A inizio luglio, in concomitanza con il centenario del partito comunista cinese, Giappone e Stati Uniti hanno preso parte a una simulazione di manovre difensive previste in risposta a uno scenario di un attacco aereo e missilistico. La simulazione, che ha avuto luogo sull’isola di Amami, parte delle Ryukyu, e collocata a circa 850 km da Taiwan, è parte dell’esercitazione militare Orient Shield che si svolge tra il 18 giugno e l’11 luglio.
Iniziata nel 1985, Orient Shield è la principale esercitazione bilaterale realizzata ogni anno dai due alleati. L’esercitazione è volta a rafforzare l’interoperabilità delle forze di autodifesa giapponesi e dell’esercito americano in preparazione alla possibilità di operazioni militari congiunte. L’edizione del 2021 intende lanciare a Pechino il segnale che la cooperazione militare tra i due alleati si fonda su stretti legami e un solido coordinamento.
Recenti speculazioni indicano che uno scenario di operazioni congiunte possa potenzialmente estendersi ad operazioni nello stretto di Taiwan. Secondo quanto riportato dal Financial Times, sembra, infatti, che Tokyo e Washington stiano simultaneamente conducendo dei “war games,” con l’obiettivo di delineare un piano operativo integrato in caso di una contingenza a Taiwan.
I rapporti tra Giappone e Taiwan
Le relazioni tra Tokyo e Taipei rispecchiano l’andamento dei rapporti tra Stati Uniti e Taiwan. In seguito alla normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese nel 1972, il Giappone aderì alla cosiddetta “One-China policy.” Tokyo riconobbe il governo di Pechino come l’unica autorità ufficiale cinese e abrogò il Trattato di Taipei, con cui aveva istituito relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cina (Taiwan) nel 1951. La mancanza di relazioni diplomatiche bilaterali ufficiali non ha, tuttavia, compromesso il fiorire di profondi legami tra i due attori asiatici, in particolare a livello non-governativo. Taipei e Tokyo mantengono, infatti, stretti legami commerciali. L’isola al largo delle coste cinesi è tra le mete preferite dai turisti giapponesi. Viceversa, ogni anno milioni di Taiwanesi visitano l’arcipelago nipponico.
Se a livello non-governativo, Taipei e Tokyo possono considerarsi dei partners a tutti gli effetti, a livello politico, le relazioni tra i due attori asiatici rimangono estremamente complesse. Non dobbiamo dimenticare, ad esempio, che Taiwan rivendica le isole Senkaku come proprie ed è, pertanto, coinvolta nella famigerata disputa territoriale nel Mar Cinese Orientale. La principale complicazione rimane, però, la questione irrisolta dello status di Taiwan nel contesto dei rapporti tra Giappone e Cina. Tokyo si è, infatti, spesso vista costretta a ribilanciare le relazioni non-ufficiali con Taipei per evitare le ire di Pechino. Ad esempio, il governo giapponese ha tendenzialmente cercato di evitare qualsiasi commento che potesse suggerire il coinvolgimento del Giappone in una crisi nello stretto di Taiwan. Nonostante tali precauzioni, anche in questo campo, i legami tra i due vicini sono andati progressivamente rafforzandosi, complici la democratizzazione di Taiwan e la crescente assertività di Pechino.
Cambio di rotta in vista?
Negli ultimi mesi, il Giappone sembra aver adottato un approccio più diretto per quanto riguarda la questione di Taiwan. Seppur sempre attenendosi alla One-China policy, Tokyo non sembra più tirarsi indietro dallo schierarsi a favore di Taipei. Recentemente, ad esempio, la camera dei consiglieri giapponese ha adottato una risoluzione parlamentare a favore dell’ingresso di Taiwan nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ingresso a cui Pechino si oppone vigorosamente. Il Primo Ministro Suga è, inoltre, reduce da una curiosa gaffe, in cui si è riferito a Taiwan utilizzando il termine di “stato.” A scatenare le ire di Pechino sono, però, soprattutto, i chiari riferimenti alla questione di Taiwan nel campo della politica securitaria del paese e della collaborazione con il principale alleato nipponico, gli Stati Uniti.
Lo scorso marzo, nella dichiarazione congiunta rilasciata al termine del vertice 2+2, Tokyo e Washington hanno fatto apertamente riferimento a Taiwan, sottolineando l’importanza di una risoluzione pacifica della disputa. Si tratta di una menzione notevole visto che l’ultimo riferimento all’isola in una dichiarazione congiunta risale al 1969, precedentemente alla rottura delle relazioni diplomatiche con Taipei. Taiwan è stato nuovamente menzionato il mese successivo, durante l’incontro tra Suga e il neoeletto Presidente americano Biden. Vari rappresentanti del governo di Tokyo hanno, inoltre, esplicitamente ammesso l’esistenza di un legame tra la situazione a Taiwan e la sicurezza nazionale del paese. Alcuni esponenti politici giapponesi hanno addirittura avanzato l’idea di introdurre una proposta di legge paragonabile al “Taiwan Relations Act” statunitense.
Degne di nota sono, inoltre, le recenti dichiarazioni del ministro della difesa Kishi, il quale ha affermato che la stabilità nello stretto di Taiwan è direttamente correlata con la stabilità e sicurezza del Giappone. Kishi ha, inoltre, sottolineato che, alla luce del potenziale militare di Pechino e delle recenti pressioni contro Taipei, il paese del Sol Levante deve necessariamente rafforzare le proprie capacità di difesa senza badare a restrizioni sul budget. Tale posizione è stata riconfermata dal viceministro della difesa Nakayama. Questi ha descritto Taiwan come uno “stato democratico” minacciato da un regime autoritario, e ha affermato che il supporto a Taipei è inseparabile dalla difesa dell’arcipelago giapponese. Una forte presa di posizione arriva anche dall’attuale vice-primo ministro e ministro delle Finanze Taro Aso, secondo cui un’invasione di Taiwan costituisce una chiara minaccia per la sopravvivenza del Giappone.
Le recenti dichiarazioni mostrano, quindi, una retorica più esplicita. Ciò non significa, però, che dibattiti relativi al possibile coinvolgimento del Giappone in una crisi nello stretto di Taiwan siano stati fino ad ora assenti. Sin dalla normalizzazione dei rapporti con Pechino, opinioni divergenti a riguardo hanno continuato a popolare il panorama politico giapponese. In passato, tali discussioni non sono state necessariamente sotto i riflettori. Data la crescente apprensione nei confronti del comportamento cinese nella regione, sembra però che le posizioni pro-Taiwan stiano avendo la meglio e stiano venendo progressivamente incorporate nella politica estera e di difesa del paese.
L’importanza di Taiwan per il Giappone
Durante la Guerra Fredda, vista la minaccia sovietica, la strategia di difesa del Giappone si incentrava sui territori più settentrionali del paese, in particolare l’isola di Hokkaido. Con l’emergere della potenza cinese e il riacutizzarsi della diatriba sulle Senkaku, l’attenzione del Giappone si è progressivamente trasferita nella parte meridionale dell’arcipelago, in particolare le isole prossime allo stretto di Miyako, dove Tokyo ha rafforzato, negli ultimi anni, le proprie capacità difensive.
Considerato l’attuale contesto asiatico, l’importanza strategica di Taiwan non sorprende. Una crisi nello stretto di Taiwan viene percepita da Tokyo come una minaccia diretta al territorio nazionale, in particolare alla prefettura di Okinawa, su cui il partito comunista cinese, nel 2013, ha paradossalmente messo in dubbio la sovranità giapponese, ma soprattutto alle isole Senkaku, collocate a soli 170 km da Taiwan e rivendicate da Pechino. Se la Cina dovesse riuscire ad affermare il controllo su Taiwan, la potenza cinese si potrebbe, quindi, trovare in una posizione favorevole ad imporre le sue rivendicazioni sulle isole contese.
Inoltre, un simile scenario potrebbe sconvolgere le operazioni logistiche e di coordinamento del network di alleanze americane nella regione, inclusa quella con il Giappone. Ciò rischia di diminuire l’efficacia delle garanzie di sicurezza derivate dall’alleanza con gli USA. Ancora più critica è la dipendenza di Tokyo dall’accesso alle rotte di navigazione che attraversano le acque attorno a Taiwan. Data la carenza di risorse naturali in loco e la necessità di importare oltre il 90% delle risorse energetiche, il Giappone è particolarmente vulnerabile a qualsiasi interruzione negli approvvigionamenti via mare. Tokyo continua, pertanto, a monitorare con apprensione le attività delle forze cinesi nell’area.
Visti questi presupposti, il Giappone ha tutto da guadagnare dal mantenere lo status quo nello stretto di Taiwan. Il quesito che rimane è, però, fino a che punto il governo di Tokyo sia disposto a spingersi per evitare un cambiamento forzato dello status quo.
Alice Dell’Era
Geopolitica.info