Entro la fine dell’anno, i 1500 soldati francesi presenti in Niger abbandoneranno il Paese. Ad annunciarlo il 24 settembre è stato direttamente il capo di Stato di Parigi, Emmanuel Macron.
Questa potrebbe essere la conclusione reale di un vecchio modello di politica africana della Francia rivelatosi, sull’onda dei colpi di Stato nel Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger) e della trasformazione del continente nero in una delle “periferie” della guerra tra Russia ed Ucraina, irriformabile.
In un lungo articolo apparso su “Le Monde” del 27 settembre, Élise Vincent ha raccontato il trauma che i circoli militari transalpini stanno vivendo in questa fase di “riflusso” della Francia dall’Africa, dalla crisi post-imperiale che torna a riaffacciarsi di fronte allo “scramble” africano di Cina, Russia, Turchia e potenze arabe, fino ad arrivare al crollo dell’antico mito della Françafrique.
La presenza francese in Africa era stata sempre interpretata dai militari come una questione di sicurezza riguardante la lotta al terrorismo, alla corruzione, al traffico di migranti ed alla formazione di territori in preda all’anarchia, meglio definiti come zones de non-droit.
La necessità di mantenere una forte presenza armata in Africa ha mostrato il fallimento di ogni ipotesi di rupture faticosamente ideate a Parigi per superare le ombre “neocoloniali” della Françafrique. Il ritiro delle truppe francesi dal Niger, però, oltre a porre un interrogativo sul futuro delle forze transalpine anche in Costa d’Avorio (900 uomini), Senegal (300 uomini) e Gabon (300 uomini), ha riaperto una dolorosa ferita in seno alle Forze armate francesi rispetto alla nuova dottrina strategica approvata nel 2022.
Quando nel 1994, terminata la guerra fredda da pochi anni e, dunque, tramontata la possibilità di uno scontro tra forze convenzionali sul suolo europeo, la Francia ripensò la propria dottrina alleggerendo il dispositivo militare (la famosa “deterritorializzazione” della Difesa ipotizzata da Chirac) e concentrandosi sulle operazioni fuori area ed il contrasto delle minacce asimmetriche, non si pensò che la guerra potesse tornare prepotentemente d’attualità sul vecchio continente, come, invece, la guerra russo-ucraina ha dimostrato.
In uno scenario di questo tipo l’Africa era uno dei principali teatri operativi per la Francia, che poteva coniugare nel continente nero la difesa dei propri interessi nazionali e la salvaguardia di un’area (quasi) esclusiva d’influenza con la lotta al terrorismo ed alla proliferazione dei rischi che il XXI secolo sembrava stesse ponendo alla comunità internazionale a guida occidentale. E se un lavoro parlamentare “sur la préparation à la haute intensité” a derubricato lo sforzo africano a “politicamente intenso” ma militarmente limitato, esso costituisce comunque – per i canoni della nuova dottrina dell’alta intensità – uno spreco di risorse che potrebbero essere dirottate altrove, ad esempio nella partecipazione francese alla tutela del “fronte dell’est” della Nato dalla minaccia russa.
La Revue nationale stratégique del 2022 ha posto l’esigenza di una riconfigurazione dello strumento militare francese, spostandone il baricentro strategico dalle capacità di proiezione esterna a quelle di un conflitto su larga scala. I temi della logistica, della catena d’approvvigionamento, dell’industria della difesa, dell’integrazione multidominio (cyber e spaziale principalmente) con le tattiche convenzionali sono diventati centrali.
I combattimenti in corso lungo i trinceramenti della Linea Surovikin e le precedenti battaglie di Bakhmut e quella difensiva nel Donbass hanno dimostrato l’importanza di disporre di una catena corta dei rifornimenti e di un complesso industriale capace di reggere i ritmi di una guerra di logoramento che ha assunto i tratti dello “spreco organizzato” jüngeriano.
L’acquis strategico derivante dalle esperienze passate, dal Sahel all’Afghanistan, è stato maturato e ponderato su uno scenario di conflitto asimmetrico e non alla pari (peer-to-peer). Questo causa non poche difficoltà a livello di revisione della dottrina delle Forze armate.
La logistica “morbida”, adatta – e non sempre – alle operazioni di peacekeeping e stabilizzazione che hanno impegnato le forze armate dell’Europa occidentale dalla fine degli anni ’90 ad oggi, sia in Kosovo che in Medio Oriente o in Africa, ha mostrato una evidente inadeguatezza di fronte ai ritmi della guerra convenzionale. Nei fatti, questo tipo di logistica non è stata sempre in grado di assolvere ai propri compiti neanche nello scenario per la quale era stata progettata per operare, basti pensare ai problemi riscontrati proprio dai francesi in Mali, durante l’Operazione Barkhane, sulla disponibilità di elicotteri, appena sufficiente a condurre le operazioni che comportavano, a ritmo con il quale venivano effettuate azioni di combattimento, all’epoca una ogni tre giorni, anche un notevole consumo e necessità di pezzi di ricambio il cui numero non riusciva a soddisfare la richiesta.
Proprio l’Operazione Barkhane – che dell’impegno francese fuori area era l’esempio più recente – aveva spinto gli alti gradi delle Forze armate di Parigi a riflettere sull’utilità di mantenere, nel moderno scenario bellico e politico-internazionale, un modello “leggero”. Il generale François Lecointre – che del ritorno all’alta intensità è uno dei principali teorici e sostenitori – nel 2020 aveva evidenziato che l’indicatore del successo di Barkhane sarebbe stato non nel numero dei terroristi uccisi ma nella capacità di privare i jihadisti della loro libertà di movimento e favorire, al contempo, il ritorno delle forze governative in territori che, caduti sotto il tacco islamista, erano diventati inaccessibili. In altre parole, la presenza territoriale diffusa sarebbe stata essenziale per vincere la guerra. E, per essere presenti sul terreno, serve un sistema di approvvigionamento antitetico a quello “leggero” pensato dal vecchio documento strategico francese.
“Le Monde” ha evidenziato come l’Africa abbia, comunque, rappresentato una utile “valvola di sfogo” per l’industria francese della difesa, che ha sfruttato l’impegno delle truppe di Parigi nel continente nero per aumentare le proprie commesse. Al contrario dell’industria della difesa italiana, capace di esportare il proprio know-how, quella francese è fortemente dipendente dalle commesse delle Forze armate.
Insomma, il dramma della Françafrique parte da lontano, non è ascrivibile solo alla catena dei golpe che si sono susseguiti in Africa recentemente, ed ha anche una sua chiara dimensione di politica militare, legata a una revisione strategico-dottrinaria e ad un cambiamento di prospettiva, chiaramente orientato verso est ed il contenimento della Russia.
Lo scollamento rispetto alla tradizionale postura africacentrica “post-imperiale” della politica estera francese è evidente e genera, come è naturale, un profondo trauma in seno alle Forze armate, dando vita ad un dibattito interessante e dirompente sul futuro della politica di difesa parigina.