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Il Primo Re – Mito e geopolitica della fondazione di Roma

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Roma nasce dal rapporto dell’uomo con il cielo e con la terra, da una geografia che coincide con la delimitazione del suo spazio d’azione politica, nonché da una cornice rituale che ne ha permesso la fondazione e poi l’espansione nel tempo e nello spazio.

Matteo Rovere confeziona un film coraggioso e straordinario. Anzitutto perché di prodotti cinematografici epici, in Italia, se ne sentiva un gran bisogno, uscendo fuori dalle consuete categorie di commedie e film in grado di raccontare solo vicende relative alla sfera privata che hanno contraddistinto molta della produzione degli ultimi anni. E poi perché si tratta di un kolossal a tratti ruggente, crudo e ancestrale e, solo apparentemente, con uno stile americano. Si denota infatti una mano culturalmente elevata, capace di dare una profondità di lettura unica, che in molti film storici a stelle e strisce, al contrario, è assente.

Alcuni diranno che la natura ha un ruolo eccessivo nel film, altri che è troppo violento. La natura, la geografia – selvaggia, simbolica, fattuale – erano però preminenti nella storia della fondazione, che nasce e ruota tutta attorno al rapporto con la natura e al dominio di quest’ultima. Nel mito vi sono i gemelli salvati dalle acque, che dunque metaforicamente dominano le passioni e gli istinti umani; si posano sotto al ficus ruminalis; salgono sui colli per interpretare il volo degli uccelli; Romolo che traccia un solco sul terreno per fissare i confini della nuova città. La natura, in altre parole, doveva essere preminente, selvaggia e dirompente. E così l’ha perfettamente resa il regista. Sarà solo attraverso il controllo di quest’elemento, che nel film appare effettivamente indomabile, che Romolo potrà inaugurare una nuova relazione tra uomo e ambiente e fondare, così, la civiltà romana.

Accanto alla virulenza della natura vi è quella umana, mostrata con una primordiale violenza. Essa non è però mai fine a se stessa. Sembra, piuttosto, necessaria, in quanto parte di un contesto mostrato in maniera volutamente brutale. Nel film si intende in altre parole rimarcare la capacità di Romolo di assumere il controllo della forza fisica, elevandosi al di sopra di essa anche in contrapposizione all’uso improprio che ne fa il fratello.

La chiave di lettura che il regista ha saputo dare alla pellicola rispecchia bene le fonti, seppur con qualche licenza che però non interferisce con lo spirito della Fondazione di Roma. Al contrario di molti film statunitensi, il fenomeno mitico non viene banalizzato secondo una lente tipicamente moderna e pienamente secolarizzata: il mythos è infatti il racconto che, anche nel silenzio del simbolismo, è capace di parlare agli uomini avendo a che fare con la presenza divina. È questo il tratto che viene rimarcato a più riprese nel Primo Re: senza fronzoli, attualizzazioni, implicazioni sentimentali né appiattimenti alla cultura odierna, troppo spesso incapace di leggere il fenomeno storico nella sua complessità organica e mitica, simbolica nel senso più alto del termine (da sun-ballo, vale a dire di unità tipicamente della dimensione umana e di quella sovraumana).

Il film coglie perfettamente quest’aspetto, tramandato nel corso dei secoli attraverso le fonti senza mai perdersi nelle macchiettizzazioni inutili tipiche di alcuni film. Si dipana tutto nell’alternanza tra i due gemelli, tra due modi di intendere e interpretare la vita, rispettando quel dualismo che ha contraddistinto anche altri miti: i fratelli uniti da un legame pressoché indissolubile che però hanno destini disgiunti e infine opposti. Remo conduce coraggiosamente il pugno di uomini distaccati da Albalonga, portando con sé e proteggendo la vestale custode del fuoco sacro. Il potere però corrompe la forza eroica di Remo, rendendola priva di ogni fondamento spirituale, trasformandola in titanica, mentre dall’altro canto emerge la personalità di Romolo, che si farà vivo interprete del destino sovrannaturale annunciato dagli dei.

È in questa fase che il regista mostra la sua bravura, sottolineando il cambiamento nella figura di Remo, che improvvisamente si spoglia di ogni carica divina per far maturare unicamente la sua volontà umana, la cupidigia di potere scevra dai precedenti legami, tanto che arriverà a rinnegare la stessa sacerdotessa. La metamorfosi è perfettamente raffigurata nel titanismo che lo porterà ad autoproclamarsi rex. Sarà invece Romolo a prendere le redini del fuoco sacro che si era quasi spento, facendosi portatore del disegno divino letto dagli auspicia.

In questi aspetti il film si discosta un poco dalla tradizione, secondo cui i due fratelli leggono direttamente i segni divini del cielo, non la figura sacerdotale attraverso le interiora dell’animale ucciso come riportato nel film. Secondo le fonti Romolo e Remo ascendono i colli rispettivamente Palatino e Aventino per leggere lo spazio celeste, suddiviso e reso spazio sacro: l’uno avrà come segno premonitore il volo di dodici avvoltoi, l’altro di sei. È proprio così che Romolo ha l’investitura di auctoritas regale per la conditio urbis, la fondazione della città, che avverrà tracciando un solco sul terreno (sulcus primigenius) nel luogo della lettura degli auspicia. La pellicola manca (è questa, a mio parere, l’unica pecca del film) della straordinarietà del gesto, che forse avrebbe reso ancor più maestose le pur straordinarie scene finali. Nel film risulta però ben chiara l’impossibilità di oltraggiare quello stesso confine indicato con dei rami. Sarà proprio il gesto sacrilego di Remo, nel pieno della sua hybris e ormai spogliato di ogni regalità, a costringere Romolo a sacrificare il fratello. Da sottolineare i dialoghi: Romolo afferma che il destino di Roma è di rendere gli uomini liberi, mentre sotto Remo sarebbero stati schiavi, vittime di un potere vacuo e tirannico.

La geografia non è, ovviamente, casuale. Gioca, anzi, un ruolo essenziale. Nel mito l’auguraculum è il luogo prescelto dai due fratelli per la lettura del volo degli uccelli e che ne segnerà anche il destino. Non solo. L’atto compiuto da Romolo è di indicare anzitutto dei confini chiari per la città, che disegnano il limite del luogo sacro fondato per volontà divina, e dunque non oltrepassabile. Il suo è sì un atto religioso che corrisponde all’adesione a un volere divino, ma è al contempo politico, se non più strettamente geopolitico.

La civiltà romana, pilastro di quella europea, nasce dall’individuazione e dall’affermazione di confini certi che, in virtù del loro carattere imperiale e divino, saranno poi destinati a espandersi spazialmente e temporalmente secondo il concetto di limes. Tutto nasce però da un elemento di certezza: il confine, capace al contempo di definire i limiti dell’azione regale e garantire sicurezze esistenziali per gli uomini. Non causalmente sarà il presupposto primo, all’indomani del Medioevo, per cristallizzare il nuovo ordine spaziale moderno fondato sugli Stati nazionali che nei confini dovevano riconoscersi e circoscrivere il proprio raggio d’azione. Oggi troppo spesso dimentichiamo che la nostra storia, anzitutto quella romana, si basa su tale presupposto fondativo, che fu per Roma essenziale per uscire dal mondo caotico, selvaggio e stabilire così i confini dell’azione dello ius, corrispondente a un ordine e, infine, per forgiare una coscienza personale e collettiva.

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