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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaIraq: la guerra per scelta

Iraq: la guerra per scelta

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Nel marzo 2003, gli Stati Uniti invasero l’Iraq con l’obiettivo di distruggere le armi di distruzione di massa in loco e porre fine alla dittatura di Saddam Hussein, ma nessun’arma fu trovata mentre la violenza civile esplose. Al Qaeda in Iraq non assomigliava a nessun nemico incontrato prima, era quasi multiforme. Non vi era un modus operandi standard né una gerarchia e pure l’organizzazione reggeva. Gli Stati Uniti non riuscirono a gestire un ambiente diverso da quello per cui erano stati addestrati. C’era qualcos’altro con cui confrontarsi.

L’ascesa di Saddam Hussein

Nei rivoluzionari anni Sessanta del Novecento, in Iraq, emerse il partito socialista Ba’ath e dalle sue fila Saddam Hussein, eletto Presidente nel 1979. Tra le conseguenze negative, si distinse il rafforzarsi di due fratture che si sarebbero dimostrate significative: arabi contro curdi e sunniti contro sciiti. Lo sviluppo del senso di identità nazionale curdo unito ad ambizioni separatiste, complicarono notevolmente lo scenario interno. Inoltre, il Paese assunse ben presto una politica estera alquanto aggressiva, supportata in seguito da armi chimiche e biologiche, che spinse alla guerra contro l’Iran nel 1980 e all’invasione del Kuwait nel 1990. Quest’ultima violazione attrasse l’attenzione della comunità internazionale che impose sanzioni economiche all’Iraq. Queste furono così vessanti che nel 1996 Saddam Hussein dovette accettare il programma Oil-for-Food, mentre montava la repressione di civili e militari.

I preparativi

Nel 2002 – seppur nelle menti dei neocon già dalla fine della Guerra del Golfo – si intensificò il dibattito riguardo ad un’azione statunitense in Iraq come secondo tassello della War on Terror. Il 12 settembre 2002, il Presidente parlò all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, illustrando come l’Iraq stesse espandendo il proprio programma nucleare. L’acquisto di tubi di uranio destava sospetti. Tuttavia, la reazione non fu quella attesa. In seguito, Bush rilasciò la National Security Strategy 2002, espressione della lezione strategica appresa dagli eventi del 2001, che sottolineava come l’emergere di nuove minacce derivasse dall’incontro di tecnologia e radicalismo. Per combatterle, “the United States will, if necessary, act preemptively.” Il passaggio dalla dissuasione alla guerra preventiva, giustificato giuridicamente e strategicamente, presupponeva che i nemici fossero ormai inintelligibili e che, in ragion di ciò, la strategia americana dovesse cambiare. Agire preventivamente avrebbe permesso, secondo il POTUS, il mantenimento della supremazia militare. In politica interna, le pressioni di Bush per attaccare l’Iraq furono scarsamente supportate.
Il 7 marzo 2003 il Consiglio di Sicurezza passò unanimemente l’UNSCR 1441, intimando all’Iraq la consegna delle armi di distruzione di massa in suo possesso entro dieci giorni. Nonostante il link tra l’importazione di uranio e l’esistenza di tali armi fosse debole, Bush, parlando alla nazione, sostenne che il suo e altri governi avevano trovato prove inequivocabili. Hussein e i suoi figli dovevano lasciare l’Iraq entro 48 ore, il rifiuto avrebbe portato al conflitto armato.

L’intervento

Il 20 marzo 2003, fu lanciata l’Operazione Iraqi Freedom, basata sull’offensiva aerea e terrestre guidata dal Generale Franks. Secondo questi, l’obiettivo non era la conquista né il petrolio ma la libertà per 26 milioni di iracheni. Ciò sarebbe avvenuto tramite l’invasione del Paese e la rimozione di Saddam Hussein dal potere. La piramide statale sarebbe stata privata del vertice, ma la base – le istituzioni – avrebbero retto e guidato il cambiamento democratico.
Quando, il 9 aprile 2003, il regime di Saddam Hussein capitolò, fu stabilita una timeline molto serrata: le unità di combattimento avrebbero lasciato il Paese entro 60 giorni, ad agosto meno di 30.000 soldati avrebbero occupato l’Iraq.
Il 1° maggio 2003, dalla portaerei USS Abraham Lincoln giunse l’annuncio di Bush della vittoria delle forze armate statunitensi e della fine dei combattimenti, segnando l’inizio della fase di ricostruzione. Il Segretario della Difesa Rumsfeld, il Tenente Generale Garner – a capo dell’Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance (ORHA) – e il Generale Franks consideravano l’obiettivo chiaro: l’Iraq doveva preservare l’integrità territoriale, cessare di costituire una minaccia per i suoi vicini, garantire i diritti delle minoranze e recidere ogni relazione con i terroristi. Tuttavia, il futuro della nazione sarebbe rimasto in mano al popolo.

La (ri)costruzione

La stabilizzazione avrebbe preso 2-3 mesi mentre i successivi 2 anni sarebbero serviti per la ricostruzione del Paese e il ritiro delle truppe. Ma quando l’OHRA, nata per facilitare la transizione irachena, s’insediò, le istituzioni e le forze di sicurezza così come le strutture di partito si erano dissolte. L’OHRA, dimostratosi inadatto al compito, fu sostituito dalla Coalition Provisional Authority (CPA) volta a stabilire una pace duratura in un Iraq unificato, stabile e democratico con un’economia vibrante e un governo rappresentativo, protettore delle libertà. La CPA dichiarò fuorilegge il partito Ba’ath e allontanò i suoi membri, privando l’Iraq della capacità tecnocratica. Le forze di sicurezza furono frettolosamente riassemblate sotto l’egida statunitense, salvo essere dichiarate, già nel maggio 2004, sostanzialmente incapaci di garantire la sicurezza del Paese. Nonostante le riforme securitarie, il novembre 2004 fu un mese sanguinoso per gli americani: si contarono 95 morti e 500 feriti nel tentativo, riuscito, di ripulire la città di Fallujah dai terroristi.

Sul versante economico, l’introduzione dell’Ordinanza 39 da parte della CPA emendò, contravvenendo al diritto internazionale, le leggi economiche del Paese, modificando le condizioni a favore degli investitori stranieri in tutti i settori tranne quello degli idrocarburi, e il sistema di tassazione, ora basato sulla flat-tax: i tentativi di liberalizzazione ignorarono la condizione complessiva del Paese. Inoltre, lo stato necessitava di una costituzione così una commissione ad hoc fu nominata dalla CPA. Questa sarebbe stata transitoria e funzionale alla nomina di un’assemblea nazionale che avrebbe redatto la costituzione permanente ed eletto il governo. In effetti, già nel maggio 2004, i ministri ad interim avevano iniziato a esercitare l’autorità di decision-making. Quando il governo prese il potere il 28 giugno 2004, la CPA terminò il suo mandato.
Parallelamente, venne abbandonata la ricerca di armi di distruzione di massa, tema estensivamente usato e mai provato.

Prime forme di democrazia

Bush confidava nelle elezioni dell’assemblea costituente che avrebbero avuto luogo il 30 gennaio 2005. Tuttavia, queste furono boicottate dai sunniti. Il maggiore partito sciita, United Iraqi Alliance, vinse con il 48% dei voti, mentre, il partito secolare del primo ministro Allawi, favorito dagli Stati Uniti, non avrebbe seduto al governo. Il 15 ottobre 2005, l’Iraq ratificò con il 79% dei voti la nuova costituzione garante di diritti e libertà fondamentali. Il testo, redatto sotto pressioni statunitensi, non fu analizzato o dibattuto dagli iracheni. L’Iraq adottò una struttura di governo federale, la cui autorità si estendeva solo su temi fiscali, di politica estera e di difesa. L’assemblea nazionale permanente fu eletta a dicembre dello stesso anno. Nessun’istituzione però riuscì a trattenere l’odio settario che esplose marcatamente il 22 febbraio 2006 con la Moschea d’Oro di Samarra, la più sacra tra le moschee sciite. Più di 1.300 civili morirono mentre le squadre della morte, sciite e sunnite, si fronteggiavano per le strade. Samarra aveva irreparabilmente mutato la natura del conflitto: da lotta contro gli occupanti a lotta settaria per il potere politico ed economico in Iraq. Il governo locale di Nouri al-Maliki, composto da curdi e sunniti, non riuscì ad arginare tale violenza.

Awakening

La morte di Abu Musab al-Zarqawi, leader di al Qaeda in Iraq, nel giugno 2006 e la condanna a morte di Saddam Hussein colpevole di “crimini contro l’umanità” nel novembre sembrarono aprire uno spiraglio di ottimismo. Nel 2007, la situazione migliorò grazie all’incremento di truppe guidate dal Generale Petraeus e molti sunniti, prima parte della ribellione, si schierarono contro al Qaeda dando vita al cd Awakening, movimento che guidò la contro-insurrezione supportando le forze americane. La violenza non tardò a riversarsi sui civili e gli alleati statunitensi. Sul fronte politico, l’Iraqi Accord Front smise di boicottare il Parlamento che nel 2008 approvò il ritorno dei membri del partito Ba’ath alla vita pubblica.

Nel 2008, Bush al termine del mandato, concluse Status of Forces Agreement (SOFA) con il governo iracheno per il ritiro delle truppe. La sicurezza sarebbe tornata ad essere responsabilità dell’Iraq in alcune province e sarebbero state indette delle elezioni regionali. Nonostante la democrazia avanzasse debolmente con vari tentativi di accentramento del potere, l’Iraq iniziava ad acquisire l’indipendenza necessaria per il ritiro statunitense, che iniziò nel giugno 2009.

Termina la war of choice

Il 30 agosto 2010, Obama dichiarò la fine delle ostilità e il giorno seguente fu lanciata l’Operazione New Dawn affinché soldati e marines addestrassero le forze irachene. Anche se le condizioni sul campo peggiorarono, Obama non riuscì a rinegoziare il SOFA. Questo accelerò la pulizia etnica delle forze sunnite e il progetto di forze di sicurezza non settarie non fu mai concluso. Nel dicembre 2011, finì l’impegno militare occidentale in Iraq ma l’avvicendarsi dell’ISIS nel 2014 spinse gli USA, insieme agli alleati, ad intervenire con l’Operazione Inherent Resolve mentre il precario esercito si disgregava. Nel dicembre 2018, Trump considerò la battaglia contro l’ISIS finita intendendo riportare a casa le truppe. L’uccisione del califfo Abu Bakr al-Baghdadi avvenuta nell’ottobre 2019 è considerata uno dei maggiori successi nella politica estera di Trump.

Nel Paese, molti donatori offrono programmi di stabilizzazione per supportare le comunità ed evitare la frammentazione. Il popolo richiede maggiore governance, servizi, sicurezza e stabilità economica così come è stato caldeggiato dagli Stati Uniti. Dall’ottobre 2019 al marzo 2020, si è segnalato un impegno rilevante affinché fosse garantito il diritto di protesta ed espressione. In parallelo gli USA e l’Iraq hanno intrapreso un dialogo strategico al fine di garantire la sicurezza del Paese, la cui assenza minaccia anche lo svolgimento delle missioni diplomatiche statunitensi. Rimane salda, benché destinata a ridursi, la presenza americana nel Paese che assume maggiore controllo delle forze di sicurezza. Il Pentagono avrebbe diffuso un warning order per accelerare il ritiro dei soldati il cui numero, al 15 gennaio 2021, sarà ridotto a 2.500. Benché Biden potrebbe seguire le orme di Trump, il ritiro delle truppe dall’Iraq, ormai interesse secondario nel Medio Oriente sempre più instabile, non sarà completo.

Conclusioni

L’artificialità dell’Iraq, creato nel 1920 dal Regno Unito, è stata considerata l’ostacolo verso la democratizzazione, rendendo il governo repressivo quasi l’unico argine alla disgregazione del Paese. Eppure, secondo i leader iracheni, Bush sbagliò quando da liberatore divenne occupante, credendo che gli USA potessero creare un futuro migliore per l’Iraq più di quanto gli iracheni stessi potessero fare.

Tuttavia, gli Stati Uniti, ricchi di tutte le risorse di cui l’Iraq era manchevole, hanno fallito nel trasformare la forza in influenza. Neppure la forza diede agli Stati Uniti un vantaggio assoluto nelle prime fasi perché si combatteva al Qaeda, prodotto del mondo ricco di informazioni e fortemente interconnesso. Washington dovette cambiare strategia, dimenticare i precedenti e imparare dall’organizzazione per non perdere del tutto.

L’Iraq sarebbe dovuto essere un ponte tra il Mediterraneo e il Golfo Persico, per cui occuparlo e plasmarlo secondo i dettami liberal-democratici avrebbe concesso agli Stati Uniti il potere di controllare tutta la regione. Ma l’Iraq è sempre stato il contrappeso all’Iran rivoluzionario: lasciarlo troppo forte non avrebbe ridimensionato la forza dell’Iraq e lasciarlo troppo debole avrebbe rafforzato l’Iran, destabilizzando il Medio Oriente. Serviva moderazione. Kissinger fu ascoltato da un solo membro della famiglia Bush.

                                                                                                      Elisa Maria Brusca,
                                                                                                              Geopolitica.info

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