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Il sogno occidentale dell’Azerbaigian: a cento anni dalla conferenza di Versailles

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L’anno scorso si sono ricordati i cento anni dalla fine della prima guerra mondiale. L’opinione pubblica ha giustamente celebrato la fine dell’immane massacro e riflettuto sulle conseguenze geopolitiche del conflitto: basti pensare soltanto al mondo arabo e al Medio Oriente e quanto il tema della definizione post-bellica ancora determini – in quelle aree – fratture e conflitti. Nel 2019 ricorre il secolo dall’evento centrale del mondo post-bellico: la conferenza di pace di Parigi (o di Versailles).

La conferenza con le sue decisioni, sia sugli assetti territoriali sia sull’organizzazione della comunità internazionale, ha cambiato completamente il modo di fare e percepire la politica internazionale. Con Versailles le modalità della politica estera hanno assunto forme nuove, che vivono ancora oggi: la pubblicità delle strategie politiche, il ruolo dell’opinione pubblica, la strutturazione di una “comunità internazionale” con una legittimità sovraordinata rispetto ai suoi componenti, la cooperazione come modalità prevalente nei rapporti fra Stati, i principi di autodeterminazione e legalità internazionale.

Ciò che è meno noto, nella memoria storica della conferenza di Parigi, è che i protagonisti non furono soltanto vincitori e sconfitti del grande conflitto. A Parigi si recarono tantissime delegazioni extraeuropee provenienti dai territori coloniali africani, asiatici e dagli ex imperi ottomano e zarista, che cercarono di vedersi riconosciuti i diritti di autodeterminazione proclamati dal presidente Wilson e dalle altre grandi potenze occidentali. Purtroppo nel 1919 prevalse un atteggiamento eurocentrico, coloniale, che riconosceva diritti soltanto ad alcuni popoli e manteneva intatto il sistema di potere internazionale.

Il colonialismo non fu solo quello delle vecchie potenze europee: anche la nuova Unione Sovietica, che si faceva portatrice di un messaggio di liberazione anti-imperialista, ricostituì il vecchio dominio zarista assoggettando al nuovo potere russo e bolscevico popoli non russi, che avevano cercato la strada dell’autodeterminazione. Uno degli esempi più interessanti di nazione, che abbracciò in senso anticoloniale e progressista il messaggio wilsoniano, fu senz’altro quello dell’Azerbaigian. La vicenda viene ricostruita in un volume di Daniel Pommier Vincelli (Storia internazionale dell’Azerbaigian. L’incontro con l’Occidente 1918-1920) appena pubblicato da Carocci editore, in occasione delle attività per centenario del servizio diplomatico azerbaigiano.

L’Azerbaigian ha un notevole primato: fu la prima repubblica parlamentare a stabilirsi in un Paese a maggioranza islamica e garantì ai suoi cittadini uguaglianza di diritti senza distinzioni di genere, etnia, credo religioso. La repubblica, che visse due anni tra il dominio zarista e la riconquista russo-sovietica, era guidata da un piccolo e illuminato gruppo di intellettuali di orientamento socialdemocratico e progressista, che riteneva che lo sviluppo del proprio Paese passasse attraverso l’integrazione euro-occidentale, per liberarsi dal peso del colonialismo russo vecchio e nuovo.

Fu questo il senso della missione diplomatica azerbaigiana a Parigi, raccontata nel volume di Pommier Vincelli. I diplomatici azerbaigiani, più intellettuali che professionisti della diplomazia, cercarono di trasformare le proprie debolezze in forze: utilizzarono l’opinione pubblica, assunsero esperti di comunicazione, scrissero volumi di divulgazione, pubblicarono riviste e rilasciarono interviste. Pur provenendo da una periferia dell’Eurasia compresero che la battaglia politico-internazionale si giocava su un nuovo campo di battaglia: la comunicazione e la public diplomacy. Non sostenevano un Paese ma un modello di Paese: laico, multiculturale, pluralista, aperto all’economia di mercato e ai diritti delle donne.

Riuscirono a ottenere un importante risultato simbolico: il riconoscimento de facto del nuovo Stato nel gennaio 1920. Ma le paure, i ritardi e gli egoismi dei grandi Paesi occidentali abbandonarono l’Azerbaigian al suo destino: cioè a un ritorno del dominio russo seppure nella nuova forma sovietica. Il Paese verrà sepolto dalla cappa sovietica per 70 anni, fino alla seconda indipendenza del 1991. Rimane dell’esperienza del 1918-1920 uno straordinario, e forse unico, tentativo di modernizzazione socio-politica che rigettava qualsiasi etno-nazionalismo aggressivo e che vedeva nel dialogo la soluzione per le relazioni con gli altri Stati dell’area.

Con il collasso dell’Unione Sovietica il popolo azerbaigiano ha riconquistato la sua indipendenza.  L’Azerbaigian moderno, grazie alla posizione strategica, collocato tra Oriente ed Occidente e le notevoli risorse energetiche, è attivo nello scenario internazionale, promuovendo buoni rapporti con i paesi all’interno e all’esterno della regione e realizzando numerosi progetti energetici e infrastrutturali internazionali. Il paese attua una politica estera multivettoriale, a tutela dell’interesse nazionale, ed è sostenitore di multiculturalismo, pace, sicurezza e cooperazione a livello mondiale. Rimane ancora irrisolto il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per la regione del Nagorno Karabakh – sotto occupazione da oltre 25 anni insieme ad altri sette distretti adiacenti dell’Azerbaigian, e ciò costituisce la principale fonte di tensione nella regione del Caucaso meridionale e la cui soluzione è il principale obiettivo di politica estera di Baku.

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