgiordania. Sebbene in queste ore i media emiratini diano grande risalto alla rinuncia a tale annessione, in una chiave retorica a uso interno, in realtà la carta palestinese ha rappresentato solo uno stratagemma negoziale. La normalizzazione tra Israele ed EAU, infatti, non era in discussione e prima o poi si sarebbe concretizzata. Le prove generali di tale intesa duravano da tempo. Basti pensare, tra le altre, alla cooperazione che i due Paesi hanno intrapreso nella lotta al Covid-19; all’arrivo nelle settimane scorse di due aerei cargo emiratini all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con aiuti medico-sanitari rivolti alla popolazione palestinese; alla presenza dell’ambasciatore emiratino alla presentazione del Peace to Prosperity Plan trumpiano e all’invito a Israele per l’Expo Dubai del 2021.
Sul piano negoziale, alla fine di giugno l’ambasciatore emiratino a Washington, Al-Otaiba, ha presentato la propria proposta a Jared Kushner, senior advisor di Trump, e Avi Berkowitz, rappresentante speciale per le negoziazioni internazionali della Casa Bianca. Come affermato in maniera implicita in un editoriale pubblicato nell’edizione ebraica di Yedioth Ahronoth, in cambio della rinuncia all’annessione cisgiordana gli emiratini avrebbero offerto allo Stato ebraico la normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Dal lato israeliano, il dossier è stato gestito interamente dal premier Netanyahu in tandem con il direttore del Mossad Cohen, all’oscuro dei ministri della Difesa e degli Esteri, Gantz e Ashkenazi. A conferma del classico schema che vedrebbe il Mossad (sottoposto all’Ufficio del Primo Ministro) e non il corpo diplomatico nel ruolo di facilitatore privilegiato per la cura delle relazioni tra Israele e gli Stati arabi della regione.
Cosa prevede l’accordo e cosa non è ancora chiaro
Come anticipato, nelle prossime settimane delegazioni di Israele ed EAU si incontreranno per firmare accordi bilaterali in vari settori: turismo, collegamenti aerei diretti, sicurezza, telecomunicazioni, tecnologia, energia, salute, cultura e ambiente. Verranno aperte le rispettive ambasciate e inviate missioni diplomatiche permanenti. Nel breve periodo, un settore di cooperazione a cui sarà dedicata un’attenzione particolare sarà quello della ricerca per lo sviluppo di un vaccino anti-Covid. Inoltre, un focus particolare sarà dedicato al dialogo interreligioso, fiore all’occhiello del nuovo corso emiratino targato MbZ (si ricordi la visita di Papa Francesco ad Abu Dhabi del febbraio 2019). Tanto che, come spiegato dall’ambasciatore americano in Israele Friedman, l’intesa verrà ricordata come l’Accordo di Abramo.
Alcuni aspetti fondamentali non sono stati ancora chiariti. Ancora una volta, ad esempio, rispetto al tema delle annessioni di porzioni cisgiordane da parte di Israele. Il comunicato congiunto parla di una sospensione della dichiarazione di sovranità in riferimento a porzioni cisgiordane previste già dal piano trumpiano e non solo dalla paventata annessione unilaterale israeliana (due percorsi che, al contrario, sino a questo momento erano stati tenuti distinti). Inoltre, nelle dichiarazioni successive Trump ha affermato che l’annessione è da ritenersi off the table, alludendo a una rinuncia definitiva da parte israeliana. Al contrario, Netanyahu ha parlato di un semplice congelamento a data da destinarsi. Certo è che tale dossier rimane irrisolto, e a ciascun attore è stato concesso il margine necessario di ambiguità per rivendicare un successo totale dinnanzi alla propria opinione pubblica.
Cionondimeno, altre sono le questioni non chiarite per cui è necessario attendere il testo definitivo dell’accordo non ancora firmato. Si tratta di una serie di aspetti che riguardano sinteticamente il tema dei confini dello Stato israeliano. La domanda che si pone è la seguente: su quali confini gli EAU riconosceranno Israele? Egitto e Giordania, ad esempio, riconoscono lo Stato ebraico entro i confini del 1967, internazionalmente riconosciuti tramite la Risoluzione 242/1967 e seguenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al contrario, da ciò che si evince dal testo della dichiarazione congiunta e da quanto affermato direttamente da MbZ, l’accordo è stato raggiunto sulla base del congelamento di future annessioni. Se così fosse, vorrebbe dire che gli EAU si spingerebbero oltre, accettando lo status quo che si presenta sul campo: gli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi, i territori già annessi oltre i confini del 1967 e il Security Fence, ovvero il muro di separazione costruito da Israele a partire dal 2002. In definitiva, è più probabile che non si arrivi a una chiara definizione in relazione a tali aspetti.
Le reazioni internazionali
Tutti gli attori palestinesi hanno usato parole dure nei confronti degli EAU, parlando di un tradimento alla propria causa. L’Autorità palestinese ha richiamato per consultazioni il proprio ambasciatore ad Abu Dhabi mentre dal fronte dei resistenti, Hamas e il Jihad islamico sostengono che tale accordo non cambierà i connotati della propria lotta, che in definitiva rimane un confronto da condurre con le armi. Certo è che tale intesa ipoteca quanto previsto dalla Arab Peace Initiative lanciata nel 2002, la quale ha rappresentato la base negoziale a cui gli Stati della Lega Araba facevano riferimento.
Come ci si poteva aspettare, sul piano internazionale la Turchia e l’Iran sono i Paesi che più di tutti hanno voluto manifestare la propria contrarietà a tale accordo. Il presidente turco Erdoğan ha accusato Abu Dhabi di aver adottato un comportamento ipocrita che la storia non perdonerà, mentre sta meditando di sospendere le relazioni diplomatiche con lo Stato del Golfo. Dal canto suo, il ministero degli esteri iraniano ha definito l’accordo un peccato pericoloso che avrà come effetto l’ulteriore rafforzamento dell’asse della resistenza anti-israeliano.
In definitiva, è evidente che dal punto di vista israeliano ed emiratino l’accordo di normalizzazione abbia poco a che vedere con la questione palestinese in sé, e molto con i nuovi equilibri di potenza che si stanno delineando nel macro-quadrante geopolitico ricompreso tra gli Stretti di Gibilterra e Malacca passando per il Mediterraneo, il Mar Rosso e l’Oceano indiano e comprendente altri due colli di bottiglia strategici come Suez e Bab al-Mandab, oltre che il Golfo Persico e lo stretto di Hormuz. Pertanto, come già messo nero su bianco nel comunicato congiunto, nelle prossime settimane è probabile che altri Stati del Golfo seguiranno le orme emiratine. Il Bahrein è il primo indiziato, mentre sarà più complesso il percorso che attende l’Arabia Saudita.
Pietro Baldelli,
Geopolitica.info