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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaIl petrolio nello scontro tra Teheran e Riad

Il petrolio nello scontro tra Teheran e Riad

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Il recente attacco sferrato (presumibilmente) sotto la regia dell’Iran al cuore petrolifero dell’Arabia Saudita s’inserisce nella crescente scia di tensioni che interessano l’intera regione del Golfo Persico e che seguono alla strategia della “massima pressione” avviata dal presidente Donald Trump contro Teheran. Con (imprevedibili) effetti sulle dinamiche petrolifere ed energetiche mondiali.

Nonostante regni ancora parecchia incertezza su quanto avvenuto sabato 14 settembre, in termini di reale entità dei danni e quanto ai responsabili, certo è che un attacco combinato, effettuato da droni e missili cruise, ha messo in ginocchio la produzione petrolifera dell’Arabia Saudita, un paese che, nonostante i recenti tentativi del principe ereditario Mohammed Bin Salman di diversificare l’economia di Riad, fa perno sulla vendita del petrolio per “mantenere in vita” lo stato sociale.

Un attacco al cuore della produzione saudita
I centri petroliferi di Abqaiq e Khurais non sono due obiettivi scelti a caso dai ribelli yemeniti Houthi o da eventuali altri responsabili. Si tratta, infatti, del cuore pulsante della produzione petrolifera saudita e mondiale. Se quello di Khurais è il secondo giacimento del paese con 1,5 milioni di barili al giorno (mbg) di capacità, l’impianto di Abqaiq, situato nella Provincia Orientale, è il centro nevralgico della politica energetica saudita, l’impianto dove viene effettuato il trattamento di quasi la metà del greggio estratto nel paese. Difficile calcolare con precisione l’entità dei danni, che sembrano però essere di gran lunga maggiori rispetto a quanto lascia trapelare il governo saudita.

Un evento traumatico per l’industria petrolifera
L’attacco agli impianti di Abqaiq e Khurais rappresenta il più grande danno provocato da un singolo evento per i mercati petroliferi. Con una perdita di circa 5,7 milioni di barili al giorno, l’evento di sabato supera la rivoluzione iraniana  del 1979, che portò ad una diminuzione della produzione di 5,6 mgb, nonché l’invasione, nel 1990, del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein e la guerra, nel 1973, dello Yom Kippur tra Israele e Paesi arabi quando in entrambi i casi la produzione crollò di 4,3 milioni di barili.

Le reazioni sul mercato del petrolio
La maggiore interruzione nella storia della produzione petrolifera mondiale ha provocato un immediato e drastico aumento dei prezzi del greggio (brent) di circa il 20% rispetto alle quotazioni del giorno precedente all’attacco. Un fenomeno di tale entità non si verificava dai tempi dell’invasione irachena del Kuwait ordinata da Saddam Hussein nel 1990. Se nel breve periodo la situazione sembra essere sotto controllo (le recenti dichiarazioni del Ministro dell’Energia saudita hanno riportato i prezzi del greggio a livelli molto vicini a quelli precedenti l’attacco), qualche preoccupazione potrebbe emergere qualora Riad non riuscisse a ripristinare in tempi brevi la propria produzione.

Il sostegno alla produzione mondiale di greggio
Per far fronte al calo della produzione conseguente all’attacco di sabato scorso, da un lato Riad ha attinto alle proprie riserve, che potrebbero essere però molto più limitate rispetto a quanto dichiarato ufficialmente. Dall’altro lato, Washington ha autorizzato l’impiego delle riserve strategiche americane ma ha chiarito come il ricorso allo shale oil non potrà essere una soluzione di lungo periodo dal momento che ci si aspetta a breve un incremento della domanda interna per far fronte all’inverno. Nessuna azione, per il momento, è stata intrapresa dall’Opec: sarebbe stata la stessa Arabia Saudita a frenarne l’intervento, preoccupata che altri produttori possano sottrarle quote di mercato. Al netto di ciò, però, i margini di manovra dell’Opec sarebbero alquanto ristretti, dato che solo gli Emirati Arabi e il Kuwait sarebbero in grado di aumentare la propria produzione in tempi brevi.

Lo scenario energetico
Quanto accaduto nei giorni scorsi s’inserisce in un preciso scenario globale e in uno scenario nazionale, quello di Riad, alquanto complesso. A livello globale, infatti, il calo della produzione saudita avviene in un momento in cui il mercato petrolifero si caratterizza per un surplus di offerta rispetto alla domanda, come dimostrato dal prezzo del petrolio che sino alla vigilia degli attentati si era assestato intorno ai 60 dollari al barile, ben lontano dagli 80 dollari che costituiscono il breakeven per il regno saudita. A ciò si aggiunga, come sottolineato anche dal Ministro dell’energia russo, che è possibile contare su un sistema di riserve strategiche e commerciali in grado di far fronte alla diminuita produzione saudita per il medio periodo. Nulla vieta, però, che movimenti speculativi possano portare, come ipotizzato da alcuni analisti finanziari, ad un prezzo del petrolio intorno a 100 dollari, soprattutto se Riad tardasse a ripristinare la propria produzione, un obiettivo che i sauditi confidano di raggiungere entro novembre.

Cosa succede a Riad
Più complicato è quanto sta avvenendo nel panorama energetico nazionale. Proprio recentemente, infatti, si è assistito all’avvicendamento al vertice del Ministero dell’Energia, dove Khalid al Falih è stato rimpiazzato dal principe Abdulaziz bin Salman, fratello del più giovane erede al trono, nonché alla guida di Aramco, la più importante compagnia energetica al mondo, dove è stato designato Yasir al-Rumayan, responsabile del principale fondo saudita d’investimento. Significativa la nomina di bin Salman alla guida della politica energetica del paese: la nomina di un membro della famiglia regnante è sicuramente un indice di preoccupazione per quanto sta accadendo nel paese e non solo.

La quotazione di Saudi Aramco
Quanto avvenuto nei giorni scorsi rappresenta una “minaccia” per il progetto del principe ereditario di quotare in borsa la compagnia Saudi Aramco, uno dei pilastri del programma “Vision 2020” lanciato nell’aprile 2016 e finalizzato alla diversificazione del comparto economico. È verosimile, infatti, che si assista ad un rallentamento del processo di quotazione e che difficilmente possa andare in porto nel mese di novembre. Un rischio che si materializza proprio quando i cambi ai vertici della politica energetica saudita avevano portato ad un’accelerazione del processo. Sarà infatti complicato per il principe ereditario convincere i potenziali investitori internazionali della stabilità della compagnia e della sua capacità di ripristinare la produzione in tempi brevi. Se c’è una cosa che emerge da questa vicenda, è proprio l’estrema vulnerabilità delle infrastrutture energetiche del paese, obiettivi strategici di eventuali (nuovi) attacchi terroristici.

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