L’American Society of Civil Engineers (ASCE) nel suo assessment globale sullo stato delle infrastrutture degli Stati Uniti ha delineato un quadro critico della situazione del paese. Ciò che emerge è un sistema ormai datato, inadeguato a rispondere alla mole di flussi odierni e che vede cedere il passo ai nuovi competitor economici, su tutti la Cina.
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Con la crisi economica, figlia di quella pandemica, la presidenza Biden ha avviato un importante dibattito attorno al tema dello sviluppo e ammodernamento del sistema infrastrutturale del Paese che vede le principali criticità nei settori del trasporto e marittimo. In virtù di quanto emerso nel corso degli ultimi anni è stato sviluppato un piano da 20 miliardi di dollari per la riorganizzazione delle infrastrutture statunitensi.
L’intera economia di Washington si affida ad una rete capillare di strade, ponti, ferrovie, porti ma anche reti di approvvigionamento energetico e informatiche ormai vecchie di decenni che, tra ritardi nell’ammodernamento e i maggiori costi di manutenzione, hanno reso sempre meno efficienti in termini sia economici che prestazionali. L’ASCE ha messo in guardia riguardo allo stato strutturale di molti dei ponti presenti nel paese e dei rischi per la salute pubblica causati da sistemi idrici e fognari ormai antiquati.
In risposta a questa crisi si sono create due visioni opposte relative ai possibili metodi di risoluzione: da un lato la spinta verso un modello più “privatizzato” con il coinvolgimento di aziende e compagnie di settore. Questa visione sostiene il fatto che il loro intervento non solo sarebbe più efficiente ma anche con un miglior rapporto costi-benefici. Dal lato opposto vi è la spinta verso un pesante intervento federale più focalizzato al raggiungimento degli obiettivi di crescita di cui il paese necessita. Il piano da 2mila miliardi di dollari del presidente Biden, se approvato, risulterebbe in tal modo il più grande investimento nel settore da diversi decenni.
La centralità delle infrastrutture nel sistema paese di Washington
Stando ai dati riportati da Henry Petroski nel suo volume “The Road Taken: The History and Future of America’s Infrastructure”, si evince come, nel 2016, i ritardi causati dalla congestione del traffico comportassero danni per 120 miliardi di dollari l’anno. Tra i principali colli di bottiglia figurano gli aeroporti; nonostante il settore conti quasi un milione e mezzo di lavoratori e permetta l’afflusso di ingenti capitali grazie al turismo internazionale i continui ritardi e cancellazioni uniti al pessimo stato di alcune infrastrutture aeroportuali comportano danni per 35 milioni di dollari l’anno.
La soluzione che sembra convincere tutte le parti è un misto tra investimenti in nuove infrastrutture e un vasto piano di riqualificazione e manutenzione di quelle esistenti. Grazie ad una maggiore efficienza e affidabilità i costi di gestione si vedranno progressivamente ridotti aumentando di conseguenza la competitività del paese e creando nuovi posti di lavoro. Da notare come esista in questo contesto una concordanza tra quanto sostenuto negli USA e quanto riportato nel PNRR italiano in materia di infrastrutture, a dimostrazione di come la competitività internazionale e nazionale di un paese passi inevitabilmente per lo sviluppo di questo settore.
Il primo punto da cui è necessario partire per analizzare lo stato attuale delle infrastrutture è il fatto che la gran parte di queste è stata progettata originariamente negli anni ’60, quando la popolazione degli Stati Uniti era la metà di quella odierna. Come si può comprendere molte di queste sono giunte a fine ciclo vitale mentre altre hanno visto pericolosamente allungato il proprio periodo di servizio con tutti i rischi del caso.
Nel suo report del 2021 l’ACSE ha stimato l’esistenza di un “infrastructure investment gap” di oltre 2.5 miliardi di dollari nella decade appena passata che potrebbero diventare 10 entro il 2030. Guardando alle proiezioni del Global Infrastructure Hub i settori più colpiti dai sotto-investimenti sono principalmente la rete stradale (con un gap che si aggira attorno al 100% della spesa prevista) seguita dalla rete portuale e ferroviaria (con percentuali nettamente inferiori).
I dati inerenti alla rete stradale trovano conferma anche dagli studi effettuati dallo U.S. Government Accountability Office (GAO) che stima a rischio circa un ponte su quattro nel paese (comprensivo di strutture pericolanti ed obsolete). Anche il settore aeroportuale, seppur con un divario molto più ristretto, presenta delle criticità di tipo strutturale legate alla saturazione delle infrastrutture con una media del 20% dei voli in ritardo nel 2019 ed attualmente attestata quasi sul 16% (tenendo comunque conto della riduzione della mole di traffico aereo di circa un milione di voli).
Le ferrovie attualmente muovono circa il 40% delle merci che passano nel paese con una larga porzione in mano a compagnie private. La situazione ha visto un sempre minore spazio dedicato al trasporto passeggeri – trend di lungo periodo che risente della grandezza geografica e dell’uso diffuso del trasporto aereo – con la conseguente necessità di un vasto intervento di ammodernamento delle tratte intercity.
I porti e le rotte fluviali rappresentano un quarto del sistema di trasporti nazionali andando a rifornire aree densamente popolate e buona parte dei principali centri dell’Est Coast e del Sud. In questo caso il problema è legato ai ritardi che si accumulano per un gap non solo legato agli investimenti ma, in generale, alla ricettività delle infrastrutture. Si tratta di un problema analogo a quello che sta attraversando l’intero sistema logistico marittimo di tutto il globo con un gap sempre maggiore tra mole del traffico via acqua e capacità di adeguamento delle infrastrutture.
Il confronto con i competitor internazionali
Gli Stati Uniti si presentano come un attore che è rimasto indietro rispetto agli altri, soprattutto se paragonati con i paesi più sviluppati. Già prima della crisi pandemica l’indice qualitativo delle loro infrastrutture li collocava al tredicesimo posto – dal quinto occupato nel 2002 – proprio a causa della “recessione” dell’efficienza nel settore ferroviario, aeroportuale e portuale. Attualmente, per efficienza, il paese si trova dietro agli Emirati Arabi Uniti.
Guardando ai membri del G20 si nota come la differenza tra investimenti effettuati e quelli auspicabili in termini di percentuale del PIL degli Stati Uniti sia pari a quella dell’Italia, con una performance migliore solo dei paesi più arretrati del gruppo come quelli latino-americani, Turchia, Sud Africa e Russia. Di conseguenza l’efficienza delle infrastrutture statunitensi è mediamente più bassa rispetto a quella dei competitor e di molti degli alleati di Washington con conseguenze negative per gli affari, i lavoratori e gli utenti finali dei servizi. A parità di lunghezza il tempo di percorrenza di una tratta ferroviaria negli Stati Uniti è di circa il doppio rispetto a quanto impiegato in Europa, riprova del fatto che, nonostante i minori investimenti in termini di valore assoluto, gli stati europei hanno un rapporto costi-efficienza nettamente maggiore. Altro caso di assoluto rilievo in cui gli Stati Uniti “perdono” la corsa a favore dell’Europa riguarda le infrastrutture legate alla rete internet; in media un cittadino statunitense paga di più rispetto ad un cittadino europeo per ottenere un servizio più lento.
Il problema degli investimenti non è relativo solo al gap sopra citato ma anche in termini assoluti che mostrano come Washington investa una percentuale minore del proprio PIL rispetto a molti degli altri paesi industrializzati – rimanendo appaiati di nuovo all’Italia.
Il dibattito sugli investimenti e la proposta di Biden
I dati emersi negli scorsi anni hanno alimentato un acceso dibattito attorno al tema degli investimenti nel settore infrastrutturale che, a prescindere da quale visione si possa sposare, richiede un budget maggiore rispetto a quello odierno.
Se su questo punto di fatto esiste una certa concordanza le posizioni si polarizzano sul come aumentare i fondi. Da un lato le posizioni più vicine ai Democratici sostengono un intervento federale diretto mentre dall’altro i Repubblicani spingono per un maggiore coinvolgimento del settore privato in termini di capitali e sviluppo delle infrastrutture. Entrambe le posizioni lasciano alcune perplessità dal punto di vista economico. L’intervento federale comporterebbe una possibile maggiorazione della pressione fiscale sui cittadini o l’istituzione di un numero maggiore di tratte di percorrenza soggette a pagamento, fattore che potrebbe alienare il favore degli elettori nei confronti delle amministrazioni locali e nazionali, peraltro in un periodo storico non facile per la politica interna statunitense. Al contempo una maggiore “localizzazione” della gestione delle infrastrutture potrebbe accentuare il gap presente tra i vari stati con la creazione di una rete a macchia di leopardo con grandi differenze a seconda dell’area geografica e con tutte le conseguenze negative del caso. Nel caso di un maggior coinvolgimento del settore privato, il primo problema è legato a tutte quelle infrastrutture che non sono sufficientemente redditizie ma al contempo necessarie a mantenere una rete sufficientemente omogenea lungo tutta l’estensione del paese, di nuovo, con il rischio di un network a macchia di leopardo.
Già con l’amministrazione Trump erano stati messi in cantiere alcuni piani di sviluppo, tra cui uno da 2mila miliardi di dollari incluso nel Covid-19 recovery package. Con il cambio del testimone il nuovo presidente Biden ha ripreso il piano del suo predecessore sviluppandolo ulteriormente. Circa 600 miliardi di dollari sono stati destinati al miglioramento della rete delle infrastrutture fisiche come strade, ponti, ferrovie, porti e aeroporti. Con il nuovo corso politico particola attenzione è data anche alle tematiche ambientali che hanno influito sulla scelta di investire pesantemente nella modernizzazione della rete energetica ed elettrica. Il piano sta trovando forti resistenze per il fatto che prevede un aumento della tassazione dei cittadini, strumento di forte pressione politica verso l’esecutivo da parte dello schieramento repubblicano e di tutte le frange scontente della politica e della società civile statunitense.
Come molte volte è stato detto negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono ad un bivio. Washington sta concentrando gran parte dei suoi sforzi nel contenimento del suo principale competitor, la Cina. In un confronto quasi totalizzante che investe la difesa, l’economia e – in misura minore – i modi di vivere, un paese che per quasi tre decadi si è posto come guida dell’ordine internazionale sta perdendo il confronto sul piano infrastrutturale interno. Mentre Pechino ha investito pesantemente sullo sviluppo di una rete ferroviaria ad alta velocità e sul più grande e ricettivo sistema portuale del mondo, Washington viaggia alla metà di un’Europa tanto divisa politicamente quando unita infrastrutturalmente – anche se con le sue problematiche. Come si evince dalle decine di piani di ripresa post-pandemici il futuro a medio e lungo termine di un paese passa anche per un network infrastrutturale che lo possa rendere competitivo tanto sul fronte interno quanto su quello internazionale.