Il 1914 ha costituito un anno di svolta per l’intera storia mondiale e, a distanza di un secolo, non ha smesso di condizionare i rapporti tra gli Stati. Passando in rassegna i principali temi che hanno caratterizzato la politica internazionale degli ultimi venti anni, gli effetti della Seconda guerra mondiale in larga parte sembrano essere svaniti – con la rilevante eccezione della perdita di potere degli Stati europei e il recente ritorno ad un dualismo russo-statunitense in alcune regioni (Europa, Medio oriente ed ex-spazio sovietico) – mentre sull’agenda politica mondiale grava la crisi di numerose istituzioni politico-giuridiche edificate nel 1919 per ristabilire l’ordine turbato dal conflitto.
Il fallimento dell’utopia wilsoniana di regolare la vita politica internazionale attraverso agenzie di controllo deputate a favorire la cooperazione interstatale, la messa al bando delle guerre di aggressione, la disgregazione politica dell’ex-Jugoslavia e l’instabilità nei Balcani, la rinascita dei nazionalismi e il ciclico esplodere della violenza in Medio oriente, costituiscono solo una parte dell’eredità contraddittoria della Conferenza di Parigi. Per tale ragione lo studio della Grande guerra risulta attuale non solo ai fini della conoscenza storica ma, soprattutto, per la comprensione delle dinamiche interstatali del tempo presente.
Va sottolineato, anzitutto, che il perdurare di queste ripercussioni, dovuto all’ampiezza e alla profondità dei mutamenti politici innescati tra il 1914 e il 1918 (interruzione dell’isolazionismo americano, Rivoluzione d’ottobre) e imposti dal 1919 (trattati di Versailles, Trianon e Sèvres e istituzione della Società delle Nazioni), è ascrivibile alla natura “costituente” della Grande guerra.
Con tale concetto viene indicata una guerra che assume, al tempo stesso, le sembianze di una “guerra generale”, poiché capace di coinvolgere tutti i “poli” del sistema internazionale di un determinato momento storico causando la redistribuzione del potere tra questi, e di una “guerra fonte”, in quanto generatrice di un riassetto dell’ordine politico internazionale, non fondato sul diritto internazionale precedente, ma su un diritto stabilito ex novo. Come in altri casi simili (Guerra dei Trent’anni, Guerre napoleoniche), all’indomani della fine della Prima guerra mondiale il sistema internazionale è sembrato raggiungere il massimo dell’ordine possibile, evidenziato dalla posizione dominante assunta dai vincitori sui vinti e da un ordine corrispondente agli interessi e alle aspettative delle potenze vincitrici. Non bisogna, inoltre, tralasciare che l’esito delle major war ha influito talvolta anche sul riassetto politico domestico degli Stati che vi hanno preso parte e, più spesso, su quello delle potenze sconfitte. La Grande guerra, quindi, non solo ha posto fine al sistema internazionale emerso dal Congresso di Vienna, ma ha originato anche un sistema internazionale nuovo e, di conseguenza, una altrettanto nuova – quanto precaria – pace.
Sebbene tutte le potenze europee abbiano avuto un ruolo decisivo nello scoppio del conflitto e, successivamente, ne siano rimaste intensamente segnate, la Russia ha svolto un ruolo decisivo sia nel determinare il contesto internazionale all’interno del quale prese forma, sia nella sua deflagrazione, che – a causa dei suoi rivolgimenti politici interni – nell’ispirare alcuni dei principi fondanti del nuovo ordine. È interessante, quindi, presentare all’interno di uno schema interpretativo lineare il rapporto tra la Russia – nonché l’Unione Sovietica, che ne raccolse di fatto l’eredità sebbene sotto una forma di Stato e di regime politico completamente diverse – e la Prima guerra mondiale. Si tenterà, quindi, di individuare tre sfide che nei decenni precedenti allo scoppio del conflitto imposero a San Pietroburgo decisioni capaci di influenzare il corso della storia mondiale e di sottolineare le tre conseguenze internazionali più rilevanti della Rivoluzione d’Ottobre nella prospettiva del ristabilimento dell’ordine.
I sfida – I decisione: il Trattato di Parigi del 1856 che chiuse la Guerra di Crimea (1853-1856), l’accordo anglo-russo del 1888 che pose fine al “grande gioco” in Asia centrale e la sconfitta nella Guerra russo-giapponese del 1904-1905, obbligarono San Pietroburgo a concentrare l’attenzione su corridoi alternativi di accesso ai “mari caldi”. In tale prospettiva la regione balcanica acquisì una centralità strategica. La proiezione russa in quest’area si era cominciata a sviluppare già dagli anni Settanta dell’Ottocento, come dimostrato dai rapporti tradizionalmente intrattenuti con la Serbia e dall’intervento in difesa delle popolazioni slave dei Balcani contro il dominio ottomano nella guerra del 1877-1878. All’alba del Novecento, tuttavia, la difesa dell’interesse nazionale russo nei Balcani era divenuta indispensabile in quanto rappresentavano l’unico corridoio accessibile verso il mare;
II sfida – II decisione: l’ascesa al trono dell’Impero tedesco di Guglielmo II, la sua rottura con il cancelliere Otto von Bismarck e il mancato rinnovo del Trattato di contro-assicurazione con la Russia determinarono un riassestamento profondo del sistema di alleanze su cui si era basato l’ordine europeo della seconda metà del XIX secolo (la Lega tra i tre imperatori “conservatori” di Russia, Austria-Ungheria e Prussia). La Duplice alleanza siglata nel 1879 tra Impero tedesco e Impero austro-ungarico (divenuta Triplice alleanza nel 1882 con l’ingresso dell’Italia), obbligò la Russia a esplorare la possibilità di stringere nuove alleanze. L’equilibrio di potenza fu ripristinato– tra il 1891 e il 1894 – grazie al perfezionamento della Duplice intesa, che legò in un patto difensivo la Russia alla Francia: il potere dei due “Imperi centrali” risultò così riequilibrato dall’alleanza tra i due Stati che li circondavano sia sul versante occidentale che su quello orientale. La trasformazione in Triplice Intesa nel 1907, grazie all’Entente cordiale (1904) e all’Accordo anglo-russo (1907), offriva – già nei primi anni Dieci del XX secolo – un’immagine del sistema internazionale sostanzialmente trasformato in un sistema diviso in due blocchi contrapposti (come poi accadrà nel corso della Guerra fredda) e che seguiva le regole primarie delle relazioni tra gli Stati per cui “il mio vicino è il mio nemico” e “il vicino del mio vicino è mio amico”;
III sfida – III decisione: nel mese che seguì l’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914) l’Impero russo, dopo un’iniziale attendismo, scelse di sostenere – in nome del panslavismo, ma anche della paura di un’occupazione austriaca dei Balcani che ne avrebbe impedito qualsiasi influenza sul Mar Mediterraneo – la decisione del Regno di Serbia di non accettare le condizioni dell’ultimatum di Vienna e di proclamare la mobilitazione generale. La scelta di San Pietroburgo diede il via a quel meccanismo politico che Kenneth Waltz ha definito chain-ganging, ossia la deflagrazione di una guerra generale a causa del rispetto dei patti di mutua difesa stipulati tra alleati. La scelta della Russia e dall’Austria-Ungheria di mettere in gioco la pace come conseguenza dell’attentato di Sarajevo, innescò una reazione a catena: tutte le grandi potenze, anche quelle non colpite direttamente dall’attentato, scelsero di intervenire in guerra per timore che uno squilibrio di potere determinato dalla defezione di un membro dell’alleanza avrebbe provocato conseguenze negative nei loro confronti (va comunque sottolineato che soprattutto tra Francia e Germania già da tempo spiravano venti di guerra). Come membri “incatenati” di coalizioni contrapposte, nel giro di una settimana dallo scadere dell’ultimatum il “dilemma della sicurezza” travolse Impero russo, Impero tedesco, Impero austro-ungarico, Francia e Gran Bretagna nella più grande guerra che la storia avesse conosciuto fino a quel momento.
Svolta decisiva: i tre anni di combattimenti sul fronte orientale portarono all’esasperazione le contraddizioni politiche, economiche e sociali della Russia, al punto da generare un contesto favorevole ad un brusco cambio di regime. Senza voler in alcun modo agganciarsi a tesi estreme di quanti, come Eric Hobsbawm, hanno sostenuto che la vicenda politica del Novecento sarebbe sostanzialmente corrisposta a quella dell’Unione Sovietica e alla dinamiche da essa innescate (e, quindi, ad una conseguenza della Prima guerra mondiale), occorre sottolineare come la presa del potere dei bolscevichi e la Rivoluzione d’Ottobre costituirono un turning point foriero di effetti decisivi per la definizione dell’ordine internazionale che sarebbe sorto al termine del conflitto.
I conseguenza: la sottoscrizione delle durissime condizioni della Pace di Brest-Litovsk (marzo 1918) da parte della delegazione sovietica, l’assenza di suoi rappresentanti alla Conferenza di Parigi e la guerra che contrappose l’Armata rossa all’Armata bianca, contribuirono consistentemente alla redistribuzione del potere internazionale e al mutamento dell’identità dei poli del sistema sorto sulle ceneri della Grande guerra. Il nuovo ordine internazionale pose l’Unione Sovietica in una posizione di subalternità rispetto alle grandi potenze, decretandone una perdita di rango rispetto alla posizione precedentemente occupata dall’Impero zarista (che si protrasse almeno fino al 1934, quando Mosca fu ammessa alla Società delle Nazioni);
II conseguenza: l’assetto politico dell’Europa orientale, nei territori che precedentemente appartenevano agli Imperi tedesco, austro-ungarico e russo, divenne un tassello fondamentale dell’ordine internazionale immaginato dalle potenze vincitrici. Il sostegno fornito, in particolare da Gran Bretagna e Francia, alla nascita – o alla rinascita – di un cospicuo gruppo di Stati in questa regione (Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia) seguì una serie di considerazioni “geopolitiche”. Anzitutto la necessità di “disinnescare” il pericolo tedesco, parcellizzando l’ex Impero Austro-Ungarico e utilizzandone i territori per creare degli Stati cuscinetto che avrebbero dovuto impedire qualsiasi tipo di espansione tedesca verso est e verso sud. In secondo luogo, l’utilizzo dei nuovi Stati come “cordone sanitario” contro la possibilità dell’avanzata della rivoluzione bolscevica, che in una prima fase era considerata un obiettivo “permanente” da una componente di primo rilievo della classe dirigente sovietica. In ultimo la funzione degli Stati di nuova indipendenza rispose anche alla necessità strategica di Gran Bretagna e Francia – sulla base delle considerazioni di Sir John Halford Mackinder – di impedire che una ritrovata sinergia tra la Germania e gli eredi della Russia avesse potuto render realizzabile il progetto di una sinergia – se non di una vera e propria unificazione – del continente eurasiatico, che avrebbe comportato il bilanciamento di potere della potenza marittima inglese (per ragioni differenti sin dal 1919 appariva evidente che entrambi gli Stati avrebbero assunto una posizione di contestazione del nuovo ordine e, uniti da questa comune volontà, risultava verosimile una loro futura alleanza);
III conseguenza: nonostante la svolta “realista” di Stalin, che pose in minoranza le tesi “rivoluzionariste” di Trotskij, l’Unione Sovietica continuò ad essere percepita dalle altre potenze come un attore rivoluzionario e, quindi, come un pericolo concreto per la stabilità internazionale. Nonostante il pragmatismo stalinista degli anni Venti e Trenta, una volta raggiunta una parziale stabilizzazione nella dimensione politica domestica, la prospettiva rivoluzionaria di Mosca riemerse in relazione alla dimensione internazionale. Tale attitudine, sommata all’atteggiamento parallelo della Germania nazionalsocialista e dei regimi fascisti (che a partire dal 1922 si erano moltiplicati in tutta Europa), al simile atteggiamento mantenuto dal Giappone nel continente asiatico e all’approccio ugualmente rivoluzionario alla politica internazionale – sebbene per eredità culturali e ragioni politiche completamente diverse – contribuì a consolidare anche nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale la natura “eterogenea” del sistema internazionale. Con questo concetto Raymond Aron ha indicato un sistema contraddistinto dalla presenza di attori organizzati secondo principi diversi ed ispirati da valori in reciproca contraddizione, dove i rapporti di forza costituiscono l’unica discriminante per il mantenimento di un grado minimo di ordine. In presenza di questo modello di sistema internazionale viene solitamente meno la tradizionale distinzione tra politica interna ed esterna e i principi del diritto risultano messi in discussione da immagini dell’ordine fondate su principi contrastanti e irriducibili.
La condizione di eterogeneità dei principi e dei regimi politici delle grandi potenze rappresentò un tratto caratterizzante del sistema internazionale negli anni che precedettero lo scoppio della Grande guerra (a partire dal delinearsi di un’Europa divisa per la prima volta in due blocchi contrapposti), risultando incrementata dalla competizione tra Stati liberali, Stati fascisti e Stati comunisti durante i “venti anni di crisi” che separarono i due conflitti mondiali e confermata dall’atteggiamento delle due superpotenze e dei loro sistemi di alleanza durante la Guerra fredda. Questa caratteristica, che trova la sua origine negli assestamenti e nelle trasformazioni derivate dalla Prima guerra mondiale, ha fatto sì che il Novecento sia stato l’unico secolo della storia moderna ad assistere a tre “guerre costituenti” nell’arco di settantacinque anni.