La Bosnia ed Erzegovina, protagonista di svariate evoluzioni nel ventesimo secolo, è passata da essere una delle sei repubbliche della Jugoslavia a Stato indipendente e teatro di uno dei conflitti civili più violenti dei nostri tempi. Già dalla morte di Tito però qualcosa era cambiato: la diversità etnica era divenuta un elemento politico e il nazionalismo si saldava con l’elemento religioso sviluppando una nuova identità basata su “una religione, una cultura, uno stato”. Negli anni Novanta, l’escalation di violenza tra le parti ha costretto la comunità internazionale e gli Stati Uniti a intervenire nei Balcani. La Bosnia era divenuta “a problem from hell”.
Il problema etnico in Bosnia
Negli anni antecedenti alla crisi politica ed economica che ha seguito la morte Tito, l’etnia non era percepita dal popolo né trattata dai vertici del partito comunista come elemento discriminante, per precisa volontà dell’allora presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia. Al contrario, i matrimoni misti erano abbastanza comuni. La guerra divenne inevitabile quando il principio di auto-determinazione dei popoli si contrappose al riconoscimento della Repubblica Jugoslava. La comunità musulmana mirava alla creazione di uno stato centralizzato e unificato, garante dell’integrità territoriale. Di contro, le componenti serbe e croate intendevano ripulire etnicamente lo stato per unirsi – rispettivamente – alla Serbia e alla Croazia, con buona pace della coesistenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, obiettivo enunciato in occasione delle elezioni tenutesi nel novembre 1990. Eppure non era sempre stato necessario parlare di coesistenza pacifica.
L’intervento
L’intervento della comunità internazionale era stato modulato nel tempo con l’obiettivo di assicurare dapprima la fornitura di aiuti umanitari a Sarajevo e altre destinazioni in Bosnia – in questa disposizione era compresa la costituzione di una zona di sicurezza su Sarajevo e l’aeroporto locale; erogare aiuti umanitari in tutto il Paese e creare le cosiddette safe areas a Sarajevo, Srebrenica, Tuzla, Zepa, Gorazde e Bihac.
Gli Stati Uniti, nelle prime fasi del conflitto, impiegarono strategie tipiche della Guerra Fredda come il containment cercando di circoscrivere il conflitto alla Bosnia. Secondo la National Security Strategy del 1995, questo non costituiva una minaccia per il Paese e dunque non giustificava l’intervento unilaterale degli Stati Uniti. Al contempo diveniva chiaro che né l’Europa né le Nazioni Unite avrebbero contribuito alla risoluzione del conflitto con le loro politiche sconnesse, mentre la violenza serba raggiungeva il suo apice. Il massacro di 7.079 bosniaci nell’area di Srebrenica ne rappresentò l’acme. Le Nazioni Unite avevano fallito e le safe areas erano divenute trappole poiché, non essendo state demilitarizzate, erano state considerate territori strategici creati per intaccare la contiguità del territorio serbo.
Com’è sempre stato per Washington, il concretizzarsi di un eventuale effetto domino dalle conseguenze altamente destabilizzanti per la regione costituiva un buon campanello d’allarme. Dunque, gli Stati Uniti intervennero nel conflitto per scongiurare la creazione di una zona etnicamente omogenea e islamica alle porte dell’Europa. Di concerto con la comunità internazionale, fu lanciata l’Operazione Deliberate Force, condotta dalle forze NATO. L’intervento, limitato all’uso del potere aereo e alla fornitura d’armi ai soldati bosniaci, costrinse in tre settimane i leaders serbi al tavolo dei negoziati.
Tuttavia, gli strumenti offerti devono sempre essere connessi all’obiettivo. Quindi, gli Stati Uniti volevano terminare un conflitto o pacificare la polveriera balcanica? Inizialmente l’obiettivo era stato limitato all’interruzione del conflitto. Ma nel tempo divenne chiaro che, per avere successo, la missione doveva espandere i suoi obiettivi e ridurre significativamente il rischio di una ripresa delle ostilità. Dunque il Paese doveva essere democratizzato e ciò sarebbe avvenuto tramite gli Accordi di Dayton, siglati il 14 dicembre 1995.
La Bosnia ed Erzegovina disegnata a Dayton
La firma degli Accordi di Dayton sancì un nuovo assetto istituzionale per la Bosnia-Erzegovina che da quel momento sarebbe stata composta – entro i confini esistenti – da due entità, la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska) e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Essendo entità semiautonome, queste possono intrattenere relazioni parallele con gli stati vicini, entrambe hanno un parlamento e un governo con poteri estensivi, benché certe aree rimangano competenza del governo centrale di Sarajevo come la politica estera, il commercio con l’estero, la politica monetaria e simili. In Bosnia, ora repubblica parlamentare federale, il potere esecutivo è esercitato dal Consiglio dei Ministri composto da tre presidenti eletti su base etnica, ognuno dei quali detiene il potere di veto.
La mancata unitarietà si ripercuote anche sulle forze armate. Queste sono state unificate nel 2005, poiché le due entità avevano mantenuto i propri eserciti. Se consideriamo lo stato come il detentore legittimo del monopolio della violenza organizzata, ciò dà l’idea delle contraddizioni e divisioni che hanno condizionato la Bosnia. In tal senso, la riunificazione dell’esercito e la creazione del Ministero della Difesa sono considerati rilevanti passi in avanti, benché la divisione delle forze di polizia permanga.
La sovranità dello stato è ulteriormente minacciata dalla Costituzione. Quest’ultima, percepita come un’imposizione delle potenze straniere, è stata adottata in seguito degli Accordi di Dayton, il che ha avuto degli effetti distorsivi sui tentativi di riforma. Infatti, nell’aprile 2006, il tentativo di modificare la presidenza tripartita in favore di una unitaria per rafforzare la figura del primo ministro e del parlamento è fallito. A tal proposito, il Presidente serbo Dodik ha più volte sottolineato come lo Stato rimanesse tale solo perché sostenuto dall’esterno.
La riorganizzazione della presidenza tripartita e dei seggi della camera alta del Parlamento è stata sostenuta anche dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2009 in merito al caso Sejdic and Finci v. Bosnia and Herzegovina. La sentenza mirava a permettere agli “altri” – la cui definizione si applica a chiunque non si consideri parte di una delle tre comunità – di servire nelle istituzioni. Infatti, le riserve costituzionali di alcuni uffici a membri di gruppi etnici contrasterebbe con quanto sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Inizialmente, questo è stato aggiunto ai requisiti per l’ammissione all’Unione Europea, ma nel 2014 pochi risultati erano stati registrati in tal senso e la stessa Unione Europea ha deliberato di svincolare la condizione dalla candidatura. Il caso rimane aperto.
Inoltre, scioperi e dimostrazioni contro la crescente disoccupazione, corruzione e inerzia politica hanno interessato il 2014 rappresentando la tensione sociale più rilevante degli ultimi vent’anni. Le manifestazioni non hanno soltanto dimostrato il malcontento della popolazione ma hanno dato voce a un dibattito mai concluso: la comunità internazionale aiuta o incrementa la precarietà del Paese?
Il difficile processo di integrazione
La reticenza statunitense a intraprendere un impegno considerevole oltreoceano ha fatto sì che la transizione della Bosnia sia condotta da una potenza regionale come l’Unione Europea.
Nel novembre 2005, la Bosnia ha concluso l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione Europea e, nonostante la sua funzionalità a un futuro ingresso nell’Unione, l’Accordo non ha registrato rilevanti progressi.
L’Unione Europea ha posto svariate condizioni perché la Bosnia sia presa credibilmente in considerazione come candidato. Si segnala l’adozione di una legge statale che impedisca al governo di accettare aiuti che comportino distorsioni per il commercio; la necessità di una legge sul censo; l’implementazione di un nuovo meccanismo coordinativo per incrementare la coordinazione tra i livelli governativi interni e l’Unione Europea. Nonostante le leggi concernenti il censo e gli aiuti governativi siano state implementate, la Commissione ha mostrato molte rimostranze verso la performance del Paese sottolineando come il progresso sia limitato o nullo in quasi tutte le aree di riforma. Nel maggio 2019, la Commissione europea ha identificato quattordici priorità, supportate anche dal Consiglio, alle quali la Bosnia deve lavorare. Nel novembre 2019, l’Unione Europea ha bloccato qualunque integrazione che riguardasse la Bosnia. Ad oggi, la Bosnia ha colmato solo una delle lacune.
Parallelamente, nel novembre 2006, la NATO ha esteso alla Bosnia l’invito a prendere parte alla Partnership for Peace (PfP) nel tentativo di supportare Sarajevo nel rafforzamento delle forze armate e della loro interoperabilità con le forze NATO. Quasi due anni dopo, nell’aprile 2008, il summit tenutosi a Bucarest è divenuto un’occasione per migliorare la relazione tra le parti iniziando un dialogo intensificato. Nel 2010, la Bosnia è stata anche invitata a partecipare al Piano d’Azione in vista dell’adesione alla NATO, nonostante la necessità di riforme democratiche e concernenti la difesa, ma i tentativi sono stati smorzati dalla Repubblica Serba che non si è dimostrata entusiasta o interessata ad avanzare in questa direzione.
La condizionalità esterna e la corruzione endemica
I partiti nazionalisti che si sono insediati al Parlamento hanno contribuito al mantenimento della pace ma hanno assunto i tratti tipici dei sindacati corrotti. I tentativi di ridurre la corruzione sono ripetutamente falliti e ciò non è passato inosservato alla Commissione Europea.
Il Dipartimento di Stato statunitense converge su tale posizione considerando la corruzione un ulteriore problema che rende l’economia stagnante riversandosi nella politica, ma prende anche atto del mancato interesse che il popolo nutre verso la problematica, nonostante sia percepita come tale. I tentativi di affrontare il problema a più livelli non ne riducono la dimensione.
Inoltre, nonostante i Balcani agiscano in base ai criteri dell’Unione Europea, registrano un calo nella qualità della democrazia. Infatti, la condizionalità europea non migliora la democrazia a causa della cosiddetta state capture; questa designa un particolare tipo di corruzione in cui le istituzioni statali e gli intermediari sono infiltrati da network clientelari che cercano di trasformare pratiche informali in formali. La condizionalità ha sicuramente contribuito ad aggravare il crescente decoupling tra democrazia e liberalismo. La dinamica top-down ha indebolito la competizione politica e l’accountability interna. In altre parole, le interazioni tra l’Unione Europea e il Paese legittimano la corruzione dell’elite. Si tratta di una conseguenza dell’implementazione simultanea di democratizzazione e riforme del mercato.
Conclusioni
In conclusione, la Bosnia è considerata un regime ibrido. L’esistenza di due entità, il meccanismo di divisione dei poteri e gli altri elementi già menzionati hanno contribuito alla legittimazione della divisione etnica che oramai converge in canali istituzionali. Nonostante le forze centrifughe non abbiano avuto la meglio, queste hanno comunque ostacolato lo sviluppo economico e il progresso sociale, conducendo a una situazione di potenziale immobilismo. La stabilità di superficie del Paese non riesce a dissimulare la costante precarietà di un Paese tenuto in equilibrio da un sistema di pesi e contrappesi. Pur essendo una pace imperfetta, fredda, rimane preferibile al massacro dei civili. Eppure, la pace in Bosnia-Erzegovina sembra rispondere sempre di più alle necessità di stabilità regionale piuttosto che alla volontà del popolo.
Elisa Maria Brusca,
Geopolitica.info