Il Libano costituisce l’archetipo della fragilità geopolitica e geo-economica Mediorientale. Il consolidarsi della politica americana di selective engagement nell’Area Mediorientale ha rivivificato le aspirazioni egemoniche regionali saudite, iraniane ed egiziane ma anche israeliane e turche. Aspirazioni che hanno trovato terreno di confronto, da un lato, nella martoriata Siria e, dall’altro, nel delicato equilibrio interno a Beirut. Il Paese dei cedri si ritrova oggi, così, stretto tra una difficile autodeterminazione rispetto agli Stati limitrofi e un forte rischio di bancarotta. Quali le cause del default che rischiano di schiacciare Beirut nel confronto con gli altri competitors regionali?
La resilienza dopo la guerra civile
La Repubblica Parlamentare Libanese è sorta sulle ceneri di quindici anni di guerra civile, terminata il 13 ottobre 1990. Il suo consolidarsi è il frutto di contrastanti influenze: da un lato, l’influenza di Riyad intenzionata a guidare la Regione, in una supremazia politica sunnita e, dall’altro, l’ascesa sciita di Damasco e Teheran. Precipuamente, è stata l’ideologia sciita a prendere il sopravvento e influenzare l’evoluzione istituzionale della nazione. Ma in due sensi differenti. Da un lato, il regime baathista ha considerato, sempre, il Libano (insieme alla Giordania e alla Palestina) parte imprescindibile del progetto della “Grande Siria“. Dall’altro, l’Iran si è fatto istante del sentimento di insofferenza delle frange sciite della popolazione rispetto ad un ordine costituto che le vede emarginate politicamente ed economicamente. Non a caso, Teheran ha destinato un forte supporto logistico, finanziario e, soprattutto, ideologico a Hezbollah. Il Partito di Dio, così, da milizia a base confessionale, è riuscito a consolidarsi come organizzazione politica, grazie all’adozione di programmi educativi, culturali e socio-assistenziali a favore della popolazione sciita. Nel far ciò, ha piegato i suoi ideali islamici radicali, di matrice Khomeinista, alle peculiarità socio-economiche del territorio, divenendo strumento di destabilizzazione dei governi nazionali sostenuti, invece, dall’area sunnita. La natura multiconfessionale del Paese e le forti influenze esterne hanno, pertanto, reso più complicato il raggiungimento di una piena autodeterminazione nazionale. Al di là delle complesse e frammentate dinamiche interne, il Libano è riuscito ad interporsiautorevolmente nei confronti dei protagonisti della Global Society, distinguendosi per le capacità solutorie dei debiti di guerra e per la resilienza nell’avvio di una costante e progressiva crescita economica. Una economia, però, priva di una struttura produttiva e commerciale, essendo principalmente orientata all’erogazione di servizi, bancari e finanziari. Una strategia economica che è valsa l’epiteto di “Svizzera del Medio Oriente” e che si è consolidata grazie a imposizioni fiscali bassi e scarsi controlli pubblici. Non solo. Dati alla mano, investimenti, depositi esteri e rimesse hanno spinto, in egual misura, la crescita del Paese e sono riusciti a compensare le perdite derivate dalla diaspora di manodopera e di risorse intellettuali durante tutti gli anni di conflitto.
Oltre il “paradiso” fiscale, l’instabilità
L’aumento, costante nel tempo, dei flussi internazionali di capitali speculativi, di investimenti di breve periodo (non destinati al finanziamento delle attività produttive) e il preponderante ruolo degli hedge funds hanno reso sempre più netto lo sviluppo del settore finanziario rispetto allo sviluppo conosciuto dall’economia reale del Paese. E conseguentemente, hanno accelerato l’aumento del debito pubblico, la perdita di valoredella moneta nazionale e reso dilagante la corruzione. Perciò, al progetto di ricostruzione del Paese ha fatto seguito un programma di risanamento della finanza pubblica, di riduzione delle spese, soprattutto sociali, e di copertura del debito con percentuali alte di entrate fiscali. Ne sono derivati un ispessimento delle disuguaglianze di reddito e una forte disparità di ricchezza; tanto che, allo spirare del 2019, solo l’1% della popolazione deteneva ben un quarto della ricchezza del Paese. La restante parte viveva con meno di 4 dollari al giorno, ovvero meno di 108 euro al mese. Una situazione di insostenibilità economica di cui si sono fatte portavoce le proteste di piazza che hanno caratterizzato l’autunno 2019 e si sono protratte sino alle dimissioni del Governo, sunnita e filosaudita, di Saad Hariri (al potere dal 2016).
Le sfide del nuovo governo
Nel Gennaio scorso, così, Beirut ha visto nascere un nuovo governo con al timone Hassan Diab (già ministro dell’Istruzione), ampiamente sostenuto da Hezbollah. Sin dal suo insediamento, Diab ha dovuto affrontare molte sfide per la sopravvivenza del Paese. Prima fra tutte, il più il più alto rapporto al mondo di rifugiati per abitante: l’interminabile guerra siriana ha spinto sino ad 1,5mln di profughi verso il territorio libanese, appesantendo ulteriormente le spese pubbliche. In secondo luogo, un debito pubblico abnorme, superiore al 160% del PIL. In terzo luogo, la penuria di valuta estera: dopo le vertiginose svalutazioni della lira libanese, degli anni ’90, infatti, la politica monetaria si è orientata verso l’adozione di un tasso fisso di 1,507 lire per un dollaro. In questo modo, il dollaro è divenuta la principale moneta nelle transazioni finanziarie. Sennonché, l’instabilità politica interna (compresa la chiusura degli istituti bancari, durante le proteste autunnali) e le altalenanti dinamiche regionali hanno fortemente scoraggiato gli investitori stranieri. Minori depositi esteri hanno corrisposto inferiori riserve di dollari necessarie per adempiere ai pagamenti verso i creditori stranieri.
Mancanza di fiducia del mercato e penuria di valuta estera
L’eccessiva esposizione al debito costituisce il dato caratterizzante il sistema economico postmoderno e l’attività di ogni operatore del mercato, comprese le singole entità statali. Pur di conseguire le risorse necessarie all’attuazione delle proprie politiche (in mancanza o insufficienza di ricchezza reale interna prodotta) gli Stati ricorrono al prestito (da parte di finanziatori privati o fondi sovrani), per mezzo dell’emissione di titoli di debito (e la concessione di interessi composti). Ma in questo modo si avvia una spirale perversa ove gli Stati accumulano debiti su debiti, al limite della loro possibilità di solvenza, esponendo la propria politica al giudizio del mercato. Ed, infatti, la situazione finanziaria libanese ha incominciato a vacillare quando gli operatori del mercato si sono mostrati propensi ad acquistare nuovi titoli di debito solo a fronte del riconoscimento di maggiori garanzie, in termini di più alti tassi di interesse. Tassi di interesse composti che hanno incominciato a divenire a tre cifre da 300% a 600% per ogni tranche di nuovi Bond emessi. La perdita di fiducia del mercato nei confronti del governo libanese si è tradotta, così, in una ulteriore riduzione delle riserve di valuta estera (da $ 55mln a $ 22mln), generando, a sua volta, una contrazione nel mercato delle merci importate. Un dato di non poco conto, per un Paese che importa tutti i beni necessari alla sopravvivenza della popolazione (con un disavanzo commerciale di $ 15368 mln).
Svalutazione e debito ingombrante: le soluzioni auspicate
Al presidente della Banca centrale, Riad Salameh, riconfermato per la terza volta, perciò, non è rimasta altra scelta: ricorrere agli strumenti dell’ingegneria finanziaria o dichiarare il default. In primis, sono stati posti limiti ai prelievi moneta estera, per un massimo di 500 dollari al mese, pari al 50% in meno rispetto alla cifra concessa precedentemente. Cercando, in questo modo, di preservare una minima capacità del Paese nell’acquisto di beni di prima necessità dall’estero. In secundis, si è cercato di tamponare la svalutazione della lira sul mercato nero (di oltre il 40%), nonostante il tasso di cambio fisso. Il ricorso all’ingegneria finanziaria è apparsa, comunque, l’unica soluzione. Infatti, per un certo lasso di tempo nei corridoi della Banca Centrale ha serpeggiato l’idea di procedere verso derivanti di copertura del rischio di cambio (swap). La Banca Centrale stipulando contratti di swapcon gli investitori esteri, si sarebbe esposta a pagare solo la differenza tra i tassi d’interesse al momento della stipula e quelli alla scadenza. Ma l’attuazione di questo progetto è stata impedita dalla forte opposizione dei creditori stranieri e dall’avvertimento della società di rating Fitch, secondo cui una simile operazione avrebbe costretto a una revisione del rating sovrano al livello di “default selettivo”.
Sabato 7 marzo 2020: il default?
Sabato 7 marzo 2020, oramai, rappresenta una data indelebile nella storia del Paese dei cedri. Il presidente Diab è stato costretto ad ammettere che “il debito è diventato più grande di quanto il Libano possa sostenere ed è impossibile per i libanesi pagare gli interessi” sulle tranche di Bond in scadenza tra marzo e aprile. In altri termini, Diab ha sospeso per 15 anni il pagamento dei suoi debiti, fissando una nuova scadenza nel 2035. In questo modo, Beirut si qualifica come debitore moroso ma non definitivamente inadempiente. Al contempo, modificando unilateralmente i termini temporali di adempimento, ha manifestato una volontà propositiva di iniziare nuove trattative con i creditori, al fine di ristrutturare il debito. Si configura sì un profilo di default selettivo o parziale come aveva temuto Fitch, ma superabile mediante nuove negoziazioni con i creditori.
Volontà negoziale
I termini dei negoziati con i creditori esteri insoddisfatti, possono andare da un allungamento dei tempi di adempimento ad un taglio (haircuit) del valore nominale dei bond. Il Libano è membro del FMI che al momento ha inviato una propria delegazione esclusivamente per una “consulenza tecnica”. Spetta al governo, infatti, esprimere parere favorevole ad un programma di risanamento gestito dal Washington Consensus. Ma Hezbollah esclude la ammissibilità di ingerenze esterne (la condizionalità del FMI) nel Paese. Probabilmente, l’inasprirsi della situazione, in virtù dall’imminente emergenza sanitaria Covid-19 potrebbe spingere Hezbollah a mutare la propria posizione ed accettare l’intervento del FMI nel piano di risanamento del Paese.