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Gli interessi in gioco nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita

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La Guerra in Ucraina ha perturbato irrimediabilmente il contesto esteuropeo rendendolo uno spazio geografico poco adatto ai flussi globali, sia di merci che di idrocarburi. Di conseguenza ha accelerato il mutamento dei flussi stessi: da una parte ha provocato la rapida diversificazione energetica degli europei che ora guardano verso il Mediterraneo; dall’altra parte la Repubblica Popolare Cinese ha dovuto privilegiare i rapporti con i Paesi centroasiatici per corroborare la stabilità regionale, funzionale all’utilizzazione della rotta centroasiatica della BRI.

Questa potrebbe essere una delle ragioni principali per la quale Pechino è stato il mediatore della distensione tra Teheran e Riyad. Il corridoio centrale, passando sul territorio iraniano, potrebbe essere soggetto a ripercussioni negative qualora si aggravasse il livello dello scontro tra Iran e Arabia Saudita, una delle cause dell’instabilità regionale. In primo luogo dunque, nell’ottica cinese, la stabilizzazione regionale sarebbe funzionale a consolidare le rotte sulle quali transita il suo surplus produttivo. Motivo per cui la prima visita del Presidente Xi Jinping dall’inizio della pandemia da Covid-19 è stata in Kazakistan, per un bilaterale con il suo omologo kazako Tokayev, e a Samarcanda, in Uzbekistan, per partecipare all’incontro della Shangai Cooperation Organization (SCO) tenutosi il 15 e 16 settembre 2022. La guerra in Ucraina ha peraltro aperto margini di manovra alla Repubblica Popolare Cinese in Asia centrale, tuttavia la minor presenza russa si traduce in un vuoto da colmare, pena l’eventuale destabilizzazione di un quadrante geopolitico già problematico. 

Dinamiche di rilevante importanza sono emerse poi nel contesto mediorientale dove gli statunitensi hanno provato a serrare la coalizione anti-iraniana, tentando l’avvicinamento tra i Paesi arabi e Israele; hanno tentato di scongiurare un’impetuosa crescita del prezzo degli idrocarburi rivolgendosi, senza riuscirvi, in particolar modo ai sauditi; hanno infine provato ad accelerare i negoziati per riabilitare l’accordo JCPOA con l’Iran, sperando dunque in un aumento dell’offerta di petrolio nel mercato globale. La guerra in Ucraina ha limitato la possibilità di perseguire gli obiettivi statunitensi, specialmente per quanto riguarda l’accordo sul nucleare iraniano. L’accordo serviva agli statunitensi oltretutto a riportare stabilità ed equilibrio in un contesto che sembrava divenire secondario dal punto di vista strategico, dunque si inseriva in un processo molto più ampio di disimpegno regionale. Il conflitto russo-ucraino ha però alterato gli equilibri globali, interferendo negativamente sugli obiettivi regionali di Washington. In primo luogo il disimpegno americano dal Medio Oriente, attraverso l’accordo sul nucleare iraniano, poteva avvenire in un quadro di cooperazione con europei, russi e cinesi. La guerra in Ucraina ha tuttavia esacerbato i rapporti bilaterali russo-americani e parzialmente anche quelli sino-americani, complicando un negoziato con l’Iran già di per sé problematico. Tehran inizialmente aveva alzato la posta in gioco nelle negoziazioni, sapendo che gli occidentali avevano impellente bisogno di idrocarburi per disincagliarsi dalla dipendenza energetica russa. Dall’altra parte Mosca, stretto partner di Tehran, non ha facilitato i negoziati con gli occidentali, sapendo che qualora le sanzioni sull’Iran fossero state alleggerite e qualora l’Iran avesse aumentato l’offerta globale di idrocarburi, i prezzi di quest’ultimi sarebbero scesi erodendo la tattica di pressione sul mercato energetico europeo. 

A smuovere i negoziati mediorientali è stata la Repubblica Popolare Cinese, intenzionata ad aumentare il suo prestigio nella risoluzione delle controversie internazionali. Pechino aveva infatti già presentato il piano di pace per la guerra in Ucraina, nel quale in realtà promuoveva velatamente i principi che muovono la sua politica estera. Qualche settimana dopo la diplomazia cinese ha fatto da mediatrice tra Tehran e Riyad ristabilendo le relazioni diplomatiche bilaterali che mancavano dal 2016. Come dicevamo, dal punto di vista geopolitico e geoeconomico, Pechino deve in qualche modo assicurarsi la stabilità del corridoio centrale delle BRI. Ma non è solo questo punto a muovere la sua diplomazia, c’è anche un aspetto formale. Pechino infatti sembra mandare un chiaro messaggio agli statunitensi: l’operazione diplomatica mostra nitidamente il mutamento della componente distributiva del sistema internazionale e regionale. Il Medio Oriente era il quadrante in cui Washington aveva avuto, dagli anni novanta in poi, la primazia indiscussa nella gestione degli equilibri regionali. Attualmente la presenza russa in Siria e i rapporti economici tra Pechino e gli attori geopolitici del Golfo Persico erodono la postura egemonica di Washington. Se è vero dunque che una qualche forma di stabilizzazione regionale favorirebbe anche gli interessi americani, è anche vero che la penetrazione regionale sino-russa erode i margini di manovra statunitensi e la sua capacità di influenzare la traiettoria degli attori mediorientali conformemente ai proprio interessi. 

Questi sono elementi ben presenti ai vertici della Repubblica Islamica, tanto che Khamenei, a novembre, sostenne che gli Stati Uniti non sono più la potenza dominante e che il potere politico internazionale sta muovendo verso l’Asia, alludendo ad una maggiore diffusione del potere e ad un sistema multipolare. Difatti, è proprio da est, cioè da Pechino, che l’Iran vede nuovi spiragli per la sua economia, come il patto di cooperazione sino-iraniano siglato a marzo del 2021 dal valore di 400 miliardi di dollari, attraverso il quale la Cina promette investimenti infrastrutturali e l’Iran un flusso costante di idrocarburi. La cooperazione militare con la Russia ed economica con la Repubblica Popolare Cinese permette a Tehran di essere meno dipendente dalla politica estera dei Paesi occidentali, potendo dunque contare su un triangolo scaleno con Mosca e Pechino.

La capacità diplomatica cinese dipende sostanzialmente dalla leva economica, essendo il partner principale di Tehran e grande acquirente di idrocarburi sauditi; ma al momento il soggetto principale per le questioni di sicurezza restano gli statunitensi che detengono ancora numerose basi militari nella regione. Pertanto, mentre la Cina può sfidare Washington nella componente diplomatica della politica internazionale, la componente militare resta al momento indiscussa nella regione mediorientale. 

Dall’altra parte Riyad, riaprendo le relazioni con Tehran, sembra interessata ad alleggerire il livello della competizione, che ha toccato i vertici con l’attacco iraniano ad alcune raffinerie saudite nel 2019. I sauditi sanno che la dimensione domestica iraniana è particolarmente in subbuglio, pertanto riaprire in questo momento i rapporti diplomatici significherebbe partire da una posizione di vantaggio, il che si tradurrebbe in un tentativo di raggiungere una qualche forma di tregua vantaggiosa. Inoltre, il tipo di accordo promosso da Pechino, non è paragonabile al JCPOA che riabilita quasi totalmente l’Iran a livello internazionale, permettendogli una rapida ripresa economica – derivante dagli idrocarburi – da poter spendere in proiezione geopolitica. I sauditi dunque mandano un chiaro messaggio a Washington, sottolineando la loro opposizione a qualsiasi accordo simile al JCPOA che rischia di mutare gli equilibri regionali, ma disponibili ad aperture di altro tipo. Infine, in vista della diversificazione economica, i sauditi da tempo sono in cerca di tecnologie e di investimenti esteri, ma per essere attraenti devono smorzare gli attriti con il vicino iraniano con cui da tempo si scontra in guerre per procura nel suo estero vicino. Tuttavia, l’accordo tra Arabia Saudita e Iran non pone fine alla scontro, semplicemente ne abbassa il livello; contemporaneamente promuove una certa immagine degli attori coinvolti: la Cina mette in evidenza la sua capacità d’influenza nelle vicende internazionali e la sua capacità diplomatica; l’Iran riesce ad ottenere una legittimazione esterna dopo le vicende di delegittimazione proveniente dalla dimensione interna; i sauditi corroborano la loro postura regionale accresciuta grazie all’instabilità iraniana, tentano dunque di mantenere nel breve periodo il vantaggio relativo ottenuto. 

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