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Incognita Mali: le ombre di una difficile transizione sulla lotta al terrorismo nel Sahel

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A poco più di due settimane dalla sua deposizione, il 5 settembre l’ex presidente Ibrahim Boubacar Keïta (colloquialmente conosciuto con l’acronimo IBK) ha lasciato il Mali, stando alle fonti ufficiali per sottoporsi a cure mediche negli Emirati Arabi Uniti. Nella stessa giornata, nella regione di Tessalit due militari francesi impegnati nella missione Barkhane sono rimasti uccisi dall’esplosione di un ordigno. Due eventi che raccontano e ricordano l’incertezza che da anni attanaglia la vita politica del Paese dell’Africa occidentale porta del deserto.

Il 18 agosto l’ammutinamento dei militari del campo di Kati ha portato all’arresto di Keïta, del primo ministro Boubou Cisse e di altre personalità vicine al presidente. Il colpo di stato si colloca al termine di un’estate di intense proteste contro IBK, ed è stato salutato da manifestazioni di soddisfazione nella capitale. Le dimissioni del presidente, arrivate poche ore dopo l’arresto, e la presa di controllo da parte della giunta militare autoproclamatasi Comité national pour le salut du peuple (CNSP) sono state invece immediatamente condannate dall’Unione Africana e dai Paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che hanno sospeso il Mali dai rispettivi organi richiedendo inizialmente l’immediato reinsediamento di Keïta. Esclusa ormai tale possibilità, i leader della regione premono ora affinché la giunta militare voglia al più presto garantire il ritorno del potere alle autorità civili.

Sebbene i militari della giunta abbiano espresso parole rassicuranti nei confronti delle numerose forze armate straniere – Francesi e Stati del gruppo G5 Sahel in primis – e della missione MINUSMA presenti sul territorio, il timore dei Paesi del blocco dell’ECOWAS e più in generale della comunità internazionale è che l’instabile fase politica possa aggravare la situazione di un Paese già profondamente colpito dall’ultima guerra civile, con buona parte del territorio di fatto ancora sotto l’influenza di soggetti diversi dal governo centrale.

Il rischio è che si ripeta quanto accaduto in passato. Nel 2012 sempre nella base militare di Kati ebbe inizio l’ammutinamento che provocò le dimissioni del governo di Amadou Toumani Touré. L’agitazione avveniva pochi mesi dopo l’inizio di una nuova rivolta, la quarta dalla fine del dominio coloniale francese, per opera dei Tuareg, costituenti l’etnia maggioritaria nel nord del Paese. Ne seguì un periodo di grave disordine che fu sfruttato dai gruppi jihadisti per assumere il controllo dell’insurrezione dell’Azawad – così erano denominati le regioni settentrionali di cui i Tuareg rivendicavano l’indipendenza – e guadagnare territorio. Solo l’intervento della missione francese Serval, poi sostituita l’anno successivo dall’operazione Barkhane, poté porre freno all’avanzata ribelle. Tuttavia, né la presenza militare internazionale né l’insediamento di un nuovo governo presieduto proprio da IBK sono bastate a ripristinare integralmente la sovranità e la legittimazione di Bamako sull’intero territorio nazionale. Al contrario, l’inadeguata risposta alla minaccia jihadista e l’inefficace implementazione dell’accordo di pace raggiunto nel 2015 costituiscono alcune delle colpe più gravi tra quelle imputate a Keïta.

Il collasso dei fragili equilibri che hanno garantito finora il governo, seppur stanco, da parte di una classe politica ritenuta gerontocratica e corrotta e la mancata rapida sostituzione di nuove autorità in grado di gestire la transizione, prima, e guidare saldamente il Paese, poi, potrebbero secondo gli osservatori generare un vuoto molto pericoloso non solo per il Mali ma più in generale per la stabilità della regione e per l’azione internazionale di lotta al terrorismo di matrice islamista che proprio in territorio maliano si trova ad operare in modo determinante. Già prima del colpo di stato dello scorso agosto, il debole controllo di Bamako sulla periferia aveva permesso alla galassia jihadista insediatasi nel nord del Paese – i cui maggiori protagonisti sono ad oggi i gruppi Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin e lo Stato Islamico del Grande Sahara – di espandere la sua influenza verso le regioni centrali di Segou e Mopti. Lì hanno potuto insinuarsi in antiche rivalità intracomunitarie tra le popolazioni dogon e fulani motivate dalla competizione per l’accesso alle risorse naturali, in passato meglio governate dalle autorità statali. La violenza ha inoltre già attraversato i confini nazionali, contagiando Niger e Burkina Faso e causando finora già un milione e mezzo di sfollati.

La non scontata evoluzione della crisi maliana è dunque una pesante incognita per questa parte di Sahel. Nel 2012 ai militari subentrò, piuttosto rapidamente, l’allora presidente dell’Assemblea Nazionale, accompagnando il Paese a nuove elezioni. Il cammino verso la normalizzazione pare nel caso attuale essere più lungo ed incerto, essendo stato inoltre sciolto il corpo legislativo proprio in occasione delle dimissioni di Keita. Nel frattempo, il giorno precedente alla partenza di IBK è stato avviato un processo di dialogo che ha visto il coinvolgimento dei rappresentanti della giunta militare, dei partiti politici e della società civile. Non però quella del Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad, firmatario degli Accordi di Algeri del 2015.

Il risultato dei colloqui è stata la definizione di una roadmap per un periodo di transizione previsto di diciotto mesi, il cui termine iniziale decorrerà dall’investitura del presidente ad interim e terminerà con l’appuntamento elettorale. L’atto conclusivo ha demandato la nomina del nuovo capo di Stato ad una commissione scelta dalla giunta, non chiarendo se tale carica dovesse essere ricoperta da un civile o da un militare, con la seconda ipotesi fortemente auspicata dagli altri Stati del blocco regionale. Il documento è stato intanto rigettato dalla coalizione di opposizione M5-RFP (Mouvement du 5 Juin – Rassemblement des forces patriotiques), protagonista delle proteste della scorsa estate, che ha accusato il CNSP di aver elaborato un testo non corrispondente all’esito delle discussioni e denunciato la “volontà di accaparramento e di confisca del potere” dei militari. Come prevedibile, la linea definita dalla giunta nel corso dei tre giorni di colloqui non ha pienamente soddisfatto neanche l’ECOWAS che, favorevole ad elezioni più ravvicinate, aveva richiesto che la nomina dei nuovi vertici avvenisse entro il 15 settembre. Scaduto inutilmente tale termine, l’organismo regionale, in un incontro straordinario tenuto lo stesso giorno in Ghana,ha acconsentito ad un differimento a diciotto mesi, ma anche ribadito la necessità di nomina di un presidente e di un primo ministro civili, impegnandosi a revocare le sanzioni imposte solo una volta ottemperata tale richiesta. Le nomine attese sono infine giunte il 21 settembre, alla vigilia del 60° anniversario dell’indipendenza: a guidare la transizione sarà l’ex ministro della difesa Bah N’Daw, militare di carriera ora in pensione, affiancato dal giovane colonnello Assimi Goïta nel ruolo di vicepresidente. In attesa di vedere quali saranno le reazioni internazionali alla scelta compiuta, la designazione di Goïta, già figura chiave del CNSP, lascia ragionevolmente dubitare di quella che sarà l’autonoma capacità di manovra riservata al nuovo capo di Stato.

Martina Matarrelli,
Geopolitica.info

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