Il conflitto che coinvolge da vent’anni la regione del Kivu settentrionale, nella Repubblica Democratica del Congo orientale, è decisamente un fenomeno complesso. In questa regione una pletora di gruppi armati, ognuno con un proprio acronimo e una specifica caratterizzazione etnica o religiosa, occupa oggi illegalmente lembi più o meno estesi di territorio congolese portando avanti azioni militari e terroristiche contro le fazioni rivali, le forze governative e delle Nazioni Unite e la popolazione civile.
Le origini della guerra del nord Kivu si confondono con le fasi conclusive della guerra mondiale africana quando le potenze filo-tutsi, Ruanda, Uganda e Burundi, ex alleati dell’allora presidente congolese Joseph Kabila, accettarono di ritirarsi dalla RDC mantenendo però de facto milizie alleate all’interno del confine congolese che invece non deposero le armi.
Il caos che ne derivò trovò giustificazione nella rivalità etnica e tribale (in primis tra tutsi e hutu e tra i corrispettivi gruppi armati oggi attivi nel Kivu, l’M 27 e l’FDLR), nella necessità di gruppi politici dissidenti verso i regimi dei paesi vicini di dare vita a movimenti di liberazione nazionale (ad esempio le formazioni armate di opposizione al regime tutsi del Burundi, l’FDB, l’FLN e Red-Tabara, e le ADF ugandesi che combattono per rovesciare il governo di Yoweri Museveni) o anche nel bisogno di autodifesa delle comunità di villaggio congolesi (come i diversi gruppi armati Mai-Mai).
Se però le componenti etniche e politiche mantengono un ruolo centrale nel conflitto nel Kivu settentrionale, altrettanto importanti sono le variabili economiche che definiscono il successo o l’insuccesso del singolo gruppo armato.
Secondo l’ONG sudafricana Accord infatti sono i numerosi e abbondanti giacimenti di minerali strategici di cui il Kivu settentrionale è ricco a spingere gli attori nazionali e internazionali a competere per il controllo delle miniere.
I motori del caos
I gruppi armati locali e gli stessi paesi africani userebbero gli introiti derivanti dalla vendita delle pietre congolesi per finanziare le loro casse e le campagne militari, a volte dirette proprio a prendere il controllo di nuovi giacimenti creando così un circolo vizioso, spesso privo di qualsiasi caratterizzazione ideologica o etnica. Le milizie, nel prendere possesso di un’area estrattiva, tendono a terrorizzare la popolazione civile con atti di violenza così da piegarli più facilmente all’attività di Hand-mining nei giacimenti. Per questi motivi nell’Enviromental Change and Security Program (ECSP) Report del 2017, curato da John Katunga del Wilson Center, i minerali vengono definiti “the engines of chaos”, i motori del caos. I minerali non avrebbero causato la guerra nel Kivu, secondo Katunga, ma avrebbero decisamente contribuito ad aggravarla e prolungarla portando ad una “economisation” della violenza e ad una monetizzazione del conflitto.
Il Kivu del nord è una regione ricca di risorse naturali che, grazie ad una politica estrattiva non intensiva operata durante la lunga presidenza di Mobutu Sese Seko, ha mantenuto pressoché integri fino alla fine del secolo scorso i depositi minerari di cui dispone.
Nella regione si riscontra un’abbondanza di cassiterite (da cui si estrae lo stagno, componente fondamentale di leghe più o meno complesse e materiale isolante impiegato in molti settori industriali), di oro, di diamanti, di coltan ( o columbite-tantalite, un minerale necessario per costruire condensatori elettrolitici di dimensioni ridotte e ad alte prestazioni, utilizzati nei cellulari e nei computer), di tormaline (pietre utilizzate per la costruzione di contatori e manometri ad alta pressione e nel campo gemmologico), di Wolframio (un minerale da cui si estrae un metallo, il tungsteno, altamente resistente all’usura e alla corrosione e molto utilizzato sia in campo militare che civile) e di pirocloro (un minerale da cui si estrae circa il 90% del Niobio mondiale, utilizzato nell’industria aereospaziale, nucleare e numismatica e, qualora raffreddato, come superconduttore).
La necessità di rifornirsi di armi, vettovaglie e di mantenere in funzione la macchina bellica avevano spinto già dai primi anni 2000 i ribelli e le milizie attive nel Kivu a trovare nei minerali non solo una fonte alternativa di introito rispetto alla rapina, al saccheggio o alla tassazione forzata, ma anche poli di attrazione per nuove reclute. I vantaggi derivanti dal controllo di un giacimento minerario non sono pochi infatti. Come sottolinea Accord, Le risorse naturali “enable groups to recruit on the basis of short-term rewards”, fungendo così da aggregatore alternativo alla propaganda etnica e politica. Questo aspetto ha senza dubbio contribuito, sempre secondo l’ente sudafricano, ad estendere le dimensioni di un conflitto combattuto sempre più da “opportunistic joiners who have little commitment to the cause”. Allo stesso tempo le opportunità di arricchimento personale hanno condotto molti gruppi ribelli a improntare le proprie azioni militari in vista del profitto economico piuttosto che di quello politico e militare. Un profitto che secondo l’ONU si aggirerebbe intorno ai 185 milioni di dollari l’anno.
Secondo l’International Crisis Group, le milizie utilizzano numerosi metodi per trarre profitto dalle risorse della regione. In alcuni casi queste esercitano un controllo indiretto su un sito minerario, imponendo ai minatori o agli imprenditori una tassa di entrata o un tributo sul prodotto estratto. Esistono però casi in cui il livello di coercizione esercitato risulta più elevato, con l’impiego di lavoro forzato o lo sfruttamento diretto delle miniere. In quest’ultimo caso può accadere che lo stesso gruppo armato che dirige le attività estrattive si occupi della fase di trasporto e di contrabbando dei minerali, molto difficili da tracciare.
Gli interessi stranieri…
Secondo il report di International Alert, “The Role of the Exploitation of Natural Resources in Fuelling and Prolonging Crises in the Eastern DRC” (2010) anche il Burundi, il Rwanda l’Uganda hanno tratto profitto dai minerali provenienti dal Kivu, acquistati dalle milizie loro alleate presenti in quella regione. È la stessa International Alert, oltre che la Banca Mondiale, ad informare che questi tre Paesi non disporrebbero di giacimenti di oro, coltan e cassiterite tali da giustificare le quantità di minerali esportate.
Ad esempio, L’economist, nell’articolo “How can Uganda export so much more gold than it mines?” pubblicato il 23 maggio 2019, ha messo in luce come le esportazioni di oro ugandesi ammontassero nel 2018 a 515 milioni di dollari mentre nel 2008 queste erano ferme intorno a 10 milioni. Le miniere ugandesi, ubicate nella parte orientale del paese, sono però arretrate e poco produttive. Nonostante ciò nel marzo 2019 la Banca Centrale ugandese ha dichiarato che le esportazioni d’oro erano raddoppiate rispetto all’anno precedente. Ma è sempre la stessa banca centrale ugandese ad ammettere che solo il 10% delle esportazioni d’oro nazionali, che dallo scorso anno hanno superato il caffè come principale voce del PIL dopo il turismo, provengono da miniere locali. Il resto, secondo le fonti della banca centrale di Kampala, “comes from elsewhere in Africa”.
Secondo l’United Nations Group of Experts on the Congo è però proprio nel Kivu che i minerali vengono estratti, trasportati in Uganda e poi trasferiti per via aerea da Entebbe a Dubai per essere immessi nel mercato minerario internazionale. Secondo le Nazioni Unite le milizie venderebbero l’oro ai trafficanti ugandesi per 25 $ al grammo anziché ai 60$ del mercato internazionale, a cui andrebbero a sommarsi i proventi delle tasse imposte ai minatori per lavorare. Secondo l’U.N. Security Council’s Group of Experts – un panel che monitora l’applicazione dell’embargo ONU sulle armi alla RDC (attivo dal 2003) – è negli Emirati Arabi Uniti che la maggior parte dell’oro proveniente dal Kivu viene sciolto e venduto all’ingrosso e al dettaglio. Secondo le stesse Nazioni Unite Dubai risulta essere il punto di primo stoccaggio anche di altri minerali di cui il Kivu verrebbe privato senza alcun ritorno economico.
L’U.N. expert panel report ha espresso infatti osservazioni simili a quelle relative all’oro ugandese rispetto alle esportazioni ruandesi e burundesi di niobio, coltan, cassiterite e oro, cresciute esponenzialmente dallo scoppio della guerra in Kivu settentrionale. Le milizie vicine a Kinshasa, a Kigali e a Gitega, secondo gli esperti delle nazioni Unite, avrebbero praticato il “bag and tag” ai minerali congolesi, cioè avrebbero applicato il marchio di provenienza dei propri paesi a pietre e metalli in realtà estratti illegalmente nel Kivu del nord, spesso utilizzando metodi coercitivi e lesivi dei più elementari diritti umani.
Il fenomeno della falsificazione dei dati di provenienza dei minerali congolesi è una conseguenza del Dodd-Frank Financial Reform Act, approvato dal Congresso statunitense nel 2010, che nella sua sezione 1502 impone a tutte le imprese importatrici di minerali dalla RDC e dai paesi vicini di iscriversi all’US Securities and Exchange Commission e di consegnare un quadro completo della propria supply chain. Negli USA è infatti vietato l’acquisto di risorse che andrebbero a finanziare gruppi armati o che sono state estratte abusando di diritti umani.
La catena produttiva e distributiva dei minerali risulta dipendente dai cambiamenti dei prezzi delle risorse sul mercato mondiale. Questo, secondo Accord, conduce a periodi, come quello contemporaneo al boom del prezzo del coltan nei primi anni 2000, in cui molti gruppi ribelli concentrano i propri sforzi nella conquista e nello sfruttamento di giacimenti di minerali interessati dal rialzo. Una volta che i prezzi scendono, le milizie tornano a rivolgere l’attenzione verso fonti di guadagno tradizionali come i tributi sulla casa e la tassa sul trasporto, oltre che il furto e il contrabbando di flora e fauna protetta.
… e quelli locali
Ma non sono solo le milizie e i paesi confinanti a concorrere per lo sfruttamento massiccio delle risorse regionali.
Il Groupe de Recherche et d’Information sur la Paix et la Sécurité (GRIP), nella sua inchiesta del 2011 “Armes légères dans l’est du Congo: Enquête sur la perception de l’insécurité”, ha individuato un altro attore in armi che si inserisce nello scontro per il controllo dei minerali del Kivu settentrionale.
I legami delle FARDC (le forze armate della RDC) e della polizia nazionale con la criminalità e il banditismo locale avrebbero condotto infatti a numerosi casi di sfruttamento intensivo di siti minerari e di traffico di metalli preziosi a scopo di arricchimento personale. Questo fenomeno sarebbe una conseguenza del mixage a cui l’esercito congolese sarebbe stato sottoposto negli ultimi anni cioè del processo di integrazione di ex membri delle formazioni ribelli all’interno delle forze armate regolari. Il mixage, secondo il GRIP, avrebbe però introdotto nell’esercito congolese migliaia di elementi caratterizzati dalla mancanza di disciplina e da un passato violento e criminale a cui sarebbe stato concesso, nei diversi accordi in inclusione, di ubbidire ad una propria catena di comando parallela e indipendente da quella ufficiale. Sicuramente anche altri fattori, come la mancanza di una riforma delle forze armate e della giustizia militare, la corruzione e le irregolarità nel pagamento dei salari, hanno contribuito al dilagare del fenomeno. Nell’inchiesta del GRIP, su un campione di 10.000 abitanti del Kivu, le FARDC sono considerate come la seconda fonte di instabilità e pericolo nella regione, dopo il banditismo armato.
Ad oggi è stimato dal World Rainforest Movement che più di dieci milioni di congolesi del Kivu sono impiegati nel settore estrattivo, in particolare in attività legate ai 3Ts (Tantalum, Tin, Tungsten) e all’oro che rappresentano ancora oggi la maggiore fonte di introito per le comunità di villaggio locali. In alcuni casi i minatori locali si sono organizzati in cooperative come la CEMIKA, la COMIDE o la COMIMPA per poter vantare maggiore capacità contrattuale con i proprietari o i gestori dei giacimenti e per assicurarsi condizioni di lavoro più umane. La quasi totalità dei minerali provenienti dal Kivu settentrionale sono estratti con tecniche artigianali che spesso mettono in pericolo la salute e la vita stessa dei minatori.
Leonardo Maria Ruggeri Masini,
Geopolitica.info