A pochi giorni dalle elezioni del Parlamento europeo, abbiamo intervistato Giuliano Pisapia, candidato capolista per la lista PD-Siamo Europei per il Nord-Ovest, che ci ha spiegato il suo punto di vista su alcune questioni chiave del dibattito italiano ed europeo.
Secondo le ultime proiezioni del Parlamento Europeo, popolari e socialisti sarebbero in calo mentre crescono i dati per l’ondata populista. Nel caso in cui non si riuscisse a creare una maggioranza unendo i seggi di popolari e socialisti, che risultato e che Unione europea si prospettano?
Le forze euroscettiche e anti-immigrazione non sfonderanno. La maggioranza dei cittadini europei non è sovranista ed è convinta che l’appartenenza all’Unione abbia giovato i propri Paesi. Questa convinzione si tradurrà in un voto che premierà una maggioranza europeista al Parlamento Europeo.
Mancando una maggioranza assoluta, al Parlamento Europeo le coalizioni di voto sono sempre a geometria variabile. Quello che conta, insomma, non è tanto il colore politico di una proposta ma i contenuti. Una differenza sostanziale rispetto al Parlamento italiano che rende l’Euro-camera un organo realmente deliberativo che di volta in volta considera i progetti legislativi nel merito a prescindere da chi li propone. A Bruxelles, la dinamica sminuente dei decreti di governo è materia sconosciuta. Parimenti, i parlamentari europei rifuggono dalla violenta dialettica governo-opposizione favorendo appunto i contenuti.
Insomma, in Europa si predilige il fare rispetto al dire. Non mi riferisco ai compromessi bassi, fatti in nome di poltrone e potere inteso come fine e non come mezzo, ma alle mediazioni alte, che riflettono la concretezza dell’agire.
Il PD, il PSE e Siamo Europei guarderanno ai Verdi, a Sinistra, e al gruppo che riunirà liberali e En Marche al centro. Mi aspetto che i liberali, dopo essersi appiattiti sulle posizioni ultra-liberiste delle delegazioni nordiche e orientali, si riposizioneranno verso la sinistra dell’emiciclo per effetto delle nuove leve francesi, più attente alle ingiustizie sociali e agli effetti collaterali della globalizzazione.
Il PSE nella prossima legislatura sarà determinante per l’approvazione di qualsiasi testo. Il PPE, infatti, non potrà più contare sulla stampella dei conservatori. I tory, a causa della Brexit, avranno un ruolo marginale lasciando il gruppo conservatore in balia dell’ultra-destra polacca, incompatibile con i valori di un centro-destra popolare ed europeista.
Noi ci presentiamo con un’identità e dei valori chiari. In parlamento cercheremo di trovare mediazioni alte, mantenendo il dialogo con le altre forze europeiste e progressiste. Sulla scia di quanto ho fatto a Milano quando ero Sindaco, son certo che troveremo di volta in volta le soluzioni comuni migliori per tutelare il bene comune, accelerare il processo di integrazione e rafforzare il principio di equità.
Mi riferisco in particolare a un’alleanza programmatica sui temi che stanno più a cuore agli elettori: lavoro, giustizia fiscale, sociale e ambientale, e integrazione. Elaborare una piattaforma su questi temi non svilisce i nostri principi ma al contrario li rinforza proiettandoli nella legislazione europea.
Spesso il principio di solidarietà a livello europeo viene considerato come un principio morale invece che come un principio vincolante inserito nei trattati. Perché secondo lei la solidarietà europea è venuta a mancare, si pensi al tema dell’immigrazione? E come questo principio che ha contraddistinto l’integrazione europea nella sua evoluzione storica può essere ristabilito?
Il principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità è sancito dall’Articolo 80 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE). Altrimenti conosciuto come il Trattato di Lisbona, esso costituisce la legge suprema dell’Ue. Mi risulta, quindi, impossibile non considerare uno dei suoi principi fondamentali, la solidarietà, come vincolante. Il problema è alla radice. La solidarietà prevale come principio morale non vincolante sui temi ove la competenza europea è limitata. L’Unione Europea perde quando prevalgono le egoistiche dinamiche inter-governative del Consiglio sull’interesse comune che anima trattati e Parlamento.
Nel lungo periodo, si dovrà quindi riconoscere nei fatti la legittimità di cui il Parlamento, in quanto organo rappresentativo di 500 milioni di cittadini europei, già oggi gode. Non solo, sarà fondamentale superare il principio di unanimità che vige per le decisioni nel Consiglio UE, ove i rappresentanti di un solo Stato, piccolo o grande che sia, possono bloccare riforme volute dal resto dei 27 Stati membri. Infine, la costituente europea.
Ma dobbiamo stare molto attenti. E’ giusto sognare ma per farlo dobbiamo tenere i piedi ben saldi a terra. Dobbiamo, quindi, sfruttare tutti gli spazi previsti dai trattati per procedere sulla strada dell’integrazione sapendo che una modifica degli stessi è un traguardo quanto mai ambizioso.
Per farlo, dobbiamo accettare l’idea di un’Europa a più velocità che esiste già nei fatti. I Paesi che vogliono maggiore integrazione devono poter procedere e, una volta fatto, potranno essere seguiti da tutti gli altri. Lo dimostra l’Euro, inizialmente introdotto in undici Paesi, oggi diventati diciotto e con la maggioranza degli altri con valute nazionali legate alla moneta comune per evitare inflazione ed eccessive fluttuazioni.
Da dove partire? Sicuramente dal superamento del Trattato di Dublino che tramite il principio del Paese di primo approdo affida la gestione esclusiva dei flussi migratori ai Paesi che confinano con il Mediteranno, confini non più nazionali ma europei.
Per riformare Dublino dovremo isolare gli egoismi nazionalisti degli alleati di Salvini, Kurz, Orban in primis. Deve essere chiaro che per godere dei benefici di una comunità, come i fondi europei che hanno promosso la rinascita dell’economia ungherese dopo la caduta del muro, se ne devono accettare i valori, la solidarietà in primis, e condividerne le difficoltà. Il testo votato a grande maggioranza dal Parlamento, nonostante il no di Lega e M5S è un’ottima base di partenza per rilanciare i negoziati con i Paesi membri.
I nazionalisti sono contrari perché privare l’Unione dei mezzi necessari a rispondere alle grandi crisi di questo secolo gli fa gioco. Addossare le colpe all’Europa, magari non partecipando nemmeno alle riunioni sul Trattato di Dublino, crea consenso elettorale a un costo altissimo: l’implosione interna del progetto comunitario.
Si è parlato spesso negli ultimi anni di deficit democratico a livello di istituzioni europee. Considerato il potere di Consiglio e Commissione, qual è il ruolo che secondo lei il Parlamento europeo, unica istituzione democraticamente eletta, dovrebbe svolgere?
E’ necessario aumentare le competenze del Parlamento europeo.
Il Parlamento è formalmente co-legislatore sin dal Trattato di Lisbona, eppure nei fatti molte competenze rimangono ben salde nelle mani del Consiglio, ove all’interesse comune europeo spesso prevalgono gli egoismi nazionali.
Ciò che ne consegue è l’immagine di un’Europa incapace di agire per il bene dei propri cittadini, quando di fatto sono i singoli Governi a tradire il processo di integrazione europea.
È ora di passare ai fatti: superiamo l’unanimità del Consiglio e rendiamo il Parlamento reale co-legislatore, riconoscendogli la legittimità che gli spetta.
Parlare di deficit democratico è tuttavia esagerato. E’ vero, il Parlamento è l’unica istituzione europea eletta direttamente ma la Commissione deve riceverne la fiducia, come accade in Italia per il governo, e in Consiglio siedono i governi democraticamente eletti negli Stati membri, responsabili di fronte ai loro parlamenti nazionali. E’ comodo parlare di deficit democratico per addossare ad altri le scelte che i governi nazionali prendono in sede europea. “E’ colpa dell’Europa” ci sentiamo sempre ripetere. Bene, è una notizia falsa: le decisioni prese in Europa, una volta approvate dal Parlamento Europeo, devono legalmente essere avvallate anche dagli stessi governi che ne scaricano la responsabilità su Bruxelles. Il deficit democratico risiede nelle pratiche che sviliscono i parlamenti nazionali che, a colpi di decreti legge, hanno visto il loro ruolo sminuito e nei governi che, completamente deresponsabilizzati, non riferiscono in aula sulle scelte assunte a Bruxelles.
Forse per la prima volta il dibattito interno italiano in vista delle elezioni vede confrontarsi due diverse visioni dell’Unione europea. Secondo la sua visione, tra Brexit, asse franco-tedesco, l’Europa francese di Macron e la Spagna socialista di Sanchez, che ruolo dovrebbe ritagliarsi l’Italia nelle dinamiche decisionali dell’UE?
Grazie agli attacchi ai nostri alleati storici, all’assenza completa alle riunioni in cui vengono prese decisioni vitali per il nostro Paese, e ai messaggi contradditori inviati ai nostri diplomatici dalle due diverse anime del governo, l’Italia è completamente assente in Europa. I nostri interessi non vengono tutelati. I negoziati sono sempre stati difficili ma l’Italia, al momento, è completamente esclusa dai giochi.
Per usare una similitudine calcistica, una volta confrontandoci con Germania, Francia, e Spagna giocavamo in serie A. Ora siamo rilegati alla lega amatori con compagni di squadra del calibro dell’Ungheria di Orban.
Il nostro primo obiettivo è quindi tornare a contare. Essere partecipi e uniti nel rappresentare l’interesse comune italiano perché, oggi, rimarremmo esclusi da un’Europa a più velocità che persegue il sogno federalista.
Non amo parlare di dinamiche intergovernative, come dell’asse franco-tedesco o del gruppo di Visegrad, perché credo che esse non considerino a sufficienza l’interesse comune. Una volta eletti i parlamentari europei non rappresentano solo gli elettori che li hanno votati, i lombardi, i piemontesi, gli italiani o gli iscritti a un particolare partito ma tutti i 500 milioni di cittadini europei.
Per concludere, il nostro obiettivo è tornare in Europa con fermezza, identità, e competenza laddove l’assenza del nostro Paese ha spinto gli altri a prendere decisioni a nome nostro. Insomma, dobbiamo tornare a contare.
Con la vittoria di Zingaretti il Partito Democratico sembra aver preso una “nuova” direzione. Quanto e in cosa questo PD sarà diverso dal PD renziano a livello europeo? E come il nuovo PD potrà contribuire al rafforzamento di un’Europa sociale che possa contrastare i populismi?
Bisogna guardare al presente e al futuro, non al passato. Nicola Zingaretti ha dimostrato di voler guidare un Partito Democratico più inclusivo, fortemente aperto al dialogo con la società civile e con personalità esterne al partito. Penso al medico di Lampedusa Pietro Bartolo o all’ex Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti.
Nel PD guidato da Zingaretti vedo la meravigliosa esperienza di Milano durante i miei anni da sindaco, anni in cui siamo riusciti a coinvolgere attivamente le diverse anime della città per costruire assieme una Milano più bella, più competitiva e più europea. In Europa vogliamo portare concretezza d’agire e quello spirito laborioso e unitario che, tramite mediazioni alte, è riuscito a rilanciare Milano.
Per rilanciare il ruolo italiano in Europa dovremo privilegiare il fare lavorando congiuntamente a tutti i livelli istituzionali mettendo da parte la dialettica politica e favorendo l’unità. Solo coordinandoci riusciremo insieme a raggiungere l’obiettivo che ci siamo preposti.