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RubricheIntervisteGeopolitica di una Conferenza. Intervista alla Prof.ssa Antonia Carparelli

Geopolitica di una Conferenza. Intervista alla Prof.ssa Antonia Carparelli

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L’articolo sulla “Conferenza sul Futuro dell’Europa”, a cui si rimanda per un’analisi dell’iniziativa, in chiusura offriva uno spazio dedicato all’opinione critica della cittadinanza europea riguardo la Conferenza. Abbiamo chiesto ad Antonia Carparelli, titolare della cattedra di “Governance and Policies of the European Union” presso l’Università LUMSA di Roma e con alle spalle una carriera più che ventennale in Commissione europea, di fornirci la sua opinione in merito. Proponiamo dunque la visione di un’esperta del panorama geopolitico ed economico europeo, ma soprattutto di una cittadina europea in pieno esercizio dei suoi diritti democratici.

La Conferenza sul Futuro dell’Europa rappresenta un’occasione per i cittadini di indirizzare l’avvenire dei 27. Quale sarà l’impatto dei suoi risultati, previsti per la primavera 2022? 

Inquadriamo innanzitutto questo esercizio, nel quale i cosiddetti europeisti convinti credono fortemente. 

Sappiamo che l’inizio non è stato dei più facili a causa delle difficoltà dovute alla pandemia, ma non solo. Gli attriti sono emersi in Parlamento, che vede ancora oggi la Conferenza come la premessa di un nuovo momento costituzionale che apra la strada alla revisione dei trattati. Al contrario del Consiglio europeo, che da parte sua tende ad escludere questa via. L’iniziativa è stata lanciata nonostante questa divergenza non fosse, e non è, ancora stata sanata. Da parte di entrambe le istituzioni l’idea è che il decorso degli esiti della Conferenza daranno loro ragione. 

Gli sviluppi dei prossimi mesi dunque saranno molto importanti, in primis per via dell’insediamento della presidenza francese in sede di Consiglio dell’Unione europea. Macron è stato un artefice importante dell’iniziativa e ha tutto l’interesse a trarne più benefici possibili, anche in prospettiva della sua campagna elettorale per le presidenziali del 2022. La seconda ragione è che la Commissione europea ha deciso di impegnarsi di più per stimolare la partecipazione ai processi decisionali comunitari, specie dei giovani, a cui è stato intitolato l’anno 2022 come European Youth Year.

È ancora presto dunque per indagare quale sarà l’uso che le istituzioni sapranno fare di questa iniziativa e dei suoi esiti, anche se la scommessa di coloro che si aspettano un salto di qualità della democraticità e del progetto d’integrazione potrebbe ripagare.

La prospettiva di un’Europa militarmente unita può permetterle di esercitare la sua autorità al pari di potenze come Stati Uniti e Cina nel panorama internazionale? 

L’obiettivo di una forza comune europea con capacità di intervento nel panorama internazionale data da diverso tempo, come strumento di difesa e come supporto a una politica estera ancora frammentata. I paesi membri sanno che una delle più importanti debolezze dell’Unione è la sua incapacità di parlare con una voce sola nel campo della politica estera, corredata da una capacità di mobilitazione ancora inferiore. Il quadro geopolitico internazionale d’altro canto ci mette di fronte ad alcuni fatti nuovi.

La posizione degli Stati Uniti è uno di questi. Dall’altro lato dell’Atlantico iniziano ad arrivare messaggi all’Europa riguardo i costi di mantenimento dell’ombrello protettivo statunitense nel vecchio continente. Il tentativo dell’Europa di contare sulle proprie forze non riesco a vederlo come un elemento strettamente conflittuale con gli USA. Ma non si devono fare i conti solo con loro. La Russia è uno di quei paesi sui quali i 27 dovrebbero trovare un’unità al proprio interno.

Ogni crisi che abbiamo vissuto, da ultimo quella dell’Afghanistan, è un richiamo per l’Europa alle sue responsabilità. Dico questo non soltanto perché da essa ci si aspetta un ruolo politico che al momento non c’è, rispetto al ruolo economico che mostra, ma anche per le implicazioni di politica interna che queste crisi hanno e continueranno ad avere. La crisi migratoria collegata ai profughi Afghani è un plastico esempio di come l’Ue sia stata ignorata sulla scena internazionale, in primis dai “suoi” paesi membri. Queste situazioni devono essere moniti per l’Europa. Devono spingerla a fare quei passi in avanti in materia di politica estera comune, nonostante i molti scogli da superare. Tra questi la tendenza degli Stati a pensare di poter ottenere di più da politiche bilaterali che non sposando l’ottica genuinamente multilaterale promossa da Bruxelles. 

Qual è la sua opinione riguardo gli impegni climatici che le maggiori economie del mondo hanno sottoscritto durante gli ultimi summit multilaterali come il G20 e la COP26? 

Forse un modo per rispondere è citare l’efficacia della frase di Joe Biden “quando i risultati di un negoziato non piacciono a nessuno direi che il negoziato è andato bene“.
Non credo si debba esagerare con il pessimismo riportato da stampa e ambientalisti più radicali: Glasgow ha rappresentato un netto passo in avanti rispetto agli incontri precedenti. Anzitutto per la presenza attiva degli USA, quando in precedenza si erano sempre tirati fuori da questo tipo di negoziati, il che significava porre un’ipoteca importante riguardo la loro efficacia. Il risultato più importante è però quello fornito dal consenso dei paesi sull’esigenza di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi entro il 2100. Questo impegno non era certo scontato alla vigilia.

Per la prima volta c’è anche l’assunzione di un impegno sulla riduzione dei sussidi alla produzione del carbone e dei combustibili fossili, meno ambizioso rispetto alla loro totale eliminazione, ma che segna la presenza di consapevolezza collettiva riguardo l’eliminazione graduale di questi sussidi.

L’Ue incarnando ancora il ruolo di pioniere in questa corsa si era posta 3 obiettivi: taglio di emissioni compatibile con l’obiettivo ambizioso di tenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°, raggiungere i 100 mld di dollari in finanziamenti per il clima, completare il manuale su come raggiungere questi obiettivi (il rulebook), di cui si era tanto parlato a Parigi nel 2019. Sono stati compiuti passi in avanti. Non al livello sperato dall’Ue, ma non perciò meno importanti. Tra questi l’impegno a darsi un calendario più serrato nei prossimi mesi ed anni, con delle tappe intermedie che porteranno alla COP 27 che si terrà in Egitto il prossimo anno.

È possibile che questo pionierismo faccia perdere competitività all’Ue rispetto ad altre aree che non si auto-impongono obblighi del genere, o che quando lo fanno non hanno problemi a non rispettarli?

L’Europa sta cercando di ritagliarsi un ruolo di leadership dando l’esempio, cioè assumendosi per prima grossi impegni (neutralità climatica entro 2050, ma anche la riduzione di CO2 del 55% entro il 2030) articolati in programmi precisi come Fit For 55 e con allocazioni di fondi aggiuntive stimate dalla Commissione dell’ordine di 600 miliardi di euro. Per fare un raffronto molto spicciolo ricordo che il totale dei fondi che alimentano il Next Generation EU è di 750 miliardi.

L’impegno è dunque di proporzioni grandiose e implica che questi fondi non provengano solo dal settore pubblico. Senza dimenticare che al contempo ci sono anche altre necessità, forse più immediate, tra le quali lo stesso Next Generation EU

Cosa significa questo in termini di competitività?

Intanto, dietro a tutto ciò, c’è l’idea che l’Europa possa porsi nella posizione di vantaggio tipica dei precursori, investendo nella ricerca di tecnologie, nella riconversione e nell’innovazione guadagnando in futura competitività. Naturalmente questo potrebbe non valere e si è perfettamente consapevoli che la logica del “minor prezzo” che pervade i mercati potrebbe avvantaggiare i nostri competitori nell’immediato, condannando una parte del nostro sistema produttivo.

C’è poi la consapevolezza di doversi difendere nel frattempo dal cosiddetto “dumping ambientale” cioè il fatto che altri paesi possano vendere delle merci che sono largamente inferiori ai nostri standard in termini di consumo di CO2 che la loro produzione comporta. Dunque bisogna attrezzarsi perché questo non avvenga. Uno dei meccanismi al vaglio della Commissione, largamente sostenuto dal Parlamento, è il meccanismo di aggiustamento alle frontiere: tassare all’ingresso i prodotti che non corrispondono agli obiettivi che l’Ue si è posta. 

Per complicare ancora di più queste ambizioni sottolineo che esistono anche dei limiti imposti da organismi internazionali come il WTO. Si rende necessario perciò negoziare degli accordi che possano bilanciare la lotta al cambiamento climatico senza perdere in competitività. O cadere in logiche protezionistiche che sarebbero dannose per tutti.

Una tappa delle quattro Assemblee Plenarie della Conferenza si svolgerà a Natolin, in una Polonia i cui rapporti con Bruxelles sono tesi. Esiste una soluzione ai contrasti ideologici che hanno animato la scena est-europea degli ultimi anni?

Una forte convinzione personale riguardo agli attriti tra l’Ue da una parte e la Polonia (e non solo) dall’altra, è che essi siano il riflesso di una debolezza costituzionale di cui l’Unione soffre da molto tempo. I negoziati per l’accesso dei paesi dell’Est, alla vigilia del nuovo secolo, avvennero in base ai criteri di Copenhagen, una sorta di espansione dei principi riportati all’art.2 del TUE sulla natura democratica dell’Europa, sui valori e i diritti fondamentali che rappresentano il portato più avanzato della nostra civiltà. Il problema risiede. Ma a differenza di quanto è avvenuto per i criteri di convergenza per l’ingresso nell’unione economica e monetaria, quelli di Maastricht, ai quali in un secondo momento è stato corredato un patto per la stabilità e la crescita che ha reso permanente l’impegno degli Stati, non altrettanto è avvenuto per i criteri di Copenhagen. L’Ue non si è dotata di meccanismi per fare in modo che questi criteri valoriali di ammissione diventassero delle regole, né di strumenti adeguati per farle rispettare. Questa è la debolezza costituzionale. 

Come vi si può porre rimedio?

Uno degli obiettivi della Conferenza dovrebbe essere proprio questo, perciò mi pongo dalla parte di coloro che sperano che questo esercizio sia l’anticamera di un momento costituzionale dell’Unione. Nel frattempo credo che la soluzione del problema polacco vada costruita con molta lungimiranza, separando questo problema costituzionale di fondo dalla situazione contingente.

Per affrontare quest’ultima le istituzioni hanno degli strumenti finanziari e giuridici dal grande potenziale. Ma più che la forza di questi metodi credo che la soluzione possa venire dal dato che emerge dall’opinione pubblica polacca, fortemente pro-europea, e che non tollererebbe un processo di rottura. Facendo leva sull’opinione pubblica è possibile trovare una via, seppur temporanea, di convivenza.

La Commissione ha dato anche segnali attraverso l’esercizio annuale sulla Rule of Law, diventato significativo e che ricorda gli esercizi che avvengono nel quadro dell’unione economica e monetaria: controllo più mirato e puntuale delle dinamiche democratiche nei paesi membri. Mi auguro che la Conferenza sul Futuro dell’Europa dia ulteriori spinte in questa direzione.

Quindi anche lei come l’amministrazione Von der Leyen spera che questa iniziativa si trasformi in un appuntamento fisso?

In un qualcosa che rafforzi in maniera permanente la capacità, la vocazione e l’impegno dell’Europa verso i principi elencati all’articolo 2 del TUE. Un tassello di quel complesso processo che è la costituzione di una vera democrazia europea. 

Enea Belardinelli
Centro Studi Geopolitica.info

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