Domenica scorsa, 27 settembre, sono iniziati gli scontri tra Armenia e Azerbaigian per il controllo della regione del Nagorno Karabakh. Si tratta della peggior escalation dalla guerra dei quattro giorni del 2016, coinvolgendo tutta la linea del fronte e l’impiego di mezzi pesanti artiglieria e fanteria. Gli attacchi hanno interessato anche aree oltre i confini dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh e, secondo le dichiarazioni, tra le vittime si conterebbero anche dei civili: entrambi i Paesi hanno indetto la legge marziale.
Per un’analisi approfondita ed una visione più completa di quello che sta succedendo, Geopolitica.info ha quindi incontrato il Professor Carlo Frappi, ricercatore all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Associate Research Fellow per l’Osservatorio Russia, Caucaso e Asia Centrale dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).
Visto che il conflitto del Nagorno Karabakh si protrae dal 1988, perché scontri così in larga scala sono scoppiati proprio adesso? Visti i precedenti scontri avvenuti nel 2020, ci si poteva aspettare questa escalation?
La ripresa degli scontri militari tra Armenia e Azerbaigian era purtroppo prevedibile. Il breve conflitto di luglio aveva già chiaramente evidenziato un salto di qualità negli scontri che non poteva non destare preoccupazione, anche all’indomani della cessazione delle ostilità. E non mi riferisco soltanto alla più avanzata tecnologia militare e alla tipologia di armamenti utilizzati. Mi riferisco, anzitutto, al clima che ha accompagnato e seguito gli scontri, alle ondate di nazionalismo che hanno attraversato trasversalmente le società civili armena e azerbaigiana, in patria così come all’estero – dove ripetute scaramucce si sono verificate in quasi tutti i principali paesi che ospitano loro rappresentanti. Mi riferisco, allo stesso tempo, a uno scontro verbale tra i rappresentanti istituzionali dei due paesi che è andato approfondendosi, piuttosto che ridimensionandosi, nel corso delle settimane seguite al conflitto.
Se a questo quadro si aggiunge la sostanziale – e aggiungerei tradizionale – inazione della comunità internazionale e dei mediatori innanzi ai ripetuti campanelli d’allarme che squillavano nella regione, si capisce come il riaccendersi del conflitto fosse un esito quasi scontato.
Il 29 marzo 2019 a Vienna, si è tenuto il primo vertice ufficiale tra il premier armeno Pashinyan e quello azero Aliyev, in cui i due leader si erano impegnati a ridurre le ostilità lungo la linea di confine, cos’è cambiato? Quali sono gli elementi che hanno portato all’attuale scontro in larga scala?
Personalmente mi concentrerei su due significativi e connesse dinamiche prodottesi nel corso dell’ultimo biennio.
Da una parte, c’è sicuramente la progressiva disillusione di quanti – ed erano stati in molti, nella regione come al di fuori di essa – avevano sperato che la c.d. Rivoluzione di Velluto armena del 2018, l’affermazione politica di Nikol Pashinyan e la marginalizzazione del cd. Clan del Karabakh [La precedente dirigenza armena, originaria della regione. Ndr] potessero facilitare il percorso verso una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia, nonostante i segnali incoraggianti che correttamente richiama, la piattaforma riformista di Pashinyan non si è tradotta in una più aperta posizione negoziale, in una maggior propensione al compromesso che, sola, avrebbe potuto contribuire a spezzare lo stallo diplomatico. Per certi versi, al contrario, ha finito per esserne di impedimento. Diversi fattori internazionali e interni possono aver contribuito a questa dinamica – dalla polarizzazione istituzionale interna ai quantomeno difficili rapporti con la Diaspora – resta tuttavia il fatto che retorica e iniziative del Primo ministro armeno non si sono discostate da quelle dei suoi predecessori.
Al “fattore disillusione” si lega il secondo elemento che mi sembra utile richiamare. Mi riferisco al crescente senso di frustrazione delle autorità dell’Azerbaigian innanzi al congelamento delle prospettive di soluzione pacifica del conflitto. Per Baku – coerentemente con principi e previsioni dei documenti sin qui approvati dalle istituzioni internazionali per la risoluzione del conflitto – la piena riaffermazione della sovranità sul Nagorno-Karabakh e sui distretti a esso limitrofi sotto occupazione non è negoziabile. Così come non negoziabile è il diritto di rientro nelle stesse aree degli sfollati interni [al dicembre 2019 oltre 350 mila, secondo i dati della Banca Mondiale. Ndr]. In questa prospettiva, il mix esplosivo di frustrazione delle aspettative e di apparente disinteresse della comunità internazionale ha generato una congiuntura nella quale l’iniziativa militare restava l’unica alternativa percorribile per riprendere con la forza ciò che con la forza gli era stato sottratto ovvero – possibile obiettivo minimo dell’offensiva militare – per rilanciare il negoziato di pace su basi differenti. D’altra parte, le più alte cariche istituzionali azerbaigiane – da Aliyev in giù – da anni andavano apertamente ribadendo che, nonostante preferenza e sostegno accordati alla soluzione pacifica al conflitto, l’opzione militare restava ultima ratio per l’affermazione dei propri diritti sull’area. Chiunque oggi si stupisca o indigni per la vasta e ovviamente pianificata operazione militare lanciata dall’Azerbaigian – poco importa, da questo punto di vista, se in risposta a una provocazione armena o meno – non può che essere tacciato di ipocrisia.
Sul piano interno dei due Paesi caucasici, secondo lei, quanto questi scontri potrebbero essere funzionali alla politica interna di entrambi i Paesi, in una situazione di crisi e aggravata dalla pandemia?
L’effetto rally ‘round the flag, per il quale crisi e conflitti internazionali rappresentano nel breve periodo strumenti di aggregazione e rafforzamento del consenso attorno alle forze di governo, è assioma indiscutibile della politica internazionale e, come tale, vale anche nel caso che qui discutiamo. Come si diceva prima, però, i drammatici eventi cui assistiamo in questi giorni hanno radici più profonde e, dunque, non cercherei nessi causali con la situazione contingente. D’altra parte, non va sottovalutato che l’effetto e l’afflato tipicamente nazionalista che lo sostiene rischia di diventare controproducente qualora le aspettative da esso generate venissero disilluse: in questa prospettiva c’è dunque il rischio che possa tradursi in un ulteriore fattore di radicalizzazione dello scontro in atto.
Invece, sul piano internazionale, in che misura sono coinvolti attori esterni come la Turchia, Russia, Unione Europea e Stati Uniti? Quanto è probabile che Mosca intervenga a fianco dell’Armenia per via dell’alleanza del CSTO?
Gli attori internazionali hanno avuto in passato un ruolo significativo nella disputa, che conservano oggi solo in parte. Tra quelli citati, la Russia resta attore pivotale: a differenza degli altri, ha in gioco nell’area interessi vitali che si delineano lungo un complesso intreccio di dinamiche interne ed estere. Resta, la Russia, l’unico attore con reale capacità di influenza nell’area. Influenza che esercita – non senza evidenti ambiguità – dialogando con (e vendendo armi a) entrambi i belligeranti, offrendo all’Armenia la principale garanzia di sicurezza esterna e, al contempo, imponendosi come principale mediatore sulla disputa, tanto in ambito multilaterale OSCE che bilateralmente.
Gli altri attori richiamati hanno un ruolo più marginale, che deriva dalle più limitate risorse di potere rispetto a Mosca – è questo il caso della Turchia – o dalla indisponibilità ad assumere un più attivo ruolo nella regione. È questo, invece, il caso degli Stati Uniti, che almeno dalla guerra russo-georgiana del 2008 hanno assunto una posizione defilata, e della stessa Unione europea, che a partire da allora si è dimostrata disinteressata o incapace (poco cambia ai fini dell’analisi) di far valere il proprio peso, nella regione in generale e rispetto al conflitto in Nagorno-Karabakh in particolare.
Quanto alla CSTO, non mi pare ci siano le condizioni perché possa scattare la “clausola di mutua assistenza”, per considerazioni giuridiche prima ancora che politiche. La Repubblica armena non è – e verosimilmente (e auspicabilmente) mai sarà – sotto attacco. Il conflitto resta “confinato” entro il territorio sovrano dell’Azerbaigian, che dal canto suo non avrebbe alcun interesse né convenienza all’allargamento delle operazioni militari.
Detto questo, spostare l’attenzione verso gli attori esterni rischia di distrarre rispetto all’essenza più profonda del conflitto, che è e resta una disputa etno-territoriale tra Armenia e Azerbaigian.
Non è dunque d’accordo con chi presenta il conflitto anche come scontro confessionale tra l’Armenia cristiana e l’Azerbaigian musulmano?
Certamente no. Il conflitto del Nagorno-Karabakh non ha nulla a che vedere con l’appartenenza confessionale.
Questa narrativa – nata con il conflitto stesso e da allora sopravvissuta per un misto di inerzia e convenienze propagandistiche – sconta il “peccato originale” di essersi imposta in una fase in cui, alla metà degli anni Novanta, la teoria dello “scontro di civiltà” era evidentemente molto diffusa, almeno tanto quanto la scarsa conoscenza dell’area – non soltanto nell’opinione pubblica internazionale, ma anche in molte delle cancellerie coinvolte a diverso titolo nel conflitto. Al radicamento di questa narrativa ha peraltro contribuito, in quella stessa fase, il più diretto scontro russo-turco che allora si delineava alle spalle di quello armeno-azerbaigiano. Ma anche in quel caso, era la solidarietà pan-turca piuttosto che quella islamica a saldare l’asse Ankara-Baku.
Alle considerazioni di cui sopra aggiungerei un ulteriore elemento, dato dal latente istinto islamofobo di parte dell’opinione pubblica occidentale. Istinto che, se non altro, non ha certamente ragione di essere nel caso specifico dell’Azerbaigian – paese profondamente secolare le cui istituzioni sono state tradizionalmente imperniate sul pilastro della laicità e che ha visto lo stesso processo di costruzione identitaria e nazionale fondarsi, sin dall’800, sulla secolarizzazione della vita sociale, culturale e politica della propria comunità.
L’assunto dello scontro confessionale è dunque privo di ogni fondamento.
Tornando alla dimensione internazionale, che ruolo può avere il Gruppo di Minsk?
Se guardiamo al futuro del conflitto, questo è chiaramente uno dei nodi centrali, e al contempo uno dei più intricati da sciogliere. Quello del Gruppo di Minsk è chiaramente un meccanismo esausto prima ancora che inefficace, che tuttavia offre un format negoziale già pronto, già rodato e già forte di principi per la risoluzione del conflitto approvati dai belligeranti [i cd. Principi di Madrid. Ndr]. E, in quanto tale, è meccanismo difficilmente sostituibile, che giocoforza resta punto di riferimento obbligato per tutti gli attori coinvolti nella partita.
Al di là della provata inefficacia del Gruppo nel forzare la mano ai belligeranti sul rispetto dei principi già approvati, ritengo che la debolezza del meccanismo negoziale derivi anzitutto dalla sua obsolescenza. Parliamo cioè di un format che nella sua attuale composizione è stato definito alla metà degli anni Novanta, rispecchiando logiche di cooperazione e competizione di potenza nel Caucaso meridionale profondamente differenti da quelle attuali. La stessa composizione della Co-presidenza del Gruppo [Stati Uniti, Russia, Francia. Ndr] ha poco senso nello scenario attuale: Stati Uniti e Francia – in disimpegno i primi, mai realmente influente la seconda – appaiono sempre meno credibili e, in ogni caso, non certo in grado di bilanciare il peso della Russia, di cui abbiamo già discusso. Ritengo che una maggior rispondenza agli attuali equilibri di forza e influenza regionali sia condizione imprescindibile per qualunque meccanismo dovesse farsi carico, da qui in avanti, dell’opera di mediazione.
In conclusione, come questo scontro può compromettere gli equilibri nella regione?
La rilevanza dell’area contesa tra Armenia e Azerbaigian non è tale, in termini di risorse, da poter spostare gli equilibri regionali, quale che sarà la sua sorte. Essa assume cioè rilevanza più nel quadro della costruzione nazionale dei belligeranti che in altro, in termini immateriali più che materiali. Vero, d’altra parte, che il conflitto in corso e la reazione degli attori esterni potrebbe portare a un parziale riposizionamento degli stessi nella partita diplomatica e strategica regionale.