Una campagna basata sulla persuasione, più che sull’uso della forza, ha portato al collasso lo strumento bellico afghano, su cui gli Stati Uniti avevano investito decine di miliardi negli scorsi vent’anni. Le forze armate di Kabul hanno iniziato a sfaldarsi più di un anno fa, a partire dalla firma degli accordi di Doha. Da allora, i talebani hanno saputo sfruttare al meglio le deficienze delle forze di sicurezza afghane.
Il blitz talebano
L’offensiva talebana delle ultime settimane, culminata a metà agosto con il blitz su Kabul e la conquista della città – peraltro quasi senza colpo ferire – è stata un’operazione militare travolgente. Come una cascata, in pochi mesi i miliziani islamisti hanno preso il controllo di quasi tutto il territorio afghano, spesso incontrando scarsa o nulla resistenza. L’avanzata, iniziata in primavera, tradizionalmente stagione dei grandi combattimenti, è stata rapidissima: secondo i dati forniti dal Long War Journal, mentre il 13 aprile Kabul aveva perso il controllo di 77 dei circa 400 distretti in cui è diviso il paese, il 16 giugno questi erano già divenuti 104 e il 3 agosto erano addirittura 223 i distretti ormai in mano talebana. Dal 6 agosto, giorno in cui è caduta Zaranj, prima capitale provinciale a finire in mano talebana, la resistenza afghana ha cominciato a sfaldarsi del tutto. Solamente nove giorni dopo, il 15 agosto, il premier afghano, Ashraf Ghani, stava già lasciando di tutta fretta Kabul, mentre i talebani facevano ingresso nella capitale, dando vita a quella disordinata fuga di massa che i media di tutto il mondo stanno ripetutamente proiettando sui nostri schermi in questi giorni.
La velocità con cui l’Afghanistan è caduto in mano talebana ha lasciato stupiti anche i più attenti analisti e osservatori militari. Un’avanzata del genere non era stata prevista, a quanto sembra, nemmeno dall’intelligence americana, che in un report reso pubblico dal Wall Street Journal a fine giugno preconizzava una resistenza molto più tenace da parte delle forze di sicurezza afghane, ritenute dai vertici militari americani in grado di ritardare la caduta del paese almeno fino a dicembre di quest’anno. Sulla base di quanto riferitogli dai suoi consiglieri militari, il presidente Biden, almeno a parole, riponeva maggiore fiducia nelle capacità delle forze armate afghane. Non più di un mese fa, rispondendo alle domande di alcuni giornalisti, il presidente aveva chiarito come secondo lui “la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani non (fosse) affatto inevitabile”, essendo il paese “difeso da 300.000 militari afghani ben equipaggiati, oltre che da un’aeronautica, contro circa 75.000 talebani”. Una fiducia mal riposta a giudicare dal comportamento delle forze afghane nelle scorse settimane, comportamento contro il quale il presidente, in occasione del suo discorso tenutosi all’indomani della caduta della capitale afghana, si è scagliato con parole dure, accusando l’apparato militare di Kabul di “essere collassato, spesso senza nemmeno provare a combattere”, nonostante “avesse ricevuto dagli Stati Uniti ogni tipo di supporto”, tranne “l’unica cosa che gli Stati Uniti non potevano fornire, ovvero la volontà di combattere”.
In effetti, sebbene in alcune aree del paese i militari di Kabul si siano battuti con tenacia, soprattutto quando si trattava di reparti di forze speciali, negli ultimi mesi l’offensiva talebana ha trovato poca o nulla resistenza. Un crollo, quello delle forze afghane, che somiglia molto a quello avvenuto nel 2014 in Iraq, quando la seconda divisione irachena, forte di circa 30.000 effettivi e addestrata ed equipaggiata dagli Stati Uniti, non riuscì a difendere Mosul, assediata da non più di 1.500 di miliziani dell’ISIS, dileguandosi rapidamente e causando la caduta della città in soli quattro giorni.
Le ragioni di una disfatta
Parte delle ragioni per cui le forze armate afghane non sono riuscite a resistere all’avanzata dei miliziani islamisti ha infatti a che vedere con l’inefficacia della preparazione ricevuta dai militari americani e alleati. Nonostante la grande cifra stanziata da Washington nel corso degli ormai vent’anni di guerra – si parla di una somma di denaro pari a circa 83 miliardi di dollari – l’esercito di Kabul, lasciato solo, non ha saputo reggere l’urto talebano. Quello afghano, in effetti, era un esercito modellato sulla base di quello a stelle e strisce, come ben spiegato dal Generale Daniel P. Bolger, comandante della NATO Training Mission in Afghanistan dal 2011 al 2013. Quando si tratta di addestrare delle forze armate, dice il Generale, “c’è sempre la tendenza ad utilizzare il modello che si conosce, ovvero il proprio modello”. “Quando si costruisce un esercito in questo modo – un esercito pensato per funzionare come partner di una forza militare sofisticata come quella statunitense – non si possono ritirare così repentinamente gli americani, perché l’esercito partner perde l’assistenza quotidiana di cui ha bisogno”. L’esercito afghano, appunto, è stato dotato di armi ed equipaggiamenti avanzati, oltre che di un’aeronautica che, anche se non dotata di apparecchi di ultima generazione, era comunque in grado di offrire un notevole contributo alle forze di terra afghane. Eppure, quest’ultima, per poter essere mantenuta efficiente, necessitava di pezzi di ricambio e costanti interventi di manutenzione, oltre che carburante, qualcosa che solamente gli americani – in particolare i contractors – potevano garantire. “Siamo stati molto bravi nell’addestrare i plotoni e le compagnie a condurre raid e a gestire checkpoints”, spiega Mike Jason, ex colonnello dell’US Army sulle colonne dell’Atlantic, “ma dietro queste unità c’era poco che funzionasse”. In buona sostanza, come affermano analisti militari di primo livello, poco si è dedicato alla logistica delle forze, alla pianificazione, al comando e al controllo, e troppo alle procedure tecnico-tattiche della fanteria. “Mentre alcune le abbiamo fatte male o in maniera insufficiente, altre non ne abbiamo proprio fatte”, continua il colonnello Jason, “tra queste, l’addestramento della polizia afghana”. In assenza di una vera e propria forza di polizia nazionale, per anni gli Stati Uniti hanno infatti condotto l’addestramento della polizia di Kabul con i propri fanti e i propri Marines, unità che non disponevano delle competenze necessarie per preparare in maniera adeguata uomini che avrebbero operato con compiti diversi rispetto a quelli assegnati alle truppe di terra convenzionali.
Le unità militari afghane che hanno mostrato di essere più tenaci in combattimento sono state quelle provenienti dai reparti di forze speciali. Il professor Tim Willasey-Wilsey, del RUSI Institute, fa notare come l’efficacia di reparti speciali come l’Unità 333 e 444, creati e addestrati dai britannici sin dal 2001, è stata grande soprattutto perché il tipo di combattimento che viene condotto dalle forze speciali è quello che si addice meglio alla natura dei militari afghani, i quali protendono molto più per un combattimento di tipo irregolare, piuttosto che per uno di tipo convenzionale. Come spiegato da Antonio Giustozzi, grande esperto di Afghanistan, “la vera forza di questo paese risiede nella sua popolazione e non nelle sue forze regolari”. Gli americani, secondo Willasey-Wilsey, avrebbero fatto meglio a creare una forza molto più piccola, ma più sostenibile, e a investire molto di più nelle capacità delle forze di polizia afghane. Questo avrebbe permesso, tra le varie cose, di combattere in modo più efficace la corruzione endemica nelle forze armate, che, insieme alla diversità interetnica caratteristica dell’apparato militare di Kabul, ha rappresentato un’altra grande difficoltà per lo strumento bellico afghano.
La strategia talebana
La strategia adottata dai talebani ha saputo sfruttare al meglio tutte le debolezze delle forze di sicurezza afghane, riuscendo in breve tempo a mettere in ginocchio le difese di Kabul. La campagna talebana è stata, più di ogni altra cosa, una campagna di persuasione. Già a partire dall’inizio dello scorso anno, infatti, in particolare da quando Donald Trump aveva annunciato al mondo la firma degli accordi di Doha tra Stati Uniti e talebani, questi ultimi hanno iniziato a diffondere presso i leader delle tribù afghane messaggi che invitavano alla resa in cambio di denaro e di salvezza. I talebani, grazie alla maggiore libertà di manovra di cui potevano beneficiare dopo la riduzione dei bombardamenti americani in seguito agli accordi di Doha, hanno iniziato a muoversi tra gli avamposti afghani più isolati persuadendo e convincendo le forze di sicurezza afghane, garantendo protezione e denaro a coloro che avessero lasciato le armi. In questo senso, l’annuncio degli accordi di Doha ha funto da vera e propria chiave di volta per la strategia talebana. Da quel momento in poi, in sostanza, ogni soldato di Kabul ha cominciato a ragionare più sul come organizzare la salvezza della propria famiglia, piuttosto che combattere per un governo corrotto e incapace perfino di fornire viveri, munizioni e armi alle sue forze armate, il cui sostegno americano, peraltro, l’unico in grado di far funzionare l’apparato bellico afghano, sarebbe presto venuto a mancare. “Nessuna regione è caduta a causa della guerra in senso stretto, ma tutte sono cadute a causa della guerra psicologica”, spiega il Generale Abbas Tawakoli, comandante del 217° corpo d’armata afghano.
I talebani hanno beneficiato moltissimo del modo in cui le forze di Kabul erano disposte sul territorio. Infatti, proprio perché modellato sulla base dell’US Army, al momento dell’inizio dell’offensiva talebana, l’esercito di Kabul era disperso su tutto il paese, esattamente come era schierato quando l’appoggio degli americani – che consisteva tra le varie cose, anche nel rifornimento delle basi afghane sparse per il territorio – era ancora garantito. L’esercito afghano era distribuito in più di 200 basi su tutto il territorio, molte delle quali rifornibili solo tramite vettore aereo, piuttosto che essere concentrato nei centri urbani. La ragione di questa scelta, spiega il ministro degli Esteri afghano, andrebbe attribuita alla mancanza di tempo intercorsa tra l’annuncio del ritiro delle truppe da parte di Biden e l’inizio dell’offensiva di primavera. Venuto a mancare il supporto americano, il governo afghano ha cominciato a trovare grandissime difficoltà nel rifornire le sue truppe sul terreno, specialmente quelle più isolate. Le truppe di Kabul, quindi, hanno cominciato a trovarsi sempre più spesso a corto di munizioni e di viveri, motivo per il quale la campagna di persuasione dei talebani, col trascorre del tempo, ha preso sempre più vigore. L’efficacia della campagna psicologica talebana ha preso ancora maggior vigore quando i miliziani hanno cominciato ad assumere il controllo delle principali arterie stradali, in questo modo impedendo ulteriormente il rifornimento di avamposti e basi del governo e garantendo ai talebani la gestione della tassazione e il controllo dei valichi di frontiera.
Mentre la campagna di convincimento condotta dai talebani procedeva con sempre maggiore successo, Biden annunciava, ad aprile, il ritiro incondizionato delle truppe americane entro la fine dell’estate. Da quel momento, la capitolazione delle forze afghane è divenuta un processo inarrestabile. I militari di Kabul, come ben spiegatodal Generale Joseph L. Votel, ex comandante del CENTCOM, si sono sentiti abbandonati dagli Stati Uniti e comandati da capi incompetenti: “le truppe guardavano a cosa c’era di fronte a loro e a cosa c’era dietro e decidevano che era molto più facile lasciare le armi e andarsene”. In buona sostanza, il presidente Biden, confidando sulla grande superiorità numerica e tecnologica delle forze armate afghane, ha sottovalutato l’impatto psicologico dell’annuncio del ritiro, come sostenuto dal Generale Petraeus. Sembra quasi che il presidente americano abbia dimenticato una delle regole fondamentali sul campo di battaglia, e cioè che “in guerra la forza morale rispetto a quella fisica vale per tre quarti”, come soleva dire Napoleone. E in effetti, come spiega Richard Fontaine del Center for a New American Security, “coloro che hanno puntato tutto sulla superiorità militare delle forze afghane, sia in termini di numeri che di addestramento e di equipaggiamento, dimenticano il punto più importante, e cioè che tutto dipende dalla volontà di combattere per il proprio governo. E questa volontà, in fin dei conti, dipendeva dalla presenza e del supporto americano”.
Nel corso dei vent’anni di guerra che hanno stravolto il paese, fino a quando gli americani hanno garantito il loro supporto militare, l’esercito afghano si è sempre battuto. Lo testimoniano i circa 60.000 morti tra le forze di sicurezza di Kabul. Con la firma degli accordi di Doha e il successivo annuncio del ritiro delle truppe da parte del presidente Biden, tuttavia, il morale delle truppe è decisamente crollato. Quella talebana è stata un’efficace campagna di natura psicologica che ha saputo sfruttare tutte le debolezze delle forze di Kabul, capitalizzando il risentimento dei militari afghani nei confronti del governo centrale, accusato di corruzione e di incompetenza, le differenze etniche e tribali tra i militari, la mancanza di fiducia nelle forze armate americane, la cui partenza era imminente, e, spesso, l’incapacità di combattere, vista la scarsità di viveri e munizioni.