La storia dell’islam politico in Libia riflette quella del Paese: un debole centro in lotta contro una periferia ribelle caratterizzata da frammentazione e divisioni. Dieci anni dopo la morte di Muhammar Gheddafi è pressoché impossibile identificare un unico e coerente movimento islamista. Anche la branca libica dei Fratelli Musulmani è sfibrata al punto da aver deciso di convertire la propria organizzazione in una ONG. Parimenti, la scena militante è altrettanto in difficoltà, definita per lo più dalle singole personalità e dalla localizzazione territoriale che da una particolare ideologia o dinamica organizzativa. Infine, le correnti salafite sono variamente sparse come polvere attraverso il Paese. Questa debolezza del movimento islamista libico è in parte funzione del modo in cui iniziarono le sollevazioni e poi la guerra contro Gheddafi, in parte riflesso della tradizionale struttura del potere politico e della società libica, dove dinamiche regionali e identità locali spesse volte trascendono preoccupazioni nazionali. La mancata aggregazione dei gruppi e l’ambiente altamente competitivo hanno inciso sull’emergere di personalità, leaders e comandanti di milizie o formazioni proni più ad espandere i loro feudi di potere che non a diffondere la propria ideologia.
(Il presente articolo riproduce parzialmente i contenuti di un contributo degli autori per l’edizione del 14 ottobre di “Scenari”, inserto di geopolitica del quotidiano “Domani”)
Riscossa e declino degli “eretici”
La cifra dell’Islam politico in Libia è la sua debolezza e frammentarietà, fattori che la guerra civile hanno tutt’al più contribuito ad aggravare. Nel 1973, la rivoluzione culturale permise a Gheddafi di colpire gli islamisti, che egli soleva chiamare zanadiqa (gli eretici), come potenziale fonte di dissenso e ribellione al suo regime. Consapevole di ciò che stava accadendo in Egitto, il Colonnello cercò di ostacolare il braccio libico dei Fratelli Musulmani reprimendoli come nemici della rivoluzione insieme ad altri oppositori quali i baathisti e i marxisti. I libici associati all’Ikhwan, per lo più studenti, furono imprigionati mentre i loro leader costretti a giurare che avrebbero smantellato l’organizzazione. Il movimento fu costretto da allora ad operare essenzialmente in esilio e i suoi quadri poterono tornare in Libia soltanto nel contesto delle rivolte del 2011. Di conseguenza, la Fratellanza non poté mai sviluppare quella compenetrazione tra welfare e predicazione che caratterizza il tradizionale operato del gruppo.
Dopo la caduta di Gheddafi, l’organizzazione politica della Fratellanza, il Justice and Construction Party (JCP), riuscì ad imporsi nella vita pubblica limitatamente ai primi mesi della transizione ed essenzialmente grazie alla rinascita islamista che il mondo arabo sembrava poter esprimere in quel momento. In breve, tuttavia, la Fratellanza si ripiegò su se stessa e sulle proprie divisioni interne, alimentate dal fallimento nel 2013 dell’esperimento islamista egiziano di Mohammed Morsi. Proprio il golpe di al-Sisi galvanizzò il sentimento anti-islamista in Libia al punto da spinge il JCP a dichiarare la sospensione delle proprie attività in seno al Congresso Nazionale Generale (GNC). L’associazione con la casa madre egiziana dovette apparire ai leader della branca libica come eccessivamente tossica per la propria immagine e legittimità presso l’opinione pubblica, al punto da spingere verso un processo di revisione che volle inizialmente ispirarsi al modello tunisino del movimento An-Nahda. Il generale consenso rispetto alle necessità di una riforma interna si scontrò tuttavia con la resistenza di alcune correnti interne alla Fratellanza difficilmente disposte a rinunciare agli storici legami con l’Egitto. Lo stallo si protrasse fino alla divisione del paese nel 2014, quando i Fratelli Musulmani si schierarono con l’Operazione Alba Libica, una coalizione variamente unificata di forze islamiste e rivoluzionarie guidata dai gruppi armati di Misurata e supportata dal Qatar e dalla Turchia. Ma la scelta di campo, cioè la capitale Tripoli, finì per danneggiare ulteriormente l’immagine dell’organizzazione esponendola ad accuse di estremismo. Incapace di sganciarsi dal campo rivoluzionario, la Fratellanza finì così per perdersi all’interno della variegata e confusa galassia islamista libica. In altre parole, schierandosi con una parte, alienarono qualunque simpatia i libici potessero aver manifestato per la loro causa.
Tra il 2015 e il 2018, di fronte alla possibilità di partecipare al processo di pace mediato dalle Nazioni Unite, il JCP si spaccò in due tronconi: da una parte, coloro i quali non vollero accettare l’accordo politico di Skhirat in nome delle tradizionali posizioni della Fratellanza; dall’altra, i riformisti convinti della necessità di una riforma del JCP al di là del movimento di base. Quest’ultima corrente tentò di riprendere il controllo del partito dopo le dimissioni del segretario, Mohammed Sawan, ma l’operazione servì solo ad accrescere l’irrilevanza di entrambi sulla scena politica nazionale. Nell’agosto 2020, la branca di Zawiya della Fratellanza proclamò la propria dissoluzione, seguita due mesi dopo da quella di Misurata. Perduti i due principali centri di potere, il movimento implose al punto che, nel maggio 2021, i Fratelli annunciarono la trasformazione dell’organizzazione politica in una ONG chiamata “Revival and Renewal Association”.
Militanti nel caos
Divisioni e fallimenti, nondimeno, hanno caratterizzato anche l’ala militante dell’islamismo politico. Dal 2011, nessun gruppo od organizzazione ha avuto la forza sufficiente per proporre un progetto islamista coesivo ed unificante capace di trascendere le fratture sociali e tribali del paese. Le varie componenti, da ciò che rimane di al-Qa‘ida fino al Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), non sono riuscite ad elaborare una strategia comune e anche la scena jihadista è stata caratterizzata da parcellizzazione e dal protagonismo di pochi leaders o comandanti locali privi di base sociale e forti solo dell’uso delle armi. Le motivazioni vanno ricercate nel modo in cui si fece la guerra del 2011, le stesse d’altronde alla base della frammentazione del Paese: i singoli gruppi di rivoltosi, divenuti rivoluzionari, operarono per estendere i propri feudi di potere in quelle città, villaggi o singoli quartieri dove avevano combattuto contro le forze del regime. La spaccatura fu trasversale alle appartenenze tribali e sociali e gli stessi islamisti agirono più come brigate animante da scopi individuali che non come movimento unificato. Il risultato fu la compressione del messaggio islamista alle singole leadership che i vari gruppi di militanti seppero esprimere nel tempo. Come nel caso di Ahmed Majberi, capo delle Brigate dei Martiri di Zintan, questi comandanti decisero di interpretare il ruolo dei rivoluzionari giacobini più che quello dei predicatori islamisti. Ma così facendo persero la loro identità, condannandosi all’irrilevanza nel mezzo del crescente caos in cui proliferavano decine di gruppi che inseguivano i medesimi obiettivi di presunta purezza rivoluzionaria.
Chiaramente, non è possibile negare che alcuni gruppi abbiano ricercato un maggior rigore puritano ed una più esplicita agenda ideologica tradizionalmente espressione dell’agenda dell’islam politico. Dal 2011, Ansar al-Sharia è stato certamente il principale attore libico ad aver tentato di avviare un percorso militante che potesse imporre la sharia nelle città di Bengasi, Derna e Sirte. Tuttavia, al di là di qualche momentanea capacità espansiva, anche Ansar al-Sharia dovette presto arrendersi al suo limitato potere aggregativo e alla forza di gruppi più numerosi e radicati come le Brigate Martiri Abu Salim a Derna. Parimenti, il tentativo del leader Al-Zahawi di creare un brand nazionale (AAS-Libya) fu destinato al fallimento e, al di là dell’ammirazione che le componenti dell’organizzazione potessero provare per al-Qa‘ida, poche prove sussistono per sostenere una filiazione con il mondo qaedista. Come altri gruppi militanti, anche Ansar al-Sharia dovette accettare l’indipendenza sostanziale delle proprie filiali. L’inizio dell’Operazione Dignità del maresciallo Khalifa Haftar nel maggio 2014 riuscì per qualche mese a galvanizzare il fronte islamista in Cirenaica al punto da vedere la formazione del Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi. La nascita del Consiglio fu poco più che un matrimonio di convenienza destinato a fallire quasi subito di fronte a faide interne culminate nella decapitazione del salafita Admin al-Tawerghi. Al marzo 2017, devastati dall’offensiva di Haftar, sia il Consiglio di Bengasi che Ansar al-Sharia annunciarono la propria dissoluzione. Nondimeno, la vittoria del maresciallo aprì la porta alla corrente salafita madkhalita che sotto il patronato dell’Esercito nazionale libico è riuscita ad infiltrarsi nello spazio religioso della Cirenaica.
Anche lo Stato Islamico in Libia fu condannato al fallimento. Sebbene sconfitto nella battaglia di Sirte del 2016 da una coalizione di forze guidate da Misurata con il supporto dell’aviazione e dei droni americani, la sua espansione fu una breve fiammata ed una pallida imitazione (nonostante alcune azioni a forte impatto mediatico come la decapitazione pubblica dei cristiani copti) della casa-madre in Iraq. Furono infatti le condizioni politico-sociali di Sirte, Derna e Bengasi a favorire la penetrazione dell’ISIS, ma le stesse condizioni ne determinarono la debolezza. Sirte, baluardo controrivoluzionario e luogo di nascita di Gheddafi, fu conquista nel 2011 da brigate rivoluzionarie composte da veterani del jihad in Afghanistan e in Iraq. Le purghe attuate nella città lasciarono spazio solo alle formazioni islamiste che in breve aderirono ad Ansar al-Sharia prima e all’ISIS poi. Tuttavia, l’assenza in Libia di dinamiche settarie, la vastità del territorio, la competizione tra gruppi e movimenti islamisti diversi, le appartenenze tribali, la scarsa partecipazione di ex ufficiali del regime, impedì allo Stato Islamico di esercitare il suo ascendente sui giovani e sulle comunità locali e di esprimere un vero potere militare. Sconfitti, i miliziani si ritirarono in sparuti gruppi nel Fezzan, costretti a lottare più per la sopravvivenza che non per il dominio del territorio.
La breve parabola dell’ISIS
Con la fine dell’ISIS a Sirte e del Consiglio rivoluzionario a Bengasi, la Tripolitania è divenuta il centro di ciò che è rimasto dell’islam politico in Libia. La scena è stata dominata dalla corrente salafita madkhalita e dall’ala più ortodossa che fa riferimento al Gran Mufti Sadiq al-Ghariani, ognuna con il suo ascendente sulle diverse formazioni militari che proteggono e dominano la capitale. I vari gruppi furono in grado di evitare la collisione solo grazie alla decisione di Haftar di lanciare nella primavera del 2019 una offensiva su Tripoli. L’assedio avrebbe infatti spinto i principali gruppi armati a coalizzarsi in difesa del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez al-Serraj (e dunque dei loro feudi di potere economico) e premere sullo stesso affinché accettasse un intervento della Turchia. L’intervento di Ankara nel conflitto ha rappresentato in tal senso il più importante fattore di stabilizzazione dei rapporti tra milizie e gruppi armati, ma anche un rinnovato senso di legittimazione da parte dell’Islam politico in Tripolitania.
Vecchi problemi, nuove dinamiche?
Sebbene la scena dell’Islam politico in Libia rimanga dunque altamente frammentata, divisa e incapace di esprimere un disegno ideologico-politico coerente e di respiro nazionale, alcune dinamiche non possono essere ignorate. La recente ricomparsa del Qatar sulla scena politica libica è coincisa con il ritorno nel paese di alcune storiche figure dell’islamismo militante come Abdel Hakim Bilhaj, ex leader dell’LIFG e capo del partito al-Watan ritiratosi anni fa in autoesilio a Doha. Allo stesso modo, il Gran Mufti continua a mettere in guardia dalla diffusione della predicazione madkhalita nelle moschee libiche. Dinamiche non sufficienti a definire un trend politico nazionale, ma che richiederanno maggiore attenzione in futuro.