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Crisi in Ucraina: le incertezze italiane e la necessità di un ritorno al realismo

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Le reazioni ai vertici italiani dalle parti in causa, prima dal ministro degli Esteri russo Lavrov e poi dal presidente ucraino Zelensky, sono il risultato più evidente dei tentennamenti italiani e delle difficoltà nel prendere una chiara posizione, che deriva dagli interessi in campo per il nostro paese, di natura prevalentemente energetica, e dalla necessità di ribadire la contrarietà a qualsiasi aggressione militare, con la conseguenza di una minata credibilità relativa alle questioni di principio e di libertà, più volte sollevate in patria negli ultimi mesi, e sull’interesse nazionale in tema energetico e commerciale, ponendo serie questioni diplomatiche ed economiche per il nostro paese.

Notavamo già in un altro articolo quanto non solo l’Italia, ma l’intero Occidente, siano vittime di una retorica spesso vuota, frutto di indecisioni e di interessi particolari: ciò è particolarmente evidente nel caso europeo, con la Francia di Macron che ha avviato dialoghi bilaterali separatamente a quelli della Germania di Scholz, che ha investito moltissimo nel gasdotto Nord Stream 2, che oggi rimane chiuso e che sarebbe potenzialmente dirimente per l’intera economia europea. E poi con l’Italia, che per voce del premier Draghi ha dapprima chiesto sanzioni e poi chiarito che queste non avrebbero dovuto riguardare il settore energetico, e il gas in particolare, per il quale dipendiamo per il 90% dalle forniture straniere e per circa il 46% dalla Federazione russa.

Nelle scorse settimane, pur nei numerosi errori occidentali, mentre gli altri Stati europei si mostravano particolarmente attivi nei dialoghi con Mosca, il premier italiano è rimasto a guardare in attesa dell’evolversi degli eventi, senza prendere – per alcuni versi comprensibilmente – una chiara posizione, lasciando il campo al Ministro degli Esteri.

Lo stallo italiano, derivante dalle questioni di principio da difendere in apparenza ma dovendo fare i conti con l’interesse nazionale e i legami energetici con la Russia, ha portato a un’indecisione che ha avuto effetti diplomaticamente drammatici. Al silenzio del primo ministro ha fatto seguito le dichiarazioni di Di Maio, che ha ricevuto la netta risposta dal suo omologo Lavrov, il quale solo due giorni fa ci ha tenuto a ribadire che il titolare della Farnesina “ha una strana idea di diplomazia”, sostenendo che questa “è stata inventata solo per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione” e “non per viaggi vuoti in giro per i Paesi ad assaggiare piatti esotici ai ricevimenti di gala”. Un attacco frontale al Ministro italiano, che – occorre sottolinearlo – non è l’unico ad aver ricevuto parole dure.

Solo ieri, infatti, dichiarazioni molto pesanti sono giunte anche da parte ucraina. Il presidente Zelensky, mentre nelle stesse ore esprimeva gratitudine nei confronti degli USA per il supporto ricevuto, mentre ringraziava il popolo georgiano sceso in piazza a sostenere l’Ucraina e ai paesi membri del Consiglio dell’Onu che si erano schierati contro l’intervento russo, in un tweet della tarda mattinata scriveva sardonicamente che con cittadini ucraini che morivano e combattevano in guerra, avrebbe cercato di spostare il programma di guerra per parlare con Draghi.

Sebbene alcuni sostengano che nel caso di Lavrov si sia trattato di un’uscita “poco istituzionale” e in quello di Zelensky di un mero malinteso, resta il fatto che in diplomazia la forma corrisponde spesso alla sostanza. Nell’arco di poche ore, il governo italiano ha ricevuto due durissime dichiarazioni da entrambi i fronti in conflitto: un epilogo per alcuni versi annunciato, viste le oscillanti andature dei giorni scorsi, le ambiguità e le conseguenti incapacità di prendere una chiara posizione.

A porre solo un parziale riparo all’attacco del presidente ucraino di ieri un tweet delle ultime ore, in cui riferisce di una chiamata con Draghi, chiedendo contestualmente l’ingresso del suo paese nel consesso europeo. Una richiesta che suona come un appello all’Unione Europea che però vuole mantenersi ben distante dal pantano di una guerra potenzialmente di scala globale e che minerebbe gli interessi sostanziali di molti degli Stati membri.

Nonostante l’ultima affermazione di Zelensky, a ben vedere resta l’enorme questione di credibilità del governo italiano su questa crisi, che sembra smentire l’aura descritta per mesi da molti media italiani relativa alla caratura globale del capo del governo e dell’intero esecutivo.

Ai repentini cambi di rotta sulle questioni energetiche (ieri nell’informativa alla Camera Draghi ha parlato di un possibile “ritorno al carbone”) e su un tema centrale come quello del “green” e della transizione energetica, su cui lo stesso premier ha basato buona parte della sua credibilità politica attraverso il PNRR (che su quei temi è tutto incentrato) e fondando un ministero dedicato a questo, si aggiungono i recenti dialoghi internazionali che sembrano intrappolare il nostro paese in una preoccupante secca diplomatica.

I tentennamenti iniziali hanno prodotto nell’immediato reazioni che ci pongono in un guado energetico e di relazioni internazionali, mentre parallelamente si sgretola la patina di retorica su cui l’intero PNRR è fondato: un Piano che si proiettava nel lungo periodo ma che non ha tenuto conto dello status quo in materia energetica, che non ha evidentemente considerato opportunamente le urgenti questioni geopolitiche che pure da anni coinvolgono l’Ucraina mostrando i chiari segni di un possibile scivolamento verso l’aperto conflitto di più ampia scala.

La crisi di oggi ha origine almeno nel 2013 e da Euromaidan: non aver tenuto conto delle conseguenze di quanto lì stava avvenendo da anni è un errore strategico e tattico di primaria importanza. Tanto che l’emergenza energetica evocata ieri da Draghi ricade oggi per le imprese e i cittadini italiani in tutta la sua impellenza. Su questo fronte, Draghi condivide la responsabilità attuale di un eccesso di retorica e di una visione improntata solo sul lungo periodo con chi l’ha preceduto a Palazzo Chigi, sia sulle questioni energetiche sia sulle relazioni con la Russia in quest’ambito (si pensi all’abbandono del progetto South Stream). Un cambio di rotta repentino, scevro da retoriche utopistiche, capace di guardare anzitutto agli interessi del paese nell’immediato e alle prospettive di medio periodo è quanto mai necessario e ancora possibile. Per farlo, è opportuno un bagno di sano realismo, che troppo è mancato nei giorni e nei mesi passati e sui cui occorrerebbe rifondare la nostra politica interna, estera nonché quella energetica.

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