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Il “popolo in armi” africano: la lunga strada verso il disarmo

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Uno degli aspetti maggiormente enfatizzati dalla scuola strategica napoleonica è l’importanza della superiorità numerica, ritenuta fondamentale ai fini della vittoria in battaglia, tanto da Bonaparte quanto dai suoi discepoli europei. Nel mondo contemporaneo, il principio del “popolo in armi” lo vediamo concretizzarsi nel contesto degli Stati africani afflitti da guerre, dove, però, la proliferazione delle armi tra i civili, anziché portare a una vittoria decisiva del fronte più numeroso negli scontri armati, non fa che alimentare una spirale di violenza senza fine, in cui nessuna delle tante fazioni riesce a imporsi sulle altre. 

Il Gruppo di ricerca e di informazione sulla pace e la sicurezza (Grip) con sede a Bruxelles ha calcolato che sarebbero circa 40 milioni le armi in mano ai civili in tutta l’Africa e che il 30% di queste si concentrerebbe in Africa occidentale, anche se il tasso di diffusione maggiore si registrerebbe in Africa subsahariana, dove si stima un totale di 9,4 armi da fuoco ogni 100 abitanti. Se paragonata alla media del continente americano (46,2 armi da fuoco ogni 100 abitanti), la cifra africana sembra quasi irrisoria, ma ciò che fa la differenza è la mancanza, nella maggioranza dei Paesi africani, di regolamenti amministrativi che disciplinino il rilascio, il rinnovo ed eventualmente la revoca delle licenze per porto d’armi, con la conseguente prevalenza di detenzioni illecite.

Guardando alla provenienza di queste armi, la fonte storicamente più antica è sicuramente la fabbricazione indigena, il cui inizio è riconducibile al periodo coloniale, allorquando gli artigiani africani cominciarono a realizzare localmente armi simili a quelle occidentali. Alle armi artigianali si sono poi affiancate quelle prodotte legalmente dalle varie industrie autorizzate, presenti in ben undici Stati africani (Etiopia, Kenya, Tanzania, Uganda, Zimbabwe, Algeria, Egitto, Sudan, Nigeria, Repubblica Popolare del Congo, Sud Africa). Dopodiché, vi sono le armi provenienti dal mercato nero, la cui compravendita è gestita da attori di diversa natura, compresi funzionari statali o addirittura soldati delle missioni di peacekeeping corrotti. Interessanti sono in particolar modo quelle reti di traffico che al commercio d’armi associano altre attività illecite, quali il contrabbando di stupefacenti o il traffico di migranti; è il caso dei flussi transfrontalieri tra Chad, Sudan e Libia. Le fonti nazionali più cospicue di armi restano però gli arsenali statali. Un esempio lampante in tal senso fu offerto a suo tempo dalla Libia, dove, a seguito della caduta del regime di Gheddafi nel 2011, lo stock nazionale venne depredato da contrabbandieri e miliziani, i quali diedero poi vita a un flusso transnazionale, esportando le armi saccheggiate nel resto del continente, soprattutto verso il Sahel e la Somalia. Infine, vi sono le importazioni da Paesi esteri, i cui maggiori acquirenti sono l’Algeria, la Libia, il Marocco e la Tunisia, che da soli assorbono circa 3/4 delle importazioni totali verso il continente e nei quali l’afflusso di armi sarebbe addirittura in aumento rispetto agli anni passati.

 Ma quali sono gli attori esterni maggiormente coinvolti nel dirottamento e nel trasferimento di armi verso l’Africa? Naturalmente, questa è una domanda scomoda, la cui risposta non è scontata. A grandi linee, possiamo considerare attendibile l’analisi offerta dal rapporto dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri), relativo al quinquennio 2014-2018. Stando a questo resoconto, per quanto riguarda il Nord Africa, la classifica dei maggiori esportatori vedrebbe al primo posto la Russia (49% delle importazioni totali), seguita da Stati Uniti (15%), Cina (10%), Francia (7,8%) e Germania (7,7%), mentre per quanto concerne l’Africa subsahariana, la Russia rimarrebbe in testa (28%), ma questa volta seguita nell’ordine da Cina (24%), Ucraina (8,3%), Stati Uniti (7,1%) e Francia (6,1%). Nel complesso, è inutile dire che a poco sono serviti i diversi embarghi imposti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel corso degli anni, tant’è che, riferendosi alla Libia, il rappresentante speciale dell’Onu Stephanie Williams, ha definito l’embargo sulle armi “una barzelletta”.

Detto questo, sarebbe d’altra parte sbagliato ignorare o sminuire gli ammirevoli tentativi di arginare la proliferazione del commercio illecito di armi, intrapresi tanto a livello regionale che internazionale. In proposito, è doveroso citare l’impegno per la cooperazione transfrontaliera esistente rispettivamente tra Kenya ed Etiopia e tra Chad e Sudan, nonché la Convenzione firmata a Bamako (Mali) nel giugno del 2006, con la quale i 15 paesi membri della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) si sono imposti di intensificare i controlli sulla proliferazione delle armi leggere. Ciononostante, il grandioso obiettivo di silenziare le armi in Africa entro l’anno 2020”, fissato a Lusaka nel 2016 dall’Unione Africana, non può dirsi pienamente raggiunto, ma in ogni caso, l’adozione di una “Master Roadmap” in materia ha senza dubbio rappresentato un notevole progresso verso la risoluzione di questa piaga, soprattutto nella misura in cui ha incentivato l’avvio del ‘Weapons Compass, Mapping Illicit Small Arms Flows in Africa’, il primo studio al mondo sui flussi illeciti di armi in Africa.

In sintesi, possiamo concludere che, a dispetto dei numerosi lodevoli progressi raggiunti,la strada verso il disarmo è ancora lunga. D’altronde, come il generale Moltke, ex capo di Stato maggiore prussiano, disse un tempo, «i fucili si distribuiscono velocemente, ma è difficile riaverli indietro».

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