Il 1° luglio 2021 si è celebrato il centenario del Partito Comunista Cinese. Dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 1949 le relazioni tra paesi dell’Unione Europea (UE) (e dell’allora Comunità Economica Europea) e Cina sono passate da una prima fase di distacco a una di normalizzazione dei rapporti, un processo accelerato durante gli ultimi anni di vita di Mao Zedong e facilitato dal riavvicinamento voluto da quest’ultimo e dall’allora presidente USA Richard Nixon. Che conseguenze ha avuto questo processo sui rapporti UE-Cina nel mondo delle nuove tecnologie?
A voler essere precisi, non è stato un processo di riavvicinamento lineare. Sicuramente il riconoscimento della RPC da parte degli USA ha consolidato i rapporti diplomatici tra Cina e Occidente, con l’Italia che riallacciò i rapporti diplomatici con la RPC già nel 1970 – anticipando l’ingresso formale di questa al posto di Taiwan nel seggio permanente cinese del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Tuttavia, i fatti di Piazza Tiananmen del 1989 portarono a un nuovo raffreddamento dei rapporti diplomatici tra i paesi (CEE/UE) e gli USA, da una parte, e la Cina, dall’altra – accompagnati da sanzioni ed un embargo (ancora in atto) sul commercio d’armi dall’UE alla Cina. I rapporti tra queste due potenze si sono poi ridistesi, al punto che nel 2003, complice la politica di distensione avviata dall’amministrazione Clinton negli anni Novanta, Cina e UE si riconobbero come partner strategici. L’ultimo colpo di scena tra i due risale al 2019, quando l’UE dichiara la Cina un ‘rivale sistemico’. Questo è avvenuto in un momento di forte tensione tra USA e Cina nella competizione commerciale e tecnologica tuttora in corso, culminata nel dicembre 2018 con l’arresto della CFO di Huawei, Meng Wanzhou, in Canada e il seguente arresto di cittadini canadesi in Cina, comprese ex figure diplomatiche.
Una cosa è evidente: il posizionamento dell’UE e dei suoi paesi membri nei confronti della Cina è fortemente legato al posizionamento statunitense nei confronti di Pechino. Tuttavia, sarebbe semplicistico appiattire la posizione europea su quella di Washington. Innanzitutto, l’UE ha sempre tentato di mantenere un approccio più morbido nei confronti di Pechino negli ultimi anni. La finalizzazione dei principi del Comprehensive Agreement on Investments (CAI) nel dicembre 2020, tra le elezioni presidenziali USA vinte da Biden e l’insediamento formale di quest’ultimo, può sicuramente essere letta in questo modo. Anche se, ad oggi, il CAI parrebbe giunto a un punto morto, soprattutto a seguito del blocco della ratifica da parte del Parlamento Europeo motivato da ragioni legate al rispetto dei diritti umani in Cina. In secondo luogo, la natura ibrida sovranazionale/intergovernativa dell’UE fa sì che molti aspetti economico-politici chiave restino nelle mani degli stati membri, generando una politica estera incoerente nei confronti della Cina. Da questo punto di vista, sono evidenti le eterogeneità nelle scelte politiche attuate dai vari paesi membri sull’esclusione (o meno) di Huawei dalle infrastrutture 5G nazionali.
Quali conseguenze per l’industria digitale?
Sicuramente il trasferimento tecnologico tra UE e Cina è aumentato nel corso degli anni. Se in passato era raro che manifatture di dispositivi e reti cinesi, quali Huawei, fossero presenti nel mercato europeo, oggi è cosa comune per i consumatori europei acquistare prodotti Huawei o Lenovo. Ad oggi, la presenza di questi attori è estremamente preponderante anche nel mercato cinese, che invece vent’anni fa era fortemente dipendente dalle importazioni di beni e servizi da Occidente. Tuttavia, già nel primo decennio degli anni 2000 il governo cinese ha saputo potenziare la collaborazione fra aziende cinesi e occidentali nell’elaborazione del 3G, permettendo alle aziende cinesi di acquisire le conoscenze e la capacità per costruire una catena del valore per le tecnologie successive.
Tuttavia, il mercato cinese è rimasto fortemente protezionistico e negli ultimi anni l’interventismo statale è cresciuto da ambo gli schieramenti. Se con la Cybersecurity Law la Cina ha messo in atto una prima misura di localizzazione dei dati sensibili, con la European Cloud Initiative si percorrono obiettivi in parte simili. Vero, il CAI ha promosso alcuni passi avanti nella liberalizzazione del mercato dei servizi cloud in Cina. Tuttavia, l’accordo ad oggi è fermo. A questo si aggiunge la politica non coordinata di esclusione o accettazione di manifatture cinesi nelle reti nazionali 5G. Trattandosi di una questione legata all’influsso di investimenti diretti esteri (IDE), non cade sotto la competenza esclusiva della Commissione, lasciando spazio a 27 diverse scelte politiche. Recenti rapporti mostrano che lo scorso anno le scelte politiche riguardo alla possibilità di Huawei di partecipare alla costruzione dell’infrastruttura 5G non sembrano seguire un trend particolare. Se l’Ungheria ha prevedibilmente scelto di non imporre restrizioni, data la forte impostazione filocinese del suo governo, sorprende invece che in Grecia siano subentrate restrizioni di fatto per scelta del settore privato. Neanche Svezia e Finlandia, pur essendo i paesi di origine di due giganti del settore quali rispettivamente Ericsson e Nokia, sembrano condurre scelte coordinate, con la Finlandia che si presenta più aperta a Huawei rispetto alla Svezia.
Quindi?
Per concludere, i rapporti tra UE e Cina nell’industria digitale vanno letti secondo quattro fattori: la dimensione nazionale legata alle scelte degli stati membri dell’UE, la dimensione europea legata alle scelte della Commissione, la dimensione atlantica legata alle scelte dell’amministrazione USA, e infine la dimensione orientale legata al posizionamento internazionale di Pechino e alla posizione di forza o meno dell’industria cinese.
Questi quattro vettori aiutano a comprendere l’evoluzione non lineare dei rapporti UE-Cina in un settore così strategico come l’industria digitale, che ad oggi vivono una fase di raffreddamento per via del crescente confronto geopolitico tra Cina e Occidente.