La grande assente dal dibattito e dalla prassi politica, ormai da troppo tempo, sembra ancora una volta essere la politica estera. Da una parte riscontriamo un sempre maggiore interesse per le questioni geopolitiche. E d’altronde non potrebbe essere altrimenti, visti i legami che sempre più ci interconnettono a livello planetario non solo dal punto di vista economico, finanziario e commerciale, ma anche da quello politico, comunicativo e, come si è visto nell’ultimo anno, sanitario. Dall’altra, però, la geopolitica intesa anche come agenda governativa non trova un particolare riscontro nella realtà fattuale degli ultimi anni.
Mentre si concentrano gli sforzi comunicativi e politici sulle intese da trovare a livello europeo, sulle questioni sanitarie più urgenti, sulla scuola, le migrazioni e sulla dimensione di politica interna, l’Italia da troppo tempo sembra perdere terreno nei quadranti geopolitici di maggior interesse nazionale, complice una certa postura degli esecutivi rispetto all’occupazione del Dicastero degli Esteri.
Troppo di sovente, infatti, negli ultimi anni l’incarico alla Farnesina è stato affidato per mere spartizioni politiche o quale frutto di mediazioni tra partiti: troppo poco spesso è mancata una reale visione di politica estera capace di dare profondità strategica e realmente globale all’azione governativa.
Questo si è reso drammaticamente vero negli ultimi tempi, quando l’Italia ha perso posizioni importanti in Libia, lasciando il campo all’aggressività turca e all’azione super regionale della Russia e perdendo occasioni per attestare il proprio ruolo strategico, energetico e, ancor di più, politico e diplomatico che avrebbe potuto garantire un utile posizionamento per il futuro anche sugli altri versanti.
Lo si è poi visto nelle azioni politiche intraprese dall’ultimo governo: dall’incredibile vicenda di Silvia Romano, con tutti gli errori comunicativi, propagandistici e politici fatti, fino alla più recente missione in Libia per il rilascio dei pescatori, con una serie di disastri piuttosto eloquenti. Anzitutto la durata della loro prigionia, che getta discredito sulla capacità diplomatica italiana; poi la geolocalizzazione inviata da Casalino ai giornalisti che gli chiedevano notizie del blitz (poi giustificata con un “errore del telefono”); ancora la vetrina e la legittimazione fornita ad Haftar, spostando enormemente gli assetti diplomatici italiani e dimostrando – anche come immagine che ne è derivata – un’imbarazzante sudditanza nei confronti del regime militare libico.
E poi non si possono non menzionare le enormi disattenzioni e le incapacità mostrate durante tutta la fase più emergenziale, in cui l’Italia è divenuta la passerella mediatica del regime cinese, di Cuba e della Russia e di moltissimi altri paesi che hanno approfittato delle difficoltà italiane come mezzo di propaganda internazionale, fomentata dalla ingenuità social e, ancor di più, dal vacuum istituzionale. Basti ripensare alla conferenza stampa della Regione Lombardia affidata a un medico cinese, in un’immagine simbolica deleteria, di delega decisionale a un soggetto straniero; alle dichiarazioni di plauso per le chiusure dell’équipe cinese in visita allo Spallanzani, che suggerivano oltretutto di “inasprire il regime della quarantena”; ai medici cubani scesi dall’aereo fino ai militari italiani in dialogo con quelli russi (che verosimilmente hanno acquisito informazioni utili a elaborare misure di contrasto, compreso il vaccino Sputnik V), solo per fare alcuni degli esempi più eclatanti.
Ma, ancor più degli errori comunicativi, propagandistici e istituzionali tornano in mente le colossali lacune geostrategiche e di posizionamento internazionale, con il pericoloso allineamento italiano alle posizioni cinesi. Ciò è avvenuto sul piano sanitario, applicando quel che a Wuhan era stato fatto per contrastare l’epidemia (o che così, almeno, era stato comunicato dal regime di Pechino), senza che ciò abbia sortito alcun effetto nel nostro (e non solo) contesto, visto il numero di morti per milione di abitanti che ci vede in fondo alla classifica mondiale, ma anche dal punto di vista politico, con le recenti dichiarazioni di Conte che ha parlato di un avvicinamento a Pechino “con un chiaro ancoraggio al nostro sistema di valori e di principi”. Parole di una gravità inaudita poiché oscuravano la mancanza di libertà del regime cinese, le persecuzioni di alcune minoranze, le enormi difficoltà dei fedeli a professare la propria religione in libertà, la repressione contro le proteste a Hong Kong e a Taiwan e il pervasivo controllo sociale operato dal regime.
Tale riposizionamento italiano smentiva oltretutto il legame storico con gli Stati Uniti, che pure nello stesso discorso era stato inopportunamente richiamato dal premier: spostare lo sguardo dall’Atlantico all’Oriente significa non solo mettere in discussione il nostro fondamento internazionale a partire dalla Seconda Guerra mondiale, ma cambiare prospettiva da un contesto liberal-democratico a uno autoritario; da uno in cui la garanzia di libertà – sebbene con tutti i limiti e le contraddizioni che gli Usa mostrano – è alla base del sistema politica a uno in cui non è affatto garantita, prendendo addirittura quest’ultimo come modello politico (e sanitario). Tanto che nell’ultimo discorso di Biden l’Italia non viene menzionata tra i maggiori alleati degli Usa.
E l’indecisione e l’oscillamento in politica – segnatamente in politica estera – difficilmente pagano.
Il prossimo governo dovrebbe considerare il Dicastero degli Esteri come realmente cruciale per i destini nazionali: per ribadire il nostro interesse e il posizionamento strategico italiano. Non si può prescindere dal contesto regionale, dagli asset energetici che guardano anzitutto al bacino del Mediterraneo, dal riferimento al modello liberal-democratico, dalla garanzia delle libertà costituzionali, dalla vicinanza con gli Stati Uniti e dal contrasto alle più pericolose forme di autoritarismo.
Il prossimo governo non può trascurare la dimensione geopolitica e di politica estera, che va oltre quella meramente europea e che deve rinsaldarsi in una spina dorsale risolutiva, chiara, lineare e che affondi le sue radici nella storia nazionale più e meno recente – che non può e non deve essere dimenticata – e nei nostri riferimenti geografici più immediati. Per far ciò occorre conoscenza, profondità di sguardo strategico e coraggio, e non più occupazione di comodo di incarichi istituzionali di primaria importanza quasi fossero il refugium peccatorum per politici da salvaguardare.
Alessandro Ricci,
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” – Geopolitica.info