Elezioni: parola chiave nel 2020, quasi paradossalmente per una regione spesso in bilico tra democrazia e tentazioni autoritarie (nonché dittature elettoraliste, come Venezuela e Nicaragua). Eppure, non può terminare quest’anno senza ricordare il referendum costituzionale cileno -che chiude una pagina del passato politico aprendone una su un futuro tutto da disegnare-, le elezioni presidenziali in Bolivia -dove Evo Morales non si è candidato, ma sorprendentemente il MAS con Arce riconquista la presidenza dopo un anno di rissoso interinato delle opposizioni-. Nel Venezuela, dove l’opposizione attende di trovare la strada per la celebrazione di presidenziali regolari e libere e Maduro celebra l’ennesima consultazione non riconosciuta dalla comunità internazionale democratica, il regime è finito sotto accusa della giustizia federale USA per narcoterrorismo. Tutto ciò, mentre la Casa Bianca “conquista” per la prima volta nella storia, con Mauricio Claver-Carone, il vertice del più importante organismo emisferico di finanziamento allo sviluppo, la Banca Interamericana di Sviluppo, sulla quale si allunga da qualche anno l’ombra di Pechino.
L’articolo è stato scritto da Andrea Merlo, Stefano Di Giambattista, Davide Merando e Simone Vitali che partecipano ai progetti dell’Area America Latina del Centro Studi.
Cile: referendum, vittoria schiacciante del sì. Verso una Nuova Costituzione
Il 2020 in Cile si è aperto con la certezza che nel mese di aprile si sarebbe tenuto un Referendum costituzionale. La consultazione era stata programmata nel mese di novembre a margine dell’“Accordo per la pace e una nuova Costituzione”, con il quale le forze di maggioranza e opposizione avevano posto fine alle manifestazioni iniziate il mese precedente. Ad innescare le proteste contro il Governo era stata l’approvazione di una legge che stabiliva un rialzo del prezzo dei biglietti della metropolitana della capitale cilena. Dopo una fase iniziale di proteste pacifiche la situazione aveva avuto un risvolto drammatico, portando alla morte di oltre 20 persone. La motivazione degli scontri rappresentava il simbolo di un malcontento della popolazione per le disuguaglianze socio-economiche, gli alti costi dell’assistenza sanitaria e lo scarso finanziamento dell’istruzione, oltre che, per l’appunto, per il perdurare in vigore della Carta costituzionale ereditata dal regime di Augusto Pinochet.
Con il rapido propagarsi del nuovo coronavirus però, e la necessità di evitare assembramenti durante il voto, il Parlamento ha deciso di posticipare la data del Referendum costituzionale, fissandola al 25 ottobre 2020. Al referendum hanno partecipato 14 milioni di persone, chiamate non solo a scegliere se accettare la stesura di una nuova Carta (Apruebo) o rifiutare un nuovo percorso costituzionale (Rechazo), ma anche ad indicare se a definire la nuova Carta dovesse essere un’Assemblea Costituente composta interamente dalla cittadinanza (Convención Constitucional) o mista (Convención Mixta), per metà composta da membri del Parlamento. L’esito della tornata elettorale ha visto prevalere, come da pronostici, la mozione “Apruebo”, con il 78% dei voti. I cittadini hanno inoltre stabilito che ad occuparsi della stesura della nuova Costituzione sarà un’Assemblea da eleggere ex novo il prossimo aprile, il cui lavoro sarà sottoposto a nuovo referendum all’inizio del 2022.
Mauricio Claver-Carone, primo statunitense eletto Presidente della Banca Interamericana di Sviluppo
Conosciuto a Washington per il suo attivismo anti-castrista come lobbista e per la sua ferma opposizione a Nicolas Maduro, lo scorso settembre, l’americano di origine cubana Mauricio Claver-Carone è stato eletto presidente della Banca Interamericana di Sviluppo (IDB), uno degli istituti di credito bancario più grandi a livello globale e principale fonte di finanziamento allo sviluppo per la regione latinoamericana.
Mauricio Claver-Carone è il primo cittadino statunitense a guidare la Banca Interamericana di Sviluppo nei suoi sessantun anni di storia. L’elezione del candidato nordamericano ha però sollevato anche la contrarietà di alcuni leader della regione latinoamericana, prevalentemente importanti ex capi di Stato, che, ricalcando la posizione dei Paesi contrari, hanno sottolineato come tale elezione rappresentasse la violazione di una regola non scritta che l’organizzazione multilaterale ha osservato per più di sei decenni a beneficio di un coinvolgimento più diretto delle leadership politiche regionali. Quando fu fondata nel 1959, il presidente americano Dwight Eisenhower promise che l’istituto sarebbe sempre stato guidato da un latino-americano, ma tale consuetudine non rientrava nei piani di Donald Trump, che ha indirizzato la sua scelta su una figura di fiducia, Mauricio Claver-Carone appunto. Questa manovra sembra essere ispirata dalla necessità di porre direttamente un contrappeso decisivo alla crescente influenza geoeconomica e finanziaria cinese, anche all’interno della stessa BID, altro terreno di scontro-confronto con Pechino. La mossa di inserire un americano alla guida di un organismo così importante è stata fortemente voluta dall’amministrazione trumpiana come segnale di forte condizionamento per il supporto agli investimenti per lo sviluppo economico, sociale e istituzionale nella regione dell’America Latina e centrale.
La sua nomina ha attirato una certa attenzione sul suo ruolo nella politica estera statunitense nei confronti di Cuba degli ultimi anni, in cui l’amministrazione Trump ha rafforzato le restrizioni al commercio e ai viaggi nell’isola. A differenza dei suoi predecessori, Claver-Carone è meglio conosciuto come politico e avvocato che come economista: è stato uno degli “architetti” delle politiche di “massima pressione” contro Caracas e La Habana, eppure la sua elezione è stata vista come una vittoria per la Casa Bianca, ma da taluni anche come una sconfitta per gli equilibri latinoamericani e della “autonomia” intraregionale.
Arrivato nel team della Casa Bianca nel 2018, il nativo di Miami si è rapidamente sintonizzato sulla medesima linea dura promossa dall’allora consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, nei confronti del Venezuela, sposandone la convinzione che il governo cubano presti un decisivo sostegno a Maduro. Il 1 ottobre 2020 Claver-Carone ha assunto ufficialmente la carica di presidente della BID, succedendo al colombiano Luis Alberto Moreno, che aveva guidato l’istituzione con sede a Washington negli ultimi quindici anni. La sua nuova posizione di presidente della BID è una delle più influenti della regione, poiché implica mantenere contatti regolari con i capi di stato dell’America Latina e dei Caraibi per gestire un portafoglio di circa 13 miliardi di dollari all’anno in prestiti e garanzie.
Per decenni la banca ha avuto un ruolo chiave in una regione che ha poco accesso ai mercati internazionali dei capitali ma contribuisce al finanziamento di progetti di infrastrutture e di sviluppo sociale che ora saranno più vitali che mai. Da verificare quale sarà, inoltre, la capacità di Claver-Carone di integrarsi nella visione della nuova Casa Bianca per l’America Latina, che presumibilmente assomiglierà assai poco a quella dei panamericanisti trumpiani.
Venezuela: Caracas, l’accusa della giustizia federale USA e l’Operazione antidroga nei Caraibi
Sul fronte venezuelano, il 2020 ha registrato il punto di più alta conflittualità tra Caracas e Washington come mai nei precedenti 20 anni di vita della “rivoluzione” chavista. Come anticipavamo in un’analisi dello scorso maggio, il diffondersi della Covid19 su scala globale non ha indotto la Casa Bianca ad allentare la strategia di “maximum pressure”. Di particolare rilievo è stato l’annuncio dell’intenzione del Dipartimento di Giustizia USA di imputare e perseguire i più alti gerarchi venezuelani (Maduro, Cabello, Al Aissami e via dicendo) per crimini di narcoterrorismo, riciclaggio e corruzione internazionale. L’imputazione federale ha ufficializzato un cambio di passo nella qualificazione da parte di Washington dei detentori de facto del potere in Venezuela. Dal 26 marzo scorso, giorno della conferenza stampa dell’Attorney General William Barr, l’intero apparato statuale americano (giurisdizionale, diplomatico, militare) è tenuto a trattare Caracas come il quartier generale di una organizzazione di crimine internazionale, più che come una dittatura “tradizionale”. Snodo nevralgico dei traffici di narcotici verso nord America ed Europa, rifugio sicuro di narcoguerriglie colombiane (FARC, ELN), testa di ponte di Hezbollah nell’emisfero americano, il Venezuela chavista-madurista è stato il vero obiettivo della più grande operazione mista militare e di law enforcement della storia dei Caraibi, forse dell’intera regione, non casualmente inaugurata pochi giorni dopo l’indictment federale di fine marzo, e dispiegatasi come operazione prevalentemente marina, a guida USA ma di carattere multilaterale (vedendo la partecipazione di mezzi e uomini di una ventina di Paesi tra latini ed europei). La svolta “criminologica” della strategia americana verso il Venezuela non ha condotto all’esito politico sperato, ma ha senz’altro determinato due conseguenze non trascurabili: 1) la contrazione delle risorse con cui extra-ufficialmente il regime finanzia sé stesso, parte della catena di alleanze internazionali e della macchina di repressione interna; 2) un’ulteriore deterioramento dell’immagine dell’esperimento politico bolivariana, cui è sempre meno agevole accostarsi diplomaticamente, anche per i Paesi amici. A quale esito avrebbe condotto questa strategia nel medio periodo, rimarrà probabilmente tema di speculazione politica, visto l’ormai imminente cambio di colore dell’amministrazione americana. E’ probabile attendersi un atteggiamento meno assertivo, più diplomatico e più dialogico da parte della nuova amministrazione: in tale atteggiamento meno assertivo potrebbe rientrare la possibilità di separare la strada criminale da quella diplomatica, riaprendo un canale diretto con parte del regime, in una tortuosissima e rischiosa strada per una uscita negoziata di Maduro dal potere. In una fase in cui la stessa opposizione venezuelana pare andare in contro ad un processo di riforma della propria agenda politica (se non nella strategia, quantomeno nella tattica), è estremamente difficile tracciare previsioni sul futuro del Paese: archiviare la politica della “maximum pressure” trumpiana significa (salvo sorprese) mettere da parte lo scenario del regime change come prima opzione. Preludio –chi può escluderlo?- di un Venezuela senza Maduro ma non senza chavismo?
Bolivia, elezioni presidenziali: Luis Arce eletto Presidente, il MAS torna al potere
Nel mese di Novembre 2019, a seguito di uno scontro con le opposizioni nato scatenato da presunti brogli nelle elezioni presidenziali, il presidente Evo Morales, complice la pressione da parte degli alti ranghi dell’esercito e della polizia, di alcune cancellerie estere nonché di manifestazioni di piazza nelle principali città del Paese, annuncia le sue dimissioni “per preservare la pace del popolo boliviano”. Lo scontro istituzionale fra Morales e le opposizioni ha avuto come epilogo la richiesta, da parte dei principali esponenti dell’esercito e della polizia nei confronti di Morales, di rassegnare le dimissioni.
Il periodo elettorale e pre-elettorale del 2019 che ha portato alle dimissioni di Morales è stato particolarmente turbolento e altrettanto turbolento, anche giuridicamente, è stato il periodo successivo alle dimissioni. Per settimane infatti si sono susseguite notizie di scontri fra manifestanti e forze dell’ordine con feriti e vittime. Mentre Morales viaggiava dal Messico verso l’Argentina, una seduta del Senato, priva di quorum, sceglieva una riluttante Jeanine Añez, fra le principali figure del partito Unidad Democratica, quale presidente del Senato e successivamente come presidente della Repubblica ad interim (passaggio politico e giuridico non privo di “forzature”, secondo taluni), con l’incarico di traghettare il paese verso nuove elezioni, inizialmente previste per maggio 2020 e in seguito posticipate a causa del COVID-19 al mese di ottobre.
La popolazione Boliviana, nonostante avesse criticato l’operato di Morales penalizzandolo con un risultato elettorale che non gli ha permesso di divenire presidente al primo turno, per la prima volta nella storia del paese, non ha comunque unanimemente accolto con positività le pressioni delle gerarchie militari e delle opposizioni per le dimissioni del presidente, né l’insediamento di Jeanin Añez che non godeva del consenso raccolto né dal MAS né da altri membri dell’opposizione come Carlos Mesa (ex presidente della repubblica dal 2003 al 2005) leader della coalizione centrista Comunidad Ciudadana, o Luis Camacho.l
Durante i primi mesi del 2020 la Presidente ad interim Jeanine Añez annunciava che non avrebbe partecipato direttamente come candidata alle elezioni presidenziali, mentre venivano invece ufficializzate le candidature di Carlos Mesa alla guida della coalizione Comunidad Ciudadana, di Luis Fernando Camacho alla guida di Creemos, e di Luis “Lucho” Arce (ex ministro dell’economia con Morales) alla guida del Movimiento al Socialismo (MAS).
Il periodo elettorale è stato caratterizzato dalle restrizioni imposte dal governo Añez in risposta alla pandemia, ma il dibattito della campagna elettorale ha creato un vasto consenso in particolare attorno alle figure di Mesa e di Arce. A seggi appena chiusi, i primi exit poll indicavano un consenso di oltre il 52% nei confronti di Arce e del MAS ed hanno spinto persino la presidente ad interim Jeanine Añez a riconoscere, senza neppure aspettare lo scrutinio completo, la vittoria di Luis Arce. Lo scrutinio effettivo ha poi consacrato ufficialmente come vincitore Luis Arce con oltre il 54% dei consensi, risultato storico per il MAS, e riconfermato Comunidad Ciudadana di Carlos Mesa come principale partito di opposizione.
A distanza di meno di un mese dall’esito elettorale, il MAS ha denunciato di aver subito un attentato dinamitardo presso la sede di La Paz dove si svolgeva una riunione con la partecipazione del neo-eletto presidente Arce che ha espresso il suo rammarico per come il governo transitorio avrebbe risposto al grave episodio e sollevato dubbi riguardo una poco tempestiva risposta delle autorità e del ministero competenti.
Molti si chiedono cosa accadrebbe se Morales tornasse in Bolivia, chiamato a rispondere alle accuse di “stupro e traffico” a causa di due sue presunte relazioni con ragazze minorenni; sono invece cadute le accuse di terrorismo.
La presidente ad interim uscente Jeanine Añez invece potrebbe essere chiamata a rispondere in sede penale, previa autorizzazione del Parlamento, delle accuse legate alla repressione delle manifestazioni durante le quali si sono registrate una decina di morti e centinaia di feriti.
Un 2020 che si chiude quindi con una netta conferma della frammentazione e incapacità delle opposizioni di trovare una sintesi, e del peso politico del MAS nel Paese, ma con un grande interrogativo: vorrà Arce discostarsi dalla strada, sia interna che internazionale, tracciata dallo storico leader cocalero Morales?