“We are the indispensable nation”, così Joseph Biden il 19 ottobre ha risolto, citando l’ex Segretario Albright, il dilemma strategico a cui gli Stati Uniti sembrano oggi sottoposti tra gravose urgenze e disegni strategici di disimpegno. Il biennio 2022-2023 ha, infatti, dimostrato tanto ai decisori quanto agli osservatori che la posizione di primato occupata dagli Stati Uniti costituisce per Washington sia privilegio sia ineluttabile destino. È questo “l’eterno ritorno” del deep engagement per la Casa Bianca, per cui le ricorrenti crisi internazionali costituiscono le cicliche ordalie dei propositi americani di retrenchment e selective engagement, svelando a tutti – volenti o nolenti, negli Stati Uniti o altrove – la distribuzione di potere sottostante l’attuale sistema internazionale. Vediamo, quindi, quali lezioni possiamo trarre dagli eventi degli ultimi 20 mesi.
La prima e più evidente lezione che gli eventi del biennio 2022-2023 sembrano impartire a decisori e osservatori è che il primato militare americano non lascia spazio a sfere di influenza esclusive. Washington continua ad attraversare liberamente il globo senza che nessun attore ancora sia in grado di interdire completamente alcun spazio geografico o politico.

Non vi è regione in cui un attore locale possa decidere senza tenere in considerazione – in certi casi addirittura senza consultare – la volontà statunitense. L’attivismo di Washington nel supporto all’Ucraina, al netto dei tatticismi dovuti alla campagna elettorale, dimostra che la Russia non può considerare sé stessa – né gli altri considerarla – egemone neanche lungo un confine che al punto più vicino dista 450 km da Mosca, a fronte dei circa 7500 che separano Washington dal confine occidentale ucraino. In questo senso, gli Stati Uniti sono più europei dell’Europa stessa se guardiamo alla sproporzione degli aiuti americani a Kiev rispetto a quelli degli attori del Vecchio Continente. Vi sono, pertanto, pochi dubbi che, in caso di abbandono statunitense, le sorti del conflitto verrebbero pericolosamente rovesciate.
E il quadro non sembra cambiare se spostiamo l’attenzione al quadrante mediorientale. Gli Stati Uniti rappresentano il principale fornitore di aiuti militari ad Israele che da Washington ha ricevuto dalla sua fondazione più di tutti gli altri Paesi assieme.

Nel triennio 2021-2023 gli aiuti militari assommano a 12,4 miliardi di dollari (dati USAID). Se a ciò aggiungiamo i 14,3 miliardi richiesti per Israele come fondo d’emergenza da Biden dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre la cifra sfiora i 27 miliardi. Per dare una misura delle proporzioni, secondo il Military Balance dell’IISS, il budget militare iraniano per l’anno finanziario 2021 è stato di 25 miliardi di dollari. Teheran dista poco più di 1000 km dal più vicino confine israeliano, Washington poco meno di 9500.
Ma il peso non è meramente numerico, gli Stati Uniti rappresentano oggi l’attore dirimente nelle questioni mediorientali. Per contenere il rischio di un escalation regionale del conflitto tra Israele e Hamas, gli Stati Uniti hanno dispiegato una massiccia forza di dissuasione: due portaerei a propulsione nucleare – la Ford e la Eisenhower – con relativi gruppi di attacco (incrociatori classe Ticonderoga, cacciatorpediniere Arleigh Burke e diversi altri vascelli), un sottomarino d’attacco classe Ohio, diversi squadroni aerei, una batteria aggiuntiva THAAD e diverse batterie Patriot, truppe, droni per ISR. Con questo dispiegamento gli Stati Uniti vogliono costituire un deterrente alla risposta iraniana e dei gruppi che Teheran sostiene in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Tuttavia, analizzando le forze in campo e vista l’evidente disparità del fronte a supporto di Israele, emerge chiaramente che oggi gli Stati Uniti costituiscono anche l’unico argine all’escalation militare di Israele contro Gaza. Paradossalmente, con la deterrenza estesa americana e un evidente squilibrio militare a favore di Israele, il solo attore con un potere negoziale sufficiente a richiedere ad Israele delle condizioni alla conduzione delle operazioni sul terreno e allo status quo che emergerà dopo la fine delle ostilità rimane Washington stessa. È esattamente questa la missione di Anthony Blinken, impegnato in un una shuttle diplomacy senza sosta tra Israele e Paesi arabi.
È proprio questo ultimo aspetto che dovrebbe ricordare una seconda lezione a decisori e osservatori: nelle alleanze asimmetriche, la sproporzione è tale che l’attore più forte può decidere in un senso o nell’altro delle vicende che coinvolgono l’attore più debole, la cui sicurezza è intrinsecamente dipendente dall’assistenza, dalla deterrenza estesa e, in ultima battuta, dalla difesa del senior partner. Tale realtà lancia un monito tanto ai partner quanto all’egemone. Ai primi detta il perimetro di azione ammonendo quando questi dovessero valicarlo senza averlo concordato con l’alleato più forte. Al secondo ricorda che al verificarsi di crisi regionali, dato il suo strapotere, a lui spetterà sobbarcarsi degli oneri più gravosi per la stabilizzazione della crisi. In questo modo, essa determina una ciclica preoccupazione per l’egemone del free riding degli alleati, troppo deboli per svolgere gli stessi compiti dell’attore più forte a cui preferiscono appaltare interi segmenti della propria difesa e della deterrenza con il rischio di beneficiare senza contribuire alla sicurezza dell’alleanza. È quello che oggi sta avvenendo in relazione ai dossier ucraini e israeliani dove il peso degli alleati europei nonché dell’Unione stessa è infinitamente più marginale di quello nordamericano.
Infine, il monumentale dispositivo messo in campo dagli Stati Uniti sia in termini di assistenza militare a Ucraina e Israele sia in termini di deterrente dispiegato ha sollevato preoccupazioni nel dibattito americano sulla solvibilità strategica, l’equilibrio tra risorse di potere e impegni. Il rischio è quello frequentemente richiamato dalla letteratura delle relazioni internazionali, l’overstretching degli impegni a fronte di risorse limitate. È questo, ad esempio, il principale argomento dell’opposizione interna a Biden che pesca dalla tradizionale retorica del “burro o cannoni”, sottolineando come il taxpayer statunitense sia l’unico a pagare veramente la sovraestensione degli impegni americani. Con retorica ha risposto Joe Biden in un’intervista a 60 minutes: “we’re the United States of America for God’s sake! The most powerful nation in the world, not in the world but in the history of the world […] We can take care of both [Ukraine and Israel] and still maintain our overall international defence. And if we don’t, who does?”.
Lorenzo Termine
Docente di Relazioni internazionali – UNINT
Ricercatore del Centro Studi Geopolitica.info