La Russia è da anni un alleato fondamentale per il governo di Maduro. La partnership economica e militare che ha rappresentato una delle principali fonti di sostentamento per il chavismo, si trova adesso potenzialmente minacciata dalle sanzioni internazionali conseguenti all’invasione Ucraina. Washington ha provato ad avvicinarsi a Caracas cercando alternative al petrolio russo, ma i punti interrogativi sul futuro delle relazioni bilaterali restano numerosi.
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L’importanza russa per Caracas
Le relazioni tra Russia e Venezuela non hanno seguito un andamento stabile nel corso della storia. I primi contatti tra i due paesi risalgono al XVIII secolo, mentre l’inizio delle relazioni bilaterali avvenne nel 1857. Quell’anno, a seguito di uno scambio epistolare tra l’allora presidente del Venezuela José Tadeo Monagas e lo zar Alessandro II, la Russia riconobbe la nazione sudamericana come indipendente e sovrana. Tuttavia, fu solo nel 1945 con la presidenza di Isaías Medina Angarita, che il Venezuela decise di stabilire relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica. Nella seconda metà del XX secolo – nel contesto della Guerra Fredda – i rapporti tra i due paesi proseguirono in maniera altalenante: vennero interrotti nel 1952 quando in Venezuela governava il generale Marcos Pérez Jiménez, per poi ristabilirsi nel 1970 con Rafael Caldera. È del 1976, invece, la prima visita ufficiale di un presidente venezuelano in Russia, a cui fece seguito – lo stesso anno – il viaggio di una delegazione sovietica a Caracas. Da allora non vi furono sviluppi particolarmente rilevanti fino al maggio 1996, quando Russia e Venezuela firmarono il Trattato di Amicizia e Cooperazione, l’accordo che ha gettato le basi per l’approfondimento dei rapporti coinciso con l’arrivo al potere di Chávez e Putin, a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.
Con l’inizio del XXI secolo, le relazioni tra Russia e Venezuela conoscono un deciso salto di qualità: la retorica antimperialista propugnata da Chávez, iniziò a trovare nella Russia un partner sempre più importante nell’ottica di un mondo multipolare, che si opponesse all’unilateralismo statunitense. Nel primo decennio degli anni Duemila le visite diplomatiche dei rispettivi presidenti si moltiplicarono, delineando la volontà di dar vita a un’alleanza geopolitica che si centrasse – principalmente ma non esclusivamente – sull’aspetto militare ed economico-commerciale (energetico).
La collaborazione in campo energetico intendeva sfruttare le potenzialità di due giganti dal punto di vista petrolifero: il Venezuela – primo paese al mondo per riserve accertate di petrolio – e la Russia, uno dei principali produttori a livello globale. In quella fase il chavismo cercava di differenziare le destinazioni del proprio export, riducendo progressivamente la quota di petrolio diretta agli Stati Uniti (e in Europa) a vantaggio di mercati alternativi: Cina, Iran e appunto Russia. Contestualmente crebbero anche le convenzioni bilaterali, volte sostanzialmente a garantire la partecipazione azionaria delle principali compagnie energetiche statali russe (Gazprom, Rosneft, LUKoil, tra le altre) nell’industria petrolifera venezuelana, in cambio di benefici economici e apertura a nuovi mercati.
Se in passato il ruolo di Mosca poteva ritenersi importante, dal 2019 è però diventato imprescindibile per Caracas. Il pacchetto di sanzioni adottato dall’amministrazione Trump nel gennaio 2019 contro la compagnia petrolifera statale venezuelana (PDVSA) – promosso a seguito della crisi politica iniziata dopo il mancato riconoscimento dei risultati delle elezioni presidenziali del 2018 – ha tagliato gran parte dei traffici commerciali venezuelani, garantendo però una funzione preminente alla Russia come intermediario. Infatti – di fronte all’impatto delle sanzioni e alla disastrata condizione delle infrastrutture adibite all’estrazione e alla lavorazione del greggio – prima Rosneft e poi, a seguito di ulteriori sanzioni da parte USA, TNK Trading si sono incaricate di garantire una certa continuità alla prima (e praticamente unica) fonte di sostentamento per Caracas, inviando il petrolio venezuelano principalmente a Cina e India. In cambio, la Russia si garantiva un significativo sconto per il greggio importato dal Venezuela – circa 20/30$ al barile – ma soprattutto il mantenimento di un’influenza strategica alle porte degli Stati Uniti.
Anche dal punto di vista militare la Russia ricopre ormai un ruolo sempre più rilevante per il Venezuela. Dal 2005 a oggi Mosca ha fornito a Caracas decine di migliaia di fucili e lanciamissili, e centinaia tra veicoli da combattimento, carri armati ed elicotteri da trasporto e d’attacco. Tuttavia, anche in questo caso il rafforzamento della cooperazione in materia di difesa risale al 2019. A seguito del riconoscimento di gran parte della comunità internazionale di Juan Guaidó come presidente legittimo, la Russia decise di aumentare il proprio contributo militare in Venezuela, inviando già nell’aprile di quell’anno due aerei con 99 uomini e 35 tonnellate di materiale bellico. Sebbene la costituzione venezuelana all’articolo 13 vieti espressamente la creazione di basi militari straniere sul proprio territorio, la presenza di truppe non è proibita. Inoltre, la segretezza in cui permane gran parte del contenuto degli accordi bilaterali lascia ampio margine di manovra agli attori coinvolti, con l’ormai certo e oscuro coinvolgimento di milizie paramilitari come il Gruppo Wagner.
Mosca, dunque, è diventata nel corso degli anni una fonte di sostegno cruciale per un regime isolato a livello internazionale e costretto a fare i conti con drammatiche problematiche interne. In questo senso, non sorprende affatto l’appoggio di Miraflores al Cremlino dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. Già prima dell’invasione – nel corso di una sessione della Commissione Intergovernativa di Alto Livello Russia-Venezuela (CIAN) del febbraio 2022 – Maduro aveva ribadito il proprio supporto nei confronti «delle minacce della NATO e del mondo occidentale», e aveva parlato di un accordo congiunto verso una «poderosa cooperazione militare, per la difesa della pace, della sovranità e dell’integrità territoriale». Dopo l’avvio della campagna militare i toni non sono cambiati, ribadendo le accuse verso le azioni destabilizzatrici della NATO e giudicando come «crimini contro il popolo russo» le sanzioni economiche che sono state adottate contro la Federazione Russa. Nonostante la vicinanza alle scelte di Putin, espressa in molteplici occasioni, però, il Venezuela non figura tra i paesi che si sono espressi contrariamente alla risoluzione dell’Assemblea dell’ONU di condanna all’invasione dell’Ucraina. Caracas, infatti, ha perso momentaneamente il diritto di voto a causa di un debito di circa 40 milioni di dollari nei confronti dell’organizzazione.
Stati Uniti e Venezuela: prove di disgelo?
La penetrazione russa in America Latina rappresenta da tempo una fonte di preoccupazione per Washington. Il crescente protagonismo degli attori esterni – Russia e Cina, ma anche Iran – è maggiormente evidente in paesi come Venezuela, Cuba e Nicaragua, sebbene la loro presenza sia ormai diffusa e molto rilevante anche in altre parti della regione. In quest’ottica, lo scoppio della guerra in Ucraina e le conseguenti sanzioni potrebbero rappresentare un’opportunità per Washington, che dovrà cercare di far leva sull’incertezza del futuro dell’economia russa per provare ad allontanare Putin dai suoi principali alleati in America Latina, fortemente legati al sostegno finanziario e militare di Mosca.
Il viaggio di un’alta delegazione statunitense dell’amministrazione Biden in Venezuela a inizio marzo 2022 – il primo dopo oltre tre anni dalla chiusura dell’ambasciata statunitense a Caracas – può essere visto come un primo passo verso una distensione dei rapporti, ma sono ancora molte le questioni da chiarire. Organizzata in totale riservatezza – molto probabilmente senza aver prima informato l’opposizione venezuelana e neanche un governo alleato di Washington e tradizionalmente ostile al chavismo come quello di Iván Duque in Colombia – la visita è stata interpretata sotto differenti chiavi di lettura.
La versione ufficiale della Casa Bianca, espressa dalla portavoce Jen Psaki, giustifica il viaggio principalmente come parte della trattativa per il rilascio dei prigionieri statunitensi detenuti nelle carceri venezuelane. Un percorso che si sarebbe protratto per molti mesi e che è culminato con la liberazione di due cittadini statunitensi, avvenuta pochi giorni dopo la visita dei funzionari governativi. Nello stesso intervento, Psaki ha escluso che la scarcerazione dei due uomini sia legata all’alleggerimento delle sanzioni richiesto da tempo da Miraflores, ma la sorprendente tempestività di Caracas lascia quantomeno aperta la discussione su un possibile cambiamento d’approccio. Il tema che però ha catturato maggiormente l’attenzione riguarda l’approvvigionamento energetico, ed è strettamente legato al conflitto in corso in Ucraina.
Il mercato statunitense ha rappresentato per anni la destinazione principale del greggio venezuelano, soprattutto in epoca pre-chavista. Ma da quando Caracas è oggetto di sanzioni statunitensi, il petrolio russo ha iniziato a rivestire un ruolo importante per Washington. Partendo dalla quasi totale assenza di scambi negli anni ‘90, gli Stati Uniti hanno iniziato ad acquistare greggio russo in corrispondenza con l’arrivo a Miraflores di Hugo Chávez. Da allora, i rapporti commerciali in questo comparto sono cresciuti fino al picco del 2011 (624 mila barili al giorno), per poi decrescere fino al boom del 2019, anno in cui un’ulteriore ondata sanzioni sul petrolio venezuelano ha obbligato Washington a rafforzare l’import da Mosca. Nonostante Mosca sia arrivata a occupare il terzo posto – dietro Canada e Messico – per quanto riguarda i volumi di petrolio esportati negli Stati Uniti, a livello assoluto la cifra non può definirsi rilevante: nel 2021 gli Stati Uniti hanno importato dalla Russia in media 672 mila barili di petrolio al giorno (meno dell’8% del totale dell’import), a fronte di un consumo giornaliero di circa 20 milioni di barili. Tuttavia, il petrolio russo ricopre un ruolo importante per alcune questioni. Una legge federale del 1920, il Jones Act, stabilisce che per il commercio marittimo nazionale si possano utilizzare solo navi di costruzione statunitense e con un equipaggio composto in larga maggioranza da cittadini USA. A causa di questa legge, spesso il trasporto di petrolio dalle raffinerie della costa del Golfo (in stati come Texas, Florida, ecc.) è talmente oneroso per le aziende che si trovano distanti dai principali oleodotti, da rendere più conveniente l’importazione dall’estero (Russia inclusa).
A seguito del blocco imposto recentemente nei confronti delle importazioni delle fonti energetiche russe, gli Stati Uniti potrebbero essere costretti a importare greggio da nuovi mercati (probabilmente Africa occidentale o Mare del Nord), pagando un prezzo più elevato a causa dei tempi di trasporto più lunghi. Potrebbe essere quindi questa la partita in cui si inserisce il Venezuela. Tuttavia, la produzione di Caracas – seppur in leggera risalita negli ultimi mesi – difficilmente potrà raggiungere un livello adeguato a garantire competitività e approvvigionamenti sicuri per gli Stati Uniti nel breve/medio periodo. Un eventuale alleviamento delle sanzioni potrebbe cambiare in parte la situazione, ma lo stesso governo venezuelano – dopo una fase iniziale di timida apertura, nella quale aveva manifestato anche il desiderio di riaprire il dialogo con l’opposizione sospeso da mesi – ha recentemente affermato l’intenzione di non volersi riunire con Juan Guaidó, definito «narcotrafficante» dal presidente dell’Assemblea Nazionale Jorge Rodríguez.
La situazione è quanto mai complessa. Da un lato, aziende come la Chevron Corporation potrebbero beneficiare di un allentamento delle sanzioni e ottenere nuove licenze operative in territorio venezuelano. Nel frattempo, però, vari membri del congresso statunitense, tra cui il senatore Marco Rubio, hanno espresso la propria contrarietà alla visita in Venezuela e a qualsiasi negoziato che possa legittimare Maduro. Il presidente riconosciuto dagli Stati Uniti, Juan Guaidó, con ogni probabilità non è stato avvisato del viaggio a Caracas, venendo di fatto scavalcato e sollevando dubbi sulla sua funzionalità rispetto agli interessi statunitensi. Sul piano regionale, la Colombia guarda con particolare preoccupazione a una possibile apertura al principale antagonista del governo di Iván Duque. Sebbene fonti della Casa Bianca abbiano assicurato che al momento non siano previste aperture al petrolio venezuelano, Duque ha manifestato, a seguito della riunione con Biden, la volontà di fornire greggio colombiano per garantire la stabilità dei prezzi a livello mondiale, ribadendo che la Colombia ha attualmente una capacità produttiva maggiore di quella venezuelana.
La riduzione della portata delle sanzioni è subordinata ad alcune richieste – tra tutte la garanzia di elezioni libere e il rilascio dei prigionieri statunitensi – ma l’approccio del governo chavista non fornisce alcuna garanzia. L’esclusione di Mosca dal sistema SWIFT, che di fatto blocca il denaro venezuelano depositato nelle banche russe può rappresentare un campanello d’allarme per Maduro, tuttavia non sarà sufficiente questo elemento a minare la stabilità del regime. Il Venezuela cerca di approfittare della guerra in Ucraina e il conseguente aumento dei prezzi del petrolio per giocare su più fronti. Gli Stati Uniti, dal canto loro, potranno provare a sfruttare il momento di incertezza e vulnerabilità per mitigare la minaccia russa alle porte di casa, ma un totale affrancamento da Mosca di Caracas appare inverosimile nel breve periodo.