La pandemia da SARS-CoV-2 costituisce per definizione uno shock di sistema con effetti asimmetrici. Le conseguenze economiche e sociali dipendono direttamente dalla capacità di rigenerazione di ogni Stato all’evento ordinatore che, per definizione, è un acceleratore di processi.
La Cina è stato il paese d’origine del Covid, ma anche il primo a riprendersi e a gestirlo in termini di opportunità, grazie ad una iper-efficiente struttura d’intelligence economica. Reinterpretando la tradizionale strategia del win win, il dragone asiatico si è immediatamente adoperato per sviare l’attenzione internazionale dalle sue eventuali responsabilità sulla diffusione dell’infezione, puntando tutto nella pronta e organizzata capacità di risposta e proponendosi alla stordita comunità internazionale come leader empatico nel sostegno sanitario e nella condivisione delle best practices di contrasto.
Il tutto in un clima di totale smarrimento legato al sostanziale vuoto di leadership lasciato dagli USA. L’amministrazione Trump e il National Economic Concil (NEC) hanno avuto una ingiustificata difficoltà a decifrare la minaccia e a collocarla nella giusta dimensione geoeconomica, mentre tutto l’apparato cinese si è posto, immediatamente, in prima linea negli aiuti e nei progetti di cooperazione in molti paesi colpiti dal virus, producendo un mix perfetto di soft power, comunicazione e nuova influenza.
Aid-trap diplomacy e standing internazionale
Le caratteristiche di asimmetricità e di globalità del fenomeno pandemico espongono i paesi fragili o weak state ad una ulteriore condizione di soggezione geopolitica, specie quando trattasi di Stati già attenzionati perché ricchi delle nuove risorse strategiche – terre rare – rare-earth elements –, assolutamente centrali nella transizione al nuovo modello di sviluppo sostenibile, nell’innovazione tecnologica e scientifica. Tecnica di soggezione che si muove nella medesima logica della “Debt-trap diplomacy” – ovvero finanziare progetti infrastrutturali con il precipuo fine di aumentare la propria influenza sullo Stato – , già allertata in passato da alcuni analisti in relazione alla Belt and Road Initiative, questa volta nella versione ancora più sottile della “Aid-trap diplomacy” (Diplomazia della trappola degli aiuti).
La diplomazia degli aiuti ha storicamente qualificato lo status di potenza degli Stati, determinando le reali posizioni di potenza e di privilegio nelle relazioni economiche bilaterali ed internazionali. Sia gli aiuti propriamente legati all’emergenza sanitaria (dispositivi di protezione, attrezzature mediche e logistiche, presidi e farmaci d’intervento) e soprattutto la somministrazione dei vaccini anti-covid, concorrerà in maniera incidente nella nuova distribuzione di potere globale tra le maggiori e nuove potenze.
Sulla scia dell’appello lanciato dalle organizzazioni della People’s Vaccine Alliance sulla necessità etica del vaccino come “bene pubblico globale”, secondo uno studio pubblicato su Nature con dati pubblici compilati sia dalla società d’analisi britannica Airfiniy e sia dal Duke Global Health Innovation Center di Durham (North Carolina), la Cina ha immediatamente provveduto a firmare accordi per circa 400 milioni di dosi di vaccino a prezzi bassissimi. Tre aziende cinesi di punta – China National Pharmaceutical Group (Sinopharm), Sinovac Biotech e CanSino Biologics – hanno concluso strategici accordi in America Latina, Medio Oriente e Asia, affiancando alla promessa diplomatica di Pechino di adesione al concetto di “vaccino bene pubblico globale”, il sostegno tecnologico sulle strumentazioni medicali, rafforzando la reputazione su tutta la filiera farmaceutica cinese.
Una partita di giro vantaggiosissima in termini di indotto ed avanzamento di potere, perfettamente integrata nello schema di confronto ibrido tra gli Stati. Tale strategia si può strutturare solo se adeguatamente preparati e l’intelligence economica cinese ha costruito nel tempo capacità, cura e metodologia d’assoluto riscontro.
La superiorità cinese in un conflitto a schema aperto
L’interpretazione del conflitto in uno schema sempre aperto fa del tempo un alleato duttile e utile; è sempre un’arma e mai un’ossessione. Al contrario le società occidentali hanno congiunto, sempre con maggiore drammaticità, il tempo al risultato, il tempo al confronto e al consenso, espungendolo come logorio. Il conflitto, pertanto è diventato hidden, invisibile o ultraveloce con le c.d. “guerre lampo” con il compito di sfoggiare design tecnologico e ottimizzare il risultato.
Uno schema diverso – aperto e complesso – risulta difficilmente sopportabile o possibile da accettare per le società occidentali: dove il “possibile” è dato dalla riluttanza sociale ad ammettere la perdita di vite umane, e nella reticenza ad abbandonare il proprio stile di vita dell’opulenza.
La guerra è intrinsecamente un’azione sociale che si adatta ai tempi; se l’operazione americana in Iraq nel 1991 è stata l’occasione per ostentare la superpotenza militare e civile degli Stati Uniti, l’improvviso abbandono della Somalia da parte delle truppe statunitensi dopo la perdita di diciotto militari nell’ottobre 1993 (Operazione Black Hawk Down) segna la nemesi di un nuovo corso storico che, con un’espressione eloquente Edward N. Luttwak, ha definito “era post-eroica”. La ricerca della “guerra facile”, pedagogica, rappresenta spesso la consapevolezza di vulnerabilità interne: la scarsa tollerabilità ad un conflitto armato tradizionale o, anche la sostenibilità a soluzioni di bassa intensità che potrebbero esporre a ritorsioni e rappresaglie di matrice terroristica. Non a caso la baldanza della full spectrum dominance si basa sulla creazione di tecniche militari risk-free con dispositivi di arma capaci di garantire un combattimento a distanza di sicurezza, in modo tale da eliminare tutti gli effetti collaterali di un conflitto tradizionale.
Lo schema di conflitto attraversato dalla pandemia mondiale vive in tutt’altro ambiente, incomprensibile alla logica della RMA (revolution in military affairs), ma assolutamente, più confacente per chi sa e conosce i metodi del “attraversare il mare per ingannare il celo”; il primo degli stratagemmi codificati. Il latente psicodramma con cui l’occidente ha vissuto le misure di contenimento al virus, la frustrazione verso le limitazioni e l’ansia da lockdown, hanno continuato a minare il rapporto fiduciario con le istituzioni già compromesso da un sentimento diffuso anti-establishment e di pessimismo. Già dal 2005, Carlo Pelanda e Paolo Savona trattavano della fiducia come di qualcosa a rischio. La fiducia consiste “nell’idea che il domani potrà essere migliore dell’oggi, in un sistema globale che ha un crescente bisogno di ottimismo per generare e diffondere ricchezza”. La crisi della fiducia in un avvenire migliore – avvertono i due autori – è la vera emergenza del tempo presente.
Il Tao della strategia
Per converso, tutto l’impianto educativo e culturale cinese esclude la diffidenza e il dubbio sul divenire, muovendosi con un approccio “superiore”; Pechino ritiene di essere “culturalmente superiore” all’occidente e ai suoi leader e questa impostazione viene ripetuta a cascata fin dai primi programmi educativi. Al vertice del prisma d’azione cinese vi è la trilogia: popolo, territorio e destino che muove sia la politica estera che quella interna, fondendosi in un solo principio che, parafrasando Fritjof Capra, potremmo definire il “tao della strategia”.
Secondo il tao della strategia, Pechino eviterà, fin che sia possibile, una guerra convenzionale perché la ritiene distruttiva – qualunque ne sarà il risultato – della sua stessa identità e del ruolo di “Impero di Mezzo”, mentre, saranno sempre più funzionali alle sue caratteristiche le nuove forme di guerre non convenzionali, fatte d’intelligence economica, cognitiva, tecnologia artificiale e minacce nascoste. La pandemica da Covid-19 è perfettamente dentro questo schema aperto di conflitto ibrido – che diventerà una caratteristica preminente – nel nuovo confronto internazionale.