Appena un mese fa Jared Kushner, già Senior Advisor per il Medio Oriente del Presidente Trump dichiarava trionfalmente che il conflitto israelo-palestinese fosse ormai “acqua passata”, grazie alla sua regia nella stipula degli accordi di Abramo e che quel poco – a suo dire – che rimaneva dell’annosa contesa tra israeliani e palestinesi era solo questione di “real estate” (cioé di mercato immobiliare).
Sheikh Jarrah: microcosmo di un conflitto
In questi giorni la storia puntualmente si è premurata di sconfessare tali previsioni a dir poco ottimistiche. Nel delicatissimo scacchiere mediorientale la scintilla è stata innescata ancora una volta dall’inestricabile rebus geopolitico rappresentato da Gerusalemme: l’”eterna capitale” per lo Stato d’Israele che l’ha “riunificata” a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967; al Quds “la Santa” per i palestinesi che la reclamano come propria capitale – condizione irrinunciabile per qualsiasi negoziato di pace con Israele.
Questa volta gli scontri hanno avuto origine non più da diritti negati a pregare sulla Spianata delle Moschee, da passeggiate provocatorie di politici israeliani sulla stessa, né da tunnel o lavori in corso nel suo sottosuolo – tutte azioni che in passato hanno provocato scontri sanguinosi, nonché lo scoppio della Seconda Intifada – bensì un paio di km più a nord, nel quartiere di Sheikh Jarrah, una zona residenziale all’inizio del ‘900, oggi uno dei tanti quartieri che compongono il ring della Grande Gerusalemme. Eppure questo quartiere relativamente sconosciuto al grande pubblico non si esime dal peso del passato millenario che grava su quasi ogni pietra della città. Qui alla fine dell’Ottocento, ancora in periodo Ottomano, alcune famiglie di religiosi ebrei acquistarono il terreno attorno cui si ritiene esservi la tomba di Simone il Giusto, Sommo Sacerdote del Secondo Tempio, divenuta nei secoli oggetto di venerazione e pellegrinaggio. Il resto del quartiere era abitato a maggioranza araba. Nel 1948, allo scoppio della guerra che vide la nascita dello Stato d’Israele e la sconfitta araba (la “Nakba” per i palestinesi) il quartiere venne a trovarsi sotto la giurisdizione giordana che controllava la parte Est di Gerusalemme come il resto della West Bank. A Sheikh Jarrah i giordani diedero i terreni attorno alla Tomba di Simone a famiglie di sfollati palestinesi, rimandando circa la regolarizzazione della proprietà degli stessi terreni.
Sennonché nel 1967 Israele riconquistava tutta Gerusalemme (Guerra dei Sei Giorni) e decretava il diritto al ritorno di tutti gli ebrei nelle aree su cui vivevano prima della guerra del ’48. I terreni attorno alla Tomba di Simone il Giusto vengono negli anni ’90 acquistati da un gruppo radicale di religiosi ebraici (Nahalat Shimon) che reclamano lo sgombero delle tredici famiglie arabe che tutt’ora vivono nell’area. Da qui gli scontri tra i residenti arabi e i militanti di Nahalat Shimon. Sebbene la Corte Suprema israeliana debba ancora pronunciarsi circa la legittimità degli sgomberi (la pronuncia, attesa per il lunedì10 maggio è stata rimandata) lo scontro è andato allargandosi a macchia d’olio fino a raggiungere il parossismo cui assistiamo in queste ultime ore: scontri violenti in tutta la città Vecchia di Gerusalemme; lancio di razzi da Gaza; risposta israeliana con vittime palestinesi nella Striscia.
Background politico e incertezze elettorali
Nè l’esplodere di tali violenze poteva cadere in un momento più propizio per gli estremismi di ambo i lati. È di qualche giorno fa la notizia che il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen (Mohmud Abbas), ha rimandato a date da destinarsi le elezioni legislative originariamente previste per il 22 Maggio. La loro indizione aveva innescato un generale e comprensibile entusiasmo, se si considera che il Consiglio Legislativo Palestinese non si rinnova dal 2006 (anno dell’eclatante vittoria di Hamas e della relativa “scissione” di fatto dell’Autorità Palestinese in due polities diverse, una a Gaza governata da Hamas e l’altra in Cisgiordania controllata da Fatah) mentre Abu Mazen è tutt’ora in carica, pur essendo il suo mandato scaduto dal 2009 – secondo i dettami della Carta Nazionale Palestinese.
La chiamata alle urne aveva messo in moto un processo di partecipazione come pochi se ne vedono nella regione, con 1400 candidati raccolti in oltre 35 partiti politici e con una forte partecipazione di giovani stanchi di leader percepiti come efficienti e gerontocratici, quando non apertamente corrotti. In tale quadro, Hamas, che insieme al Jihad Islamico vuole rilanciarsi come forza di opposizione armata contro Israele ha tutto da guadagnare nelle more delle elezioni, specie in una situazione infiammatoria come l’attuale: da un lato può denunciare una presunta manovra di Abu Mazen tesa a penalizzare il gruppo fondamentalista (la scelta di posticipare le elezioni è dovuta ufficialmente all’impossibilità di coinvolgere l’intero elettorato di Gerusalemme Est, causa veto israeliano); dall’altro può capitalizzare la frustrazione e le violenze di piazza per rilanciarsi come competitor di Fatah (le ultime proiezioni davano Hamas in netto calo) cercando di mettere in ombra le invero scarse performance politiche di cui ha dato prova a Gaza dalla presa di potere nel 2007.
Israele dal canto suo rappresenta un caso opposto di partecipazione al voto: nel marzo del 2021 ha infatti votato per le sue quarte elezioni in due anni e ancora lo scenario parlamentare è tale che nessuno schieramento ha la maggioranza per governare. Il Presidente della Repubblica Rivlin ha incaricato il leader del partito centrista e rivale di Netanyahu, Yair Lapid, di formare un nuovo governo. Se il tentativo dovesse fallire c’è il serio rischio di un’ulteriore tornata elettorale. Ora, in questo clima i partiti più radicali e lo stesso Netanyahu potrebbero essere tentati di “tirare la corda” con richieste più oltranziste, di ostacolare la formazione di un governo alternativo alla guida del Likud, richiedendo, ad esempio, che qualunque coalizione faccia a meno dell’appoggio del partito islamista di Mansour Abbas. Abbas, preseidente del Ra’am (o Lista Araba Unita) aveva deciso di rompere con la Lista Comune di altri 4 partiti arabo-israeliani e, forte dei suoi 4 deputati aveva intavolato trattative definite promettenti al fine di appoggiare un prossimo governo a guida Lapid, trattative adesso “congelate” alla luce degli ultimi accadimenti.
Gli ultimi sviluppi
Violenza e empasse politica dunque si autoalimentano reciprocamente in una spirale dall’esito imprevedibile: a oggi gli scontri su Sheikh Jarrah si sono estesi fino a trasformarsi in guerra aperta, con circa mille razzi lanciati da Gaza verso il Sud e il Centro di Israele provocando la reazione dello Stato ebraico che a sua volta – oltre a sganciare oltre un centinaio di bombe su Gaza – ha richiamato i riservisti e ammassa le sue truppe alla frontiera della Striscia. Si tratta dell’escaltation peggiore dalla Guerra di Gaza del 2014 e ha già portato a un bilancio provvisorio di 126 morti palestinesi e 8 israeliani. Oltre al lancio di missili e bombe, la spirale di violenza si è esacerbata tanto da includere linciaggi di cittadini, ora ebrei ora arabi, nelle principali città miste di Israele.
Il Security cabinet israeliano si è riunito già più volte per sta gestire tale crisi, mentre è già arrivato a Tel Aviv il Vice-Segretario di Stato USA con delega su Israele e Palestina, Hady Amr, nella speranza di negoziare un cessate-il-fuoco. Tuttavia nè l’alleato americano nè gli altri attori regionali (gli Stati del Golfo in primis, che con gli Accordi di Abramo sembravano voler inaugurare un “Nuovo Medio Oriente”) appaiono in grado di presentarsi come broker credibili per una pace che, come drammaticamente confermato in questi ultimi giorni, è tutt’altro che una questione di “mercato immobiliare”.