I Rohingya costituiscono ad oggi, una delle più grandi popolazioni apolidi (senza nazionalità) del mondo. Nel 2017 più di 900,000 Rohingya furono costretti a lasciare il Myanmar (Birmania) per cercare rifugio nel vicino Bangladesh, centinaia di migliaia morirono sotto la furia omicida della forza militare e della popolazione. I quasi 600,000 Rohingya rimasti nello stato del Rakhine (stato sulla costa ovest del Myanmar) sono soggetti a continue violenze e sono confinati in villaggi per sfollati senza avere accesso ai bisogni primari. Il genocidio, avvenuto con la consapevolezza del governo democratico di Aung San Su Kyi -premio Nobel per la pace nel 1991- sembra essere caratterizzato da incompatibilità religiose fra i gruppi etnici. Tuttavia, se si scava più a fondo, le radici dell’odio sembrano essere altre.
La persecuzione dei Rohingya- minoranza etnica musulmana presente nello stato del Myanmar (Birmania)- ha inizio nel 1962 ed è aumentata a dismisura fino a raggiungere il suo picco nel 2017, quando ha assunto le forme di un genocidio.
Per comprendere le radici di tale odio bisogna compiere un excursus storico procedendo a ritroso, fino ad arrivare al 1824, anno della colonizzazione britannica. Prima di allora le storie di Arakan/Rakhine (regione dove i Rohingya rappresentavano il gruppo più numeroso) e la Birmania si sviluppavano separatamente. Con la colonizzazione britannica i due territori vennero unificati, dando inizio alle prime tensioni fra gruppi etnici. Le tensioni crebbero quando, durante la Seconda guerra mondiale, i Giapponesi invasero la zona e vennero inizialmente accolti dai nazionalisti burmesi, ma non dai Rohingya, i quali supportavano i coloni britannici. Quando la Birmania acquisì l’indipendenza, nel 1948, alcuni Rohingya diedero vita ad un esercito e chiesero l’annessione dello stato di Arakan nel nuovo Pakistan (ora Bangladesh). Il tentativo fallì, ma le conseguenze di questo atto ebbero lunga vita. Il neocostituito governo burmese iniziò a guardare alla popolazione musulmana di Arakan come stranieri ostili al regime. Questi eventi portarono alla credenza che solo i buddisti (religione praticata dalla maggior parte della popolazione burmese) potevano far parte della nuova nazione.
Il nuovo stato della Birmania era caratterizzato da numerosi gruppi etnici che, nonostante le diatribe, vissero in relativa pace fino al 1962, anno in cui Ne Win prese il potere. Il governo militare di Ne Win, consapevole dell’eterogeneità della popolazione, fece del buddismo un criterio essenziale per essere un “vero birmano”, definendo la popolazione dei Rohingya una razza “mezzo-sangue”. Questa mossa venne attuata strategicamente dal governo militare per guadagnarsi il supporto della popolazione burmese. Come?
Secondo la “Securitization Theory” – teoria usata negli studi di sicurezza internazionale – un attore (in questo caso il governo militare di Ne Win) costruisce tramite la sua retorica una minaccia (i Rohingya), e cerca di convincere un pubblico (la popolazione burmese) della necessità di combattere quella minaccia per poter sopravvivere. Per poter giustificare davanti alla popolazione burmese le azioni che intraprenderà contro questa “minaccia”, il governo di Ne Win esaspera l’urgenza di eliminare i Rohingya. Lo sfruttamento delle differenze etniche e religiose fra Rohingya ed il resto della popolazione viene così estremizzato e contribuisce alla formazione di un comune capro espiatorio che funge da collante fra il governo militare e la popolazione burmese.
Nel 1974, avendo bisogno di indurre una distrazione al periodo di crisi economica in cui riversava la Birmania, il governo militare decise di enfatizzare la minaccia dei Rohingya privandoli del loro diritto di cittadinanza. La legge della “cittadinanza Burmese” del 1982 decretò definitivamente lo status di stranieri della minoranza musulmana. Tutti questi atti giuridici vennero accompagnati da discorsi che dipingevano la comunità dei Rohingya come una minaccia alla vera esistenza della nazione, aumentando sempre di più la loro esclusione.
Con il presidente Thein Sein, nel 2011, ebbe inizio la transizione democratica dello stato di Myanmar. Tuttavia, il processo di “securitization” portato avanti fino ad ora dal governo precedente aveva reso la nazione caratterizzata da profonde e radicate fratture fra gruppi etnici.
Queste divergenze furono evidenti quando il governo “democratico” di Thein Sein introdusse delle leggi di stampo liberale. In seguito a queste riforme, la popolazione burmese, preoccupata di un’acquisizione di potere da parte dei Rohingya (la “minaccia”) iniziò a sferrare numerosi attacchi alla minoranza musulmana.
Il governo, consapevole di dover acquisire seguito politico iniziò a supportare queste violenze, incoraggiando la retorica “anti-islam” basata sulla difesa dell’identità burmese. Proprio per questo, nel 2015, il presidente Thein Sein promulgò quattro “leggi per la protezione della razza e della religione” che includevano la ‘soppressione culturale’ e ‘politiche biologiche’, due step fondamentali che, secondo il libro dello studioso Mann “Il lato oscuro della democrazia”, fanno parte del processo di pulizia etnica.
Durante le elezioni del 2015, quando salì al potere il partito del Premio Nobel per la pace Aung San Su Kyi, la popolazione internazionale si aspettava un cambiamento nei confronti dei Rohingya. Tuttavia, questo non avvenne e le violenze perpetrate dalla popolazione burmese, nei confronti della minoranza etnica, assunsero le forme di un genocidio sotto il tacito consenso di una “democrazia”. Nel 2017 migliaia di Rohingya vennero uccisi, le donne della comunità furono vittime di diversi episodi di violenza sessuale, quasi metà dei loro villaggi venne bruciata e distrutta. Ad oggi, quasi 900.000 Rohingya sono emigrati in Bangladesh e molti sono ancora nei campi per sfollati in Myanmar (Birmania). Una comunità senza cittadinanza, senza uno stato, vittime di un odio che ha radici radicate troppo in profondità per poter essere estirpate.