La volontà di disimpegno degli USA dal Medio Oriente sta innescando dinamiche del tutto nuove nella regione. Gli attori mediorientali l’hanno compreso da tempo e stanno adattando le proprie agende politiche alla nuova realtà dei fatti. Negli ultimi tempi, uno dei Paesi che più si sta muovendo è Israele, attore sempre più baricentrico negli equilibri regionali. Accordi di Abramo, Iran e questione palestinese sono solo alcuni dei temi che abbiamo affrontato con SE Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar.
Nel ringraziarla per aver accettato l’intervista vorrei iniziare parlando degli Accordi di Abramo. Il 15 settembre scorso si è celebrato un anno dalla loro firma. A dodici mesi di distanza che valutazione complessiva possiamo tracciare?
Prima di tutto vorrei parlare in termini generali degli accordi di Abramo. Tali accordi sono stati in grado, anzitutto, di rompere il paradigma che ha dominato per almeno un secolo in Medio Oriente. Secondo tale paradigma non ci sarebbe stata alcuna possibilità (per Israele, ndr) di avanzare nella normalizzazione con i Paesi arabi, senza risolvere preventivamente la questione palestinese – quello che convenzionalmente viene definito il veto palestinese. Questo ha rappresentato un paradigma che ha bloccato il progresso nella regione. Infatti, negli ultimi cento anni è possibile osservare come i palestinesi hanno rifiutato ogni proposta di pace che gli è stata avanzata, da Israele ma anche dal resto della comunità internazionale. Le ultime proposte erano molto generose. In ogni caso, i palestinesi hanno chiuso loro la porta.
La grande domanda è: perché? Su questo aspetto vorrei ricordare le parole, pronunciate un anno fa, circa, dal Principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Salman, il quale ha rilasciato un’intervista molto interessante. In essa ha criticato gravemente i palestinesi dichiarando che la classe dirigente palestinese non ha mai pagato il prezzo per i propri errori politici. Infatti, nei decenni passati era evidente che, qualsiasi errore politico avessero compiuto, non ne avrebbero pagato il prezzo, potendo contare su un sostegno automatico di tutti i Paesi arabi, e di molti Paesi occidentali, i quali avrebbero sostenuto a priori la loro causa. Questa condizione, al tavolo negoziale, ha spinto i palestinesi a rifiutare ogni compromesso. Perché giungere a un compresso laddove, in ogni caso, gli errori non verranno pagati?
Cosa ha spinto, secondo lei, tali Paesi arabi a normalizzare le relazioni con Israele e quali sono i maggiori settori di cooperazione all’interno del framework di Abramo?
Molti si chiedono, anche all’interno delle società dei Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele, il perché. Tengo a ribadire che intrattenere relazioni diplomatiche normalizzate con il nostro Paese può contribuire in maniera ampia al progresso di tali Paesi, in molti settori: tecnologia, cultura, settori come quello dell’approvvigionamento idrico – la regione mediorientale è scarsa di questo bene primario. Pensiamo anche al tema della sicurezza, sia nelle sue forme tradizionali che nelle nuove forme, come il settore cyber. Questo è un aspetto cruciale, specialmente alla luce dei programmi nucleari iraniani, verso i quali anche gli Stati arabi moderati guardano con preoccupazione.
Negli ultimi decenni questi Paesi hanno compreso come Israele non fosse il problema bensì, al contrario, può rappresentare una parte importante della soluzione ai problemi della regione. Prendendo spunto da questo, vorrei stimolare i lettori a una riflessione più ampia. Sono ormai cento anni che parliamo degli stessi problemi – a partire dal conflitto israelo-palestinese – e molte volte ci siamo resi conto che le nostre proposte si sono rivelate un fallimento. Per questo credo che dobbiamo avere il coraggio di pensare fuori dagli schemi. Gli Accordi di Abramo sono un primo passo in questo senso.
Da quando sono a Roma mi è capitato molte volte di passare a Campo de’ fiori. In quel luogo nel 1600 è stato ucciso, arso vivo, Giordano Bruno, perché accusato di eresia. La sua figura e la sua storia, così come quella di tanti illustri personaggi del passato, ci lasciano un insegnamento chiave che credo dobbiamo avere il coraggio di applicare: quello che oggi pensiamo come assurdo o impossibile potrebbe diventare il paradigma predominante nel futuro. Non possiamo pensare di risolvere tutti i problemi in una sola generazione. Quello che invece dovremmo fare è iniziare a tracciare una nuova direzione e tentare di provocare un cambiamento che poi, forse, genererà i suoi frutti positivi per le generazioni future.
Ad oggi sono quattro gli Stati che, insieme a Israele, hanno aderito agli Accordi di Abramo: Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan. In un futuro non troppo lontano dobbiamo attenderci l’adesione di altri Stati a tale framework?
Non posso confermare quali sono i Paesi in procinto di entrare a far parte del framework di Abramo. Vi posso però assicurare che ci sono notizie su almeno un altro importante Stato arabo che sta negoziando l’ingresso negli Accordi.
In generale tendo a ribadire un concetto. Il vecchio paradigma, che si basava sul veto palestinese, andava superato. Perché non avere rapporti diplomatici e di amicizia con Paesi come il Marocco o gli Stati del Golfo, con cui non siamo mai entrati in un vero e proprio conflitto? Questo concetto potrebbe applicarsi potenzialmente anche all’Iran, con cui storicamente abbiamo avuto rapporti fino a prima della rivoluzione islamica del 1979. L’attuale ostilità del regime iraniano verso il nostro Paese va secondo me interpretata utilizzando categorie non tradizionali della scienza politica. L’ossessività iraniana verso Israele appartiene a un altro campo, che definirei di psicologia politica.
Dato che lei lo ha citato, possiamo aggiungere un nuovo tassello alla nostra conversazione. Che ruolo gioca l’Iran in questo disegno di trasformazione degli equilibri regionali?
L’Iran gioca un ruolo fondamentale in quanto sto dicendo. I Paesi arabi moderati temono fortemente la politica iraniana nella regione, in particolare il programma nucleare. Questi attori hanno compreso che, nei nuovi equilibri regionali, sarà sempre più fondamentale cercare un’alleanza con Israele su tali dossier. Al contrario, credo che i palestinesi questo fatichino a comprenderlo ancora. Anche questa volta, nella storia, hanno scelto la parte sbagliata, influenzati da una politica anti-israeliana che non gli dà alcun beneficio. Credo che, di fronte a un calcolo razionale, sarebbero costretti a cambiare la propria posizione.
Allargando la prospettiva, quali sono le tendenze più importanti che secondo lei connoteranno il futuro della regione mediorientale?
Pensando più in generale alle dinamiche che negli ultimi anni stanno caratterizzando il Medio Oriente mi piacerebbe ragionare su un fenomeno storico come le Primavere arabe. Si tratta di una serie di eventi di portata epocale che credo, ancora oggi, l’Occidente stia faticando a comprendere nel suo senso più profondo. Sembra quasi che l’Europa, su tutti, non voglia imparare. Provo a spiegarmi. Se guardiamo al passato, gran parte della storia di questa regione coincide con una storia di dominazione da parte di grandi imperi – da ultimo l’Impero ottomano che dopo molti secoli ha cessato di esistere al termine della Prima Guerra Mondiale.
Quando l’Impero ottomano è crollato, così come altri tre imperi europei, le potenze alleate si sono sedute al tavolo negoziale per ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Possiamo considerare la Prima guerra mondiale come la fine dei grandi imperi, prima di quell’evento dominanti sulla scena internazionale. Pensiamo anche alle decisioni prese qui in Italia, nella Conferenza di San Remo del 1920. L’Occidente in quella fase storica ha consegnato nelle mani delle popolazioni mediorientali, a partire dagli arabi, un regalo molto importante: lo Stato-Nazione. Si tratta di un’idea allo stesso tempo molto semplice e sofisticata. Tale idea consiste nel tentativo di trasformare i legami sociali e di provocare delle conseguenze sul piano della politica. Come? Unificando comunità molto diverse tra loro all’interno del medesimo Stato-Nazione. Pensiamo alla Siria, al Libano o all’Iraq. Questa è un’idea tutta occidentale. Qual è stato il collante di queste nazioni negli ultimi cento anni? Molto spesso dei regimi non democratici basati sulla violenza. Ciò che è iniziato alla fine del 2010, e che noi chiamiamo Primavere arabe, non è altro che un’avvisaglia dell’indebolimento di questi costrutti artificiali, i quali rischiano di crollare.
È qui che sorge una domanda, una questione, che l’Europa non sembra voler affrontare: chi ha detto che le idee occidentali siano adattabili a contesti e popoli con culture profondamente diverse? In Medio Oriente i popoli non sono passati attraverso le rivoluzioni che hanno caratterizzato la storia europea – le guerre di religione, il processo di secolarizzazione, la nascita della democrazia. Concetti molto distanti dalla storia dei popoli mediorientali. Quello che dovremmo chiederci, per il futuro, è se questo modello potrà continuare a sopravvivere.
Abbiamo parlato, fino ad ora, in termini generali della questione palestinese e di come questa influenzi o meno la posizione di Israele in Medio Oriente. Vorrei ora entrare più nel dettaglio, chiedendole qual è l’approccio del nuovo governo guidato da Naftali Bennett a tale questione?
Vorrei fare una premessa. Nella mia esperienza, in tante occasioni, non solo in Italia ma in generale in Europa, mi è capitato di osservare come ci sono tanti che non distinguono ancora tra le varie “fazioni” palestinesi – in particolare, tra l’Autorità nazionale palestinese (ANP) e Hamas. C’è una grande differenza che va sempre tenuta in considerazione quando ci approcciamo alla questione palestinese. Dal 2007 e ancora oggi la Striscia di Gaza è controllata da Hamas, che ha preso il potere in quel territorio attraverso la violenza, di fatto estromettendo fisicamente i funzionari dell’ANP che lavoravano nella Striscia. Hamas è un’organizzazione terroristica, sì, ma di matrice religiosa. Invito i vostri lettori a leggere lo Statuto di Hamas. Questo statuto è il manifesto ideologico e politico dell’organizzazione. Volta per volta, osservo come l’Europa non dà abbastanza importanza a questo come ad altri documenti. Documenti come lo statuto di Hamas sono fondamentali per comprendere tale organizzazione. Leggerlo significa tracciare il profilo psicologico di tale organizzazione, coglierne il dna.
Per far questo, credo sia necessario prendere in considerazione anche la parte del subconscio. Questo vale nell’analisi degli individui ma anche in quello di formazioni politiche e religiose. Non ci sono solo gli interessi a muovere l’azione di un’organizzazione ma anche i suoi sogni, desideri, relazioni affettive. Questi elementi vanno presi in considerazione quando parliamo di Hamas, anche al fine di capire come possiamo e dobbiamo affrontarlo.
Ci sono due principi in questo documento che mi preme sottolineare. Il primo è relativo all’impegno da parte di Hamas di distruggere Israele, nella sua forma di Stato ebraico. In questo senso credo che sia possibile definire tale movimento un’organizzazione antisemita tout court. Il secondo principio concerne la dedizione totale nella lotta contro gli ebrei nel mondo, ovunque essi si trovino. Per comprendere quanto sto dicendo basta guardare ai recenti sviluppi. A settembre è stata organizzata da Hamas a Gaza una conferenza in cui si discuteva il futuro del popolo ebraico dopo la distruzione dello Stato di Israele. Come può definirsi tale linguaggio, se non come un linguaggio antisemita?
Dopo queste parole, non posso che chiederle: è possibile negoziare con Hamas? O, comunque, trovare un compromesso?
Gli israeliani sanno molto bene chi è Hamas. Quando parliamo di possibili soluzioni dobbiamo tener conto tutto ciò che ho detto. Allo stesso tempo, però, non possiamo non considerare il fatto che nella Striscia di Gaza vivono dagli 1,5 ai 2 milioni di cittadini, e non tutti sono sostenitori del regime di Hamas. Prima di avere programmi per la ricostruzione o lo sviluppo di Gaza dobbiamo comunque richiedere una responsabilità a chi governa questi territori. Responsabilità sulla vita di questa popolazione. Non è possibile, altrimenti, pensare che lo sviluppo di questi territori possa continuare ad essere alimentato unicamente dall’esterno, a partire da Israele e passando per gli aiuti provenienti dai Paesi occidentali. È necessario rompere questo circolo vizioso, responsabilizzando le classi dirigenti palestinesi nel sostegno e nella cura di queste famiglie, di questa popolazione.
In questo senso, vorrei richiamare alla sua attenzione il discorso tenuto lo scorso settembre dal Ministro degli Esteri Lapid al World Summit on Counter Terrorism organizzato dall’ICT di Herzliya. In quell’occasione il Ministro ha lanciato il piano Economy for Security al fine di inaugurare una nuova era nei rapporti tra Israele e, in particolare, la Striscia di Gaza. Di cosa si tratta nel dettaglio?
Il Ministro Lapid ha mostrato un programma che possiamo sintetizzare, come da lei appena detto, nella formula “economia per la sicurezza”. La nostra può essere vista come una proposta graduale per la ricostruzione e lo sviluppo della Striscia di Gaza. A partire dalla rete elettrica, dall’approvvigionamento energetico, ma anche dalla costruzione di depuratori per la produzione di acqua potabile, sino al miglioramento delle infrastrutture in generale e dei servizi sanitari più nello specifico.
È evidente che il nostro impegno è quello di coinvolgere l’intera comunità internazionale. Non solo nelle attività operative ma anche nelle operazioni di controllo degli investimenti, affinché i soldi impegnati vengano usati unicamente per scopi civili. Vogliamo e lavoreremo per una vita migliore dei cittadini di Gaza. Se Hamas rifiuterà, i cittadini palestinesi comprenderanno le priorità di Hamas: muovere guerra nei nostri confronti invece di occuparsi del miglioramento della condizione di vita dei cittadini palestinesi. Questo piano, inoltre, prevede degli step distinti. Alla fine di ogni fase è prevista una verifica dei risultati. Così che, solo se tutto sarà andato bene, potremo avanzare allo step successivo, costringendo Hamas a un lungo silenzio. Ad ogni modo, siamo ancora in attesa di capire che posizione assumeranno gli attori palestinesi su questa nostra proposta.
Vorremmo anche coinvolgere l’Autorità nazionale palestinese, che deve tornare a giocare un ruolo centrale a Gaza. Questo piano, tra l’altro, vorrei ricordare come prevede anche degli investimenti per la Cisgiordania. Crediamo che l’ANP sia l’entità in grado di operare meglio per il bene della popolazione palestinese. In questo senso, si pensi al recente incontro tra il Ministro della Difesa Gantz e il Presidente Abu Mazen a Ramallah. Il coordinamento, soprattutto sul fronte della sicurezza, è già molto buono.
Se da un lato il Ministro della Difesa Gantz è tra i principali attori governativi che stanno riallacciando un dialogo con l’ANP dall’altro lato il ministero da lui guidato ha appena dichiarato sei organizzazioni non governative (ONG) palestinesi come entità terroristiche, in particolare per i loro legami con il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina. Come dobbiamo leggere questa decisione, che ha destato stupore da più parti?
È vero, queste ONG sono state dichiarate entità terroristiche dal nostro Ministero della Difesa. Ora, è molto facile nascondersi dietro la popolazione civile e agire sotto la copertura di azioni umanitarie. Tuttavia, è necessario anche ribadire come tutte queste sei organizzazioni hanno legami e hanno supportato il terrorismo. Credo sia necessario non mischiare i fatti con le impressioni. Nascondersi dietro operazioni umanitarie e giuste cause, avanzando contemporaneamente azioni con scopi terroristici, non fa delle prime delle azioni moralmente più apprezzabili. Posso assicurarvi che tale decisione è stato fatta sulla base di evidenze concrete, attraverso un controllo certosino sulle attività di ciascuna delle sei ONG.
Su questo punto come giustifica la reazione fortemente critica di molti Stati europei e degli USA?
Questa la ritengo una posizione di comodo che scatta automaticamente quando questi Paesi scoprono che i loro fondi, attraverso cui finanziano determinate organizzazioni, finiscono nelle tasche sbagliate. Il problema sta nel mancato tracciamento. Quando parliamo di dare aiuti a Gaza, noi riteniamo che ogni centesimo debba essere controllato dall’inizio alla fine del suo percorso. Non è sufficiente finanziare, è necessario vigilare l’intero processo. La transazione, da quando parte a quando arriva, deve essere tracciata. Questo è un lavoro che molti attori internazionali si rifiutano di fare. Questo è un meccanismo molto comodo che purtroppo è andato avanti per decenni. È necessario chiedere un cambio, dato che stiamo parlando di miliardi di euro di aiuti e investimenti. Sono molti anni che stiamo cercando di sensibilizzare i Paesi europei e gli USA sulle attività di alcune di queste ONG.
Allargando la prospettiva, questo tema coinvolge anche la strumentalizzazione di principi di diritto, a partire dai diritti umani. Questi sono principi sacri anche per noi. Ciò che condanniamo è la strumentalizzazione nell’utilizzo di tali principi. C’è una soglia sottile che non può essere accettabilmente oltrepassata ed è quella della delegittimazione di Israele e del suo diritto di esistere. Ciò non vuol dire che le politiche del nostro Paese non possono essere criticate o messe in discussione. Ciò vuol dire che la critica non può debordare verso la messa in discussione della legittimità stessa di Israele.
Ritornando al discorso che facevo prima, questo è secondo me uno dei volti più recenti e pericolosi di un atavico sentimento, ovvero l’antisemitismo. In passato l’antisemitismo si basava su una discriminazione religiosa o, alternativamente, di matrice etnica. Oggi l’antisemitismo più pericoloso è quello di matrice politica. In Europa è evidente che stanno lentamente scemando le forme più tradizionali di antisemitismo. Al contrario, l’antisemitismo di oggi risiede nella messa in discussione del diritto di esistere dello Stato di Israele che è, in altri termini, uno Stato ebraico. Non è possibile marcare una linea di distinzione tra antisemitismo e antisionismo oggi, proprio per la natura ebraica dello Stato israeliano.
In conclusione vorrei parlare di un tema che coinvolge indirettamente anche i legami tra Israele e Italia. Vorrei commentare con lei tale dato: dal 2015 a oggi, prendendo in considerazione solo le risoluzioni dell’Assemblea generale ONU, Israele è stato oggetto di ben 112 risoluzioni di condanna. Per fare un confronto, nello stesso lasso temporale la Siria ne ha ricevute 8, la Corea del Nord 6 e l’Iran 5. Come spiega questo dato?
Siamo a un mese circa dall’ennesima risoluzione di condanna contro Israele alle Nazioni Unite, in particolare questa volta da parte del Consiglio per i Diritti Umani. Ogni anno, in media, si contano circa venti risoluzioni di condanna verso Israele. Definirei ciò che accade in questi consessi internazionali come “il teatro dell’assurdo”. Credo che questi dati citati siano la dimostrazione plastica di ciò che sto dicendo.
Da quando sono arrivato qui in Italia ho notato un grande gap, una grande differenza tra ciò che accade all’interno delle Nazioni Unite e quello che invece è la relazione quotidiana bilaterale tra Israele e Italia, così come con altri Paesi europei. A livello bilatere c’è un livello di cooperazione che va molto al di là di quello che pubblicamente può essere osservato. C’è intimità, fiducia, collaborazione e amicizia tra i nostri Paesi. Pensiamo alla cooperazione in materia di intelligence o più in generale sulla sicurezza. Per noi, la sicurezza dell’Italia rappresenta un tassello importante della nostra stessa percezione di sicurezza. Vi bastino, come esempio concreto, le esercitazioni militari congiunte. Il giugno scorso ho potuto visitare la base di Amendola, dove ho potuto apprezzare con i miei occhi un’esercitazione congiunta tra l’aeronautica israeliana e quella italiana, con l’utilizzo degli F-35. È impossibile mettere in discussione il forte legame di amicizia tra Israele e Italia. Allora, quello che mi chiedo è: perché questa intimità non si riflette automaticamente nella posizione dei nostri partner europei all’interno di organismi come l’ONU? Quando siamo di fronte a votazioni di risoluzioni di vario genere tutto sembra cambiare. È in questo senso che definisco le Nazioni Unite come il teatro dell’assurdo. Per me questa è fonte di dolore e delusione. Perché non provare, anche in questi fori internazionali, a replicare la collaborazione e l’amicizia che viviamo tutti i giorni?